Si avvicinò con un sorriso sdentato e timido mimando con
l’indice e il pollice il segno dei piccioli e bofonchiando: “Scusassi,
scusassi”. L’aspetto era miserevole ma lasciava trasparire un trascorso stato
di benessere dal quale quell’uomo vestito
di una modesta ma linda grisaglia si era dimesso per ragioni che erano testimoniate
dalla sua dentatura irrimediabilmente consunta. La carie aveva cavalcato in
compagnia della incipiente indigenza ed era stata l’avanguardia dello stato di
povertà assoluta nel quale quel borghese piccolo piccolo sarebbe stato
traghettato. I denti guasti erano il biglietto da visita della sua condizione di
nuovo povero che, impegnato a tentare di arginare la rovina economica
incombente, non aveva avuto tempo, testa e risorse per occuparsi dei denti che stava perdendo. Ora era troppo tardi e se ne andava in giro a
questuare all’insegna di quel suo sorriso osceno. Fermo davanti a me, il capo
chino, in un’attesa priva di speranza, si
illuminò di stupore quando si accorse che armeggiavo col portafogli alla
ricerca di una banconota da offrirgli. Chissà dove viveva, chissà dove dormiva!
Ad un tratto mi vennero in mente i ritratti della galleria dei reietti nei
quali mi sono imbattuto durante la mia vita. Mi ricordai di quel distinto
signore che, sorpreso a rovistare nel cassonetto dell’immondizia all’imbrunire
quando il pudore trova riparo nelle prime ombre della sera, si giustificò con
aria colpevole e lo sguardo implorante, dicendo che era impegnato a cercare
qualcosa di suo che, chissà come, era andato a finire nel cassonetto. Ricordai
il suo imbarazzo e le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi spalancati in un
abisso di disperazione. Mi ricordai di Aldo e Giovanna agghindati e sorridenti
mentre, reduci dalla messa pomeridiana nella Chiesa della Mercede, passavano
con aria noncurante davanti al Boccone del Povero e, guardandosi circospetti
attorno, sgattaiolavano nei locali della mensa. Mi ricordai di Cecilia e
Alberto raggomitolati sotto una coperta di fortuna al riparo nei portici della
Chiesa di San Michele che, stretti in un abbraccio d’amore, le mani rinsecchite
dal freddo abbrancate le une alle altre, accoglievano con un sorriso grato gli
angeli della notte che portavano un pasto caldo. Mi ricordai di Costanza, tosta
e annerita dalla fuliggine del fuoco acceso ai bordi della tenda nella quale
era accampata e che divenne la sua urna funeraria quando le fiamme la
inghiottirono. Mi ricordai di Giovanni che diede un calcio ai suoi sogni di
promettente studente di filosofia e, come Diogene, si rifugiò nella sua botte
di frustrazione dalla quale usciva con sguardo furente. Mi ricordai di me migrato
dall’opulenza all’indigenza dopo avere attraversato un pezzo della mia vita
popolato da incubi. Mi chiesi allora, con l’irritazione di chi non capiva, perché
tanti nostri connazionali si spingono negli angoli più sperduti del mondo per
offrire la loro solidarietà a bisognosi lontani invece che ai nostri. Sennonché
ho letto gli insulti che sul web sono piovuti addosso alla povera Silvia
Romano, la ragazza rapita in Kenia, “colpevole” della sua generosità in un
posto così lontano, e mi sono vergognato della mia irritazione, anche perché
non ho attenuanti. Sono onorato dall’amicizia di una donna straordinaria che
spende la sua esistenza per gli altri senza porre confini geografici o di pelle
alla sua generosità. Dovrei sapere che cosa muove l’animo di persone come la
mia amica e Silvia Romano, così distanti anagraficamente e così vicini nel modo
di intendere la loro vita, donandola agli altri senza confini e senza
pretendere nulla in cambio. La mia amica non ha dimenticato lo slancio dei suoi
vent’anni e continua a sognare, dobbiamo sperare che, quando ci verrà
restituita, Silvia, a dispetto della sua terribile esperienza, continuerà ad
amare e anche lei a sognare e così riscattare l’umanità dall’infamia degli
sciacalli che appestano il mondo dei social e non solo quello.
Nessun commento:
Posta un commento