Presso l’aula dell’ARS intestata a Piersanti Mattarella si è
svolto nei giorni scorsi un convegno sul sistema carcerario e sul disagio dei
familiari dei detenuti, promosso dall’on. Figuccia, relatori Salvatore Cuffaro,
ex detenuto, come recitava la locandina, il prof. Fiandaca ed altri che si sono
succeduti con i loro interventi. Sia il parterre che il tavolo della presidenza
offrivano un bel colpo d’occhio. La gente era tanta, come accade quando scende
in pista l’ex presidente della Regione Siciliana, e confesso che una così folta
presenza mi ha fatto dubitare della sincerità di quella partecipazione. In un
Paese come l’Italia in cui i benpensanti, bene che vada, storcono la bocca quando
si parla di carcere e, se sono in vena di giustizia sommaria, chiedono che la
cella diventi la tomba del detenuto, non c’è da farsi molte illusioni. Cuffaro
gode tuttora di parecchio seguito ed era difficile distinguere tra l’affetto
che gli ancora numerosi seguaci nutrono per lui e l’interesse sincero per
l’argomento oggetto del dibattito. La materia non è facile da affrontare, bisogna
essersi sporcati veramente le mani per sapere di cosa si parla, bisogna avere
sudato lacrime e sangue per sapere esprimere appieno l’idea di che cosa è la
condizione del detenuto. Non è solo il corpo che viene imprigionato, è l’anima
la vera vittima di una necrosi che uccide lo spirito giorno per giorno e ti
trascina in un abisso senza ritorno se una mano pietosa non ti soccorre. Ebbene
i relatori del convegno hanno saputo rendere il senso di questa tragedia, hanno
preso per mano l’uditorio e l’hanno guidato passo passo nei sentieri di un percorso accidentato narrandone tutte
le asperità e ricevendone in cambio una partecipazione attenta e commossa. Sul
versante strettamente tecnico il prof. Fiandaca ha messo l’accento su alcune storture
del sistema carcerario denunciando l’uso strumentale della legalità e la
mancanza di coraggio della politica che si guarda bene dal prendere il toro per
le corna e affrontare come si deve un problema tanto serio, temendo una
ricaduta negativa in termini elettorali. Il prof. Vitale e la prof.ssa Lo Curto
ci hanno esortato a non dimenticare che i detenuti sono delle persone, che la
solidarietà è una moneta che rende più di quanto non pretenda, che tutti siamo
colpevoli, persino i magistrati i quali, invece che nell’eremo delle loro
coscienze, a volte decidono secondo categorie ideologiche e di appartenenza, che
la detenzione non può essere fatta scontare in modo afflittivo ma deve sapere afferrare
per i capelli uomini che possono essere redenti e a volte salvati da se stessi
prima che decidano di farla finita. I toni sono stati toccanti e hanno avuto
l’apogeo nell’intervento di una ragazza disabile che dalla sua carrozzina ci ha
ammoniti contro il demone del pregiudizio. E naturalmente la chiusura è stata
tutta per Totò Cuffaro al quale nessuno deve insegnare quali sono le corde da
toccare. Ha descritto la sua sofferenza ma soprattutto la sofferenza dei suoi
ex compagni di pena che non ha dimenticato e ai quali offre il contributo del
suo impegno e della sua testimonianza mettendosi in gioco anche a rischio di
essere azzannato dai forcaioli di turno. Chi come me ha vissuto lo stesso
destino di Cuffaro si è sentito a casa, al riparo dalla damnatio, risarcito
dopo anni di emarginazione, in quell’aula che porta il nome di un martire, ha
percepito che quel martire da lassù approvava, che in quell’aula si stava onorando
la pietà mentre fuori da essa andava in scena il siparietto di una sparuta pattuglia di
irriducibili che si esibiva nel solito, logoro copione all’insegna
dell’intolleranza.
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