La Costituzione italiana all’articolo 1 recita: ”L’Italia è
una repubblica democratica fondata sul lavoro” . La dizione risente di una
impostazione ideologica che connota lo Stato in base all’identità di una parte sociale
piuttosto che a quella dell’intero tessuto sociale. L’idea del lavoro come
fondamento della democrazia assume in questo modo le sembianze di un discrimine
che cozza contro il principio sancito proprio dalla Costituzione che
all’articolo 3 recita: ”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
uguali davanti alla legge”. Ed è una impostazione che si scontra con il
pensiero liberale da sempre assertore del principio secondo cui un’autentica
democrazia debba fondarsi sulla libertà senza disparità e senza limitazioni che
non siano quelle previste dalla legge, principio solennemente proclamato già nel
lontano 1789 nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” che è
il testamento della nostra civiltà moderna e che all’articolo 2 pone in testa
all’elenco dei diritti fondamentali, appunto, la libertà. Libertà e uguaglianza
sono dunque i due principi in base ai quali tutti i cittadini hanno la
possibilità di esercitare i loro diritti in condizioni di parità, ma ciascuno in
base alle proprie capacità, e di affrontare nel giusto modo le disuguaglianze che
la natura, assai meno equanime della legge, decreta assegnando doti diverse e
spesso diseguali. La libertà fa di queste disuguaglianze delle opportunità se
lo Stato permette alla libera iniziativa di dispiegarsi, non imponendo
dall’alto l’omologazione artificiosa di una uniformità che finisce per realizzare
la più iniqua delle disuguaglianze, non opponendo alla creatività delle idee
l’ineluttabilità della materia che relega gli elementi ideali nella soffitta della
sovrastruttura (materialismo storico), non negando a nessuno il diritto di
starsene alla finestra a guardare o invece di sprigionare i propri spiriti
animali, l’estro, la fantasia, l’ingegno, di sfidare i rischi per proprio conto
e produrre maggiori opportunità per gli altri. Il profitto di chi si mette in
gioco reinvestito in attività produttive assume la funzione di propellente
della crescita e dell’occupazione piuttosto che le sembianze della farina del
diavolo, e il lavoro con le ricadute in termini di giustizia sociale si rende
possibile non per decreto ma grazie al talento creativo legittimamente espresso
che obbedisce alla propria vocazione e al contempo col suo dinamismo promuove i
diritti dei meno dotati. Allo Stato spetta
il compito di vigilare affinché le diversità non diventino privilegi gratuiti, non si creino sacche di impunità e
caste voraci, il profitto non diventi selvaggio, e di esercitare la giusta
rappresentanza delle istanze dei cittadini come si conviene ad una autentica
democrazia. La democrazia liberale, è bene ricordarlo, ha reso possibili le
conquiste di cui godiamo ed è un patrimonio prezioso da tutelare contro le
tentazioni qualunquistiche di quanti scrivono libri dei sogni facendo promesse impossibili
da realizzare. Il pragmatismo che ha preso per mano il liberalismo
contemporaneo e lo ha accompagnato verso la realizzazione di un riformismo
sociale sostenibile, è uno strumento che non possiamo mandare in soffitta.
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