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venerdì 23 novembre 2018

Angeli e demoni

Si avvicinò con un sorriso sdentato e timido mimando con l’indice e il pollice il segno dei piccioli e bofonchiando: “Scusassi, scusassi”. L’aspetto era miserevole ma lasciava trasparire un trascorso stato di  benessere dal quale quell’uomo vestito di una modesta ma linda grisaglia si era  dimesso per ragioni che erano testimoniate dalla sua dentatura irrimediabilmente consunta. La carie aveva cavalcato in compagnia della incipiente indigenza ed era stata l’avanguardia dello stato di povertà assoluta nel quale quel borghese piccolo piccolo sarebbe stato traghettato. I denti guasti erano il biglietto da visita della sua  condizione di  nuovo povero che, impegnato a tentare di arginare la rovina economica incombente, non aveva avuto tempo, testa e risorse per occuparsi  dei denti che stava perdendo. Ora era  troppo tardi e se ne andava in giro a questuare all’insegna di quel suo sorriso osceno. Fermo davanti a me, il capo chino,  in un’attesa priva di speranza, si illuminò di stupore quando si accorse che armeggiavo col portafogli alla ricerca di una banconota da offrirgli. Chissà dove viveva, chissà dove dormiva! Ad un tratto mi vennero in mente i ritratti della galleria dei reietti nei quali mi sono imbattuto durante la mia vita. Mi ricordai di quel distinto signore che, sorpreso a rovistare nel cassonetto dell’immondizia all’imbrunire quando il pudore trova riparo nelle prime ombre della sera, si giustificò con aria colpevole e lo sguardo implorante, dicendo che era impegnato a cercare qualcosa di suo che, chissà come, era andato a finire nel cassonetto. Ricordai il suo imbarazzo e le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi spalancati in un abisso di disperazione. Mi ricordai di Aldo e Giovanna agghindati e sorridenti mentre, reduci dalla messa pomeridiana nella Chiesa della Mercede, passavano con aria noncurante davanti al Boccone del Povero e, guardandosi circospetti attorno, sgattaiolavano nei locali della mensa. Mi ricordai di Cecilia e Alberto raggomitolati sotto una coperta di fortuna al riparo nei portici della Chiesa di San Michele che, stretti in un abbraccio d’amore, le mani rinsecchite dal freddo abbrancate le une alle altre, accoglievano con un sorriso grato gli angeli della notte che portavano un pasto caldo. Mi ricordai di Costanza, tosta e annerita dalla fuliggine del fuoco acceso ai bordi della tenda nella quale era accampata e che divenne la sua urna funeraria quando le fiamme la inghiottirono. Mi ricordai di Giovanni che diede un calcio ai suoi sogni di promettente studente di filosofia e, come Diogene, si rifugiò nella sua botte di frustrazione dalla quale usciva con sguardo furente. Mi ricordai di me migrato dall’opulenza all’indigenza dopo avere attraversato un pezzo della mia vita popolato da incubi. Mi chiesi allora, con l’irritazione di chi non capiva, perché tanti nostri connazionali si spingono negli angoli più sperduti del mondo per offrire la loro solidarietà a bisognosi lontani invece che ai nostri. Sennonché ho letto gli insulti che sul web sono piovuti addosso alla povera Silvia Romano, la ragazza rapita in Kenia, “colpevole” della sua generosità in un posto così lontano, e mi sono vergognato della mia irritazione, anche perché non ho attenuanti. Sono onorato dall’amicizia di una donna straordinaria che spende la sua esistenza per gli altri senza porre confini geografici o di pelle alla sua generosità. Dovrei sapere che cosa muove l’animo di persone come la mia amica e Silvia Romano, così distanti anagraficamente e così vicini nel modo di intendere la loro vita, donandola agli altri senza confini e senza pretendere nulla in cambio. La mia amica non ha dimenticato lo slancio dei suoi vent’anni e continua a sognare, dobbiamo sperare che, quando ci verrà restituita, Silvia, a dispetto della sua terribile esperienza, continuerà ad amare e anche lei a sognare e così riscattare l’umanità dall’infamia degli sciacalli che appestano il mondo dei social e non solo quello.                
                                        

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