Nei giorni scorsi sono stati celebrati gli anniversari delle morti di Enzo Tortora e del commissario
Calabresi, due date tragiche che evocano due casi analoghi di linciaggio
giudiziario e mediatico. Tortora fu giustiziato moralmente dal PM Marmo che lo
accusò di collusione con la camorra ottenendone la condanna in primo grado
sulla base delle dichiarazioni dei pentiti Barra e Pandico alle quali non si
preoccupò di trovare riscontri oggettivi. Come finì lo sappiamo tutti, per Tortora con l’assoluzione piena e
definitiva dopo un calvario di diversi
anni che lo condusse alla morte prematura per crepacuore, per Marmo in modo
inglorioso, con la smentita del suo impianto accusatorio ma soprattutto con il
peso di quella terribile affermazione da lui fatta durante la requisitoria
quando chiamò Tortora “cinico mercante di morte”. Il caso Tortora non è il solo
svarione nel quale è incorso il PM Marmo visto che fu ancora lui a sostenere
l’accusa per traffico di stupefacenti contro il soldato Raiola il quale fu assolto
ma non poté evitare che la sua vita andasse a rotoli prima che venisse
riconosciuta la sua innocenza. L’arrembante disinvoltura non ha impedito al giudice
Marmo di fare carriera in magistratura senza che i superiori organi si
preoccupassero di disinnescare questa mina vagante.
Caso pressoché analogo quello del commissario Calabresi
vittima del giornalismo manettaro e ideologicamente schierato che non esitò ad
accusarlo della morte dell’anarchico Pinelli consegnandolo al mirino dei militanti di Lotta
Continua che punirono la sua presunta responsabilità assassinandolo. Anche in questo caso sappiamo
come finì, Calabresi fu riconosciuto estraneo alla morte di Pinelli e le icone
giornalistiche dell’epoca non mostrarono di avere alcun soprassalto di
coscienza né di nutrire alcun dubbio sul ruolo salvifico del loro giacobinismo.
Epigoni di quell’intellighenzia supponente che ha dominato la cultura del
dopoguerra, questi campioni della superiorità morale che Pareto chiamava
“virtuisti”, hanno continuato a imperversare e, per dirla sempre con Pareto,
hanno preteso di “raccontarci che solo
un uomo disonesto può avere un’opinione contraria alla loro”, lasciandoci in
eredità discepoli livorosi e
intransigenti che, seduti sulle loro certezze, ripercorrono ancora oggi la
strada dei cattivi maestri. Ancorati al dogma della primazia della morale questi
rampolli esagitati, figli del furore etico, negano al diritto qualsiasi
ragionevolezza, alla giustizia la prudenza, all’applicazione della legge
l’attenzione necessaria a evitare, per quanto è possibile, l’errore sempre in
agguato e, obbedendo alla loro vocazione forcaiola, sentenziano che il
cittadino raggiunto da un avviso di garanzia è presuntivamente colpevole.
Quando ci esibiamo nei soliti rituali che accompagnano
anniversari tragici, non una voce si leva a denunciare il farisaismo dei
sepolcri imbiancati che continuano a pontificare stritolando la vita delle
persone, forti della loro impunità e dei poteri che rappresentano.
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