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martedì 22 maggio 2018

Il linciaggio, nuova frontiera della giustizia


Nei giorni scorsi sono stati celebrati gli anniversari  delle morti di Enzo Tortora e del commissario Calabresi, due date tragiche che evocano due casi analoghi di linciaggio giudiziario e mediatico. Tortora fu giustiziato moralmente dal PM Marmo che lo accusò di collusione con la camorra ottenendone la condanna in primo grado sulla base delle dichiarazioni dei pentiti Barra e Pandico alle quali non si preoccupò di trovare riscontri oggettivi. Come finì  lo sappiamo tutti,  per Tortora con l’assoluzione piena e definitiva dopo un  calvario di diversi anni che lo condusse alla morte prematura per crepacuore, per Marmo in modo inglorioso, con la smentita del suo impianto accusatorio ma soprattutto con il peso di quella terribile affermazione da lui fatta durante la requisitoria quando chiamò Tortora “cinico mercante di morte”. Il caso Tortora non è il solo svarione nel quale è incorso il PM Marmo visto che fu ancora lui a sostenere l’accusa per traffico di stupefacenti contro il soldato Raiola il quale fu assolto ma non poté evitare che la sua vita andasse a rotoli prima che venisse riconosciuta la sua innocenza. L’arrembante disinvoltura non ha impedito al giudice Marmo di fare carriera in magistratura senza che i superiori organi si preoccupassero di disinnescare questa mina vagante.
Caso pressoché analogo quello del commissario Calabresi vittima del giornalismo manettaro e ideologicamente schierato che non esitò ad accusarlo della morte dell’anarchico Pinelli  consegnandolo al mirino dei militanti di Lotta Continua che punirono la sua presunta responsabilità  assassinandolo. Anche in questo caso sappiamo come finì, Calabresi fu riconosciuto estraneo alla morte di Pinelli e le icone giornalistiche dell’epoca non mostrarono di avere alcun soprassalto di coscienza né di nutrire alcun dubbio sul ruolo salvifico del loro giacobinismo. Epigoni di quell’intellighenzia supponente che ha dominato la cultura del dopoguerra, questi campioni della superiorità morale che Pareto chiamava “virtuisti”, hanno continuato a imperversare e, per dirla sempre con Pareto, hanno preteso  di “raccontarci che solo un uomo disonesto può avere un’opinione contraria alla loro”, lasciandoci in eredità discepoli  livorosi e intransigenti che, seduti sulle loro certezze, ripercorrono ancora oggi la strada dei cattivi maestri. Ancorati al dogma della primazia della morale questi rampolli esagitati, figli del furore etico, negano al diritto qualsiasi ragionevolezza, alla giustizia la prudenza, all’applicazione della legge l’attenzione necessaria a evitare, per quanto è possibile, l’errore sempre in agguato e, obbedendo alla loro vocazione forcaiola, sentenziano che il cittadino raggiunto da un avviso di garanzia è presuntivamente colpevole.
Quando ci esibiamo nei soliti rituali che accompagnano anniversari tragici, non una voce si leva a denunciare il farisaismo dei sepolcri imbiancati che continuano a pontificare stritolando la vita delle persone, forti della loro impunità e dei poteri che rappresentano.

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