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mercoledì 3 ottobre 2018

Di Maio


Se fossimo un popolo che ha a cuore il proprio destino dovremmo sentire il puzzo di carne marcia che esala dal nostro organismo in putrefazione. Siamo un Paese allo sfascio e la finanza allegra alla quale si dedicano i grillini ricorda l’anima spensierata dei governanti che li hanno preceduti e lasciati eredi di vizi antichi. Questi strani personaggi piombati sulla scena politica e il loro capo, l’on. Di Maio, più che a politici somigliano ad un allegra brigata di fanciulli che si baloccano con un giocattolo più grande di loro trotterellando sul cavallo a dondolo della decrescita felice.  L’on. Di Maio ha nel volto glabro di bambino mai cresciuto le fattezze di un pierino capriccioso che scambia le favole con la realtà e fa le bizze se non viene accontentato. Calca la scena nazionale e internazionale come fosse il cortile di casa e gioca le partite dei grandi dove sono in ballo le sorti delle nazioni come una partita a tresette nel circolo di quartiere.  Il guaio è che egli è solo la punta dell’iceberg di una massa informe, incapace di pensare, sedotta dagli spin doctor che manipolano le menti e drogano la rete inserendo in essa veleni che incitano alla rivolta e producono refrains demenziali. Siamo alla dissennatezza in libera uscita e Di Maio ne è l’interprete più autentico. Vedere all’opera il nostro vice presidente del Consiglio fa tremare i polsi. Poiché è stato eletto dal popolo l’on. Di Maio ritiene di potersi permettere tutto, anche di infischiarsi della Costituzione e di ribaltare prassi collaudate, piegare uomini e regole ai suoi capricci, chiedere avventatamente l’impeachment contro il Capo dello Stato, fare la guerra alle autorità indipendenti accusandole di essere nemiche del popolo, fuggire dalle proprie responsabilità ed evocare fantomatici congiurati che tramano nell’ombra, condurre battaglie che appaiono generose ma che sono velleitarie. La battaglia in difesa dei più deboli di cui pretende di farsi unico interprete l’on. Di Maio, è sacrosanta e non è certo lui che ce lo deve ricordare perché essa rientra tra i compiti fondamentali della politica, ma è altrettanto saggio non fare correre nel nome di questa battaglia rischi mortali al Paese con ricette suicide. Ed è sacrosanta anche la battaglia contro la finanza globale che ha ormai preso il sopravvento sulla politica, una battaglia che però deve sapere recuperare anziché demonizzare la politica, l’unico strumento, se utilizzato in maniera virtuosa, di cui disponiamo a sostegno della stessa sopravvivenza della democrazia e della lotta a favore dei più deboli. Gli avversari politici infine non sono nemici da mettere all’indice solo perché osano opporsi al dogma del pensiero unico predicato dal nostro, essi al contrario hanno il merito di dare un contributo di idee che possono essere condivise o no ma che sono legittime e utili al dibattito politico. Issato dal popolo ai vertici dello Stato, preso di sé e della presunzione di operare miracoli come nientemeno quello di abolire la povertà, l’on. Di Maio svolge diligentemente e più o meno consapevolmente il ruolo di utile idiota al servizio del famigerato piano B di cui si è infatuato probabilmente perché non ha ben ponderato la portata delle conseguenze che ne deriverebbero. Quando da piccoli giocavamo a mosca cieca capitava spesso di dovere fare i conti con bizzosi compagnetti che non accettavano le regole del gioco e pretendevano di imporre quelle che gli suggeriva l’educazione al soddisfacimento del loro ego impartita da genitori inadeguati. I progenitori di Di Maio, purtroppo per noi, non sono inadeguati ma perfidamente capaci di confezionare il pupo che interpreta fedelmente la parte che gli è stata assegnata. Ci sorge però un dubbio, forse non abbiamo capito un bel nulla, forse non abbiamo capito che il nostro Richelieu pensa con la propria testa e ha una propria strategia, quella cioè di andare ai materassi (lo ha scritto a suo tempo Grillo), cavalcare l’ira della gente perpetuando un clima di conflitto in cui agitare la solita bandiera populista che colmi il vuoto nel quale volteggia la sua distopia e, anche grazie alla concessione di mance assistenziali, continuare a incassare dividendi elettorali. Un’altra spiegazione potrebbe essere la voglia di rivincita di chi, baciato dalla fortuna, si è ubriacato del suo nuovo stato, ha perso il senso della misura e, come tutti i nuovi arricchiti, si prende la sua brava rivincita abusando del potere conquistato e illudendosi così di riscattare il suo passato di travet.  E l’interesse del popolo? Quella è un’altra storia che non ha niente a che vedere con la battaglia dell’on. Di Maio.

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