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sabato 29 dicembre 2012


 Commistioni

Quale è la differenza fra la commistione della mafia e quella dell’antimafia con la politica? Nessuna, dico io. Entrambe infatti condizionano impropriamente la politica. Mi si può obiettare che i valori di riferimento sono diversi, ed è vero, ma è pure vero che i magistrati che si candidano negli stessi collegi in cui hanno condotto indagini giudiziarie, non possono sottrarsi al sospetto che abbiano, in  omaggio alle convinzioni che nutrivano già allora, favorito quelli che sarebbero diventati loro alleati di partito e danneggiato quelli che sarebbero diventati loro avversari politici. Al posto dell’on. Dell’Utri mi farei qualche pensiero leggendo e ascoltando le dichiarazioni di disprezzo profferite dal dr. Ingroia nei confronti di Berlusconi e del PDL, che non sono certamente frutto di improvvisa folgorazione e che la dicono tutta sullo stato d’animo del magistrato sul conto del politico all’epoca delle indagini. Il dr. Grasso, ancora oggi Procuratore nazionale antimafia e già in predicato di candidarsi nel listino di Bersani per una comoda elezione in Parlamento, come può scacciare il sospetto che la sua delicata funzione, in un contesto in cui la politica è stata spesso al centro di indagini, non sia stata condizionata dalle sue convinzioni politiche che, sia chiaro, anche un magistrato ha il diritto di coltivare ma non fino al punto da farne oggetto di passione partitica che lo sottrae alla condizione di imparzialità? Per non parlare poi della fastidiosa sensazione di essere raggirati che il cittadino prova allorché un magistrato che gode di giuste prerogative che difendano la sua indipendenza ma è al contempo obbligato ad un comportamento sacerdotale, d’improvviso, come se nulla fosse, ribalta le regole del gioco e utilizza il patrimonio di prestigio accumulato grazie alle prerogative concessigli e alla notorietà conquistata con le inchieste, trasferendolo su un partito e investendolo in una carriera politica alla quale non era stato delegato e che altri hanno dovuto sudarsi con percorsi molto più accidentati. Diciamolo, è scorretto e ingiusto!
Quando si parla di politicizzazione della magistratura e di via giudiziaria della democrazia in cui le categorie prese in considerazione non sono di natura politica ma moraleggiante e il gioco è condotto con strumenti ad altri preclusi, non ci si può inalberare affermando che c’è il tentativo di delegittimare chi, scendendo o, se si preferisce, salendo in politica, ha dismesso i panni del magistrato, né si può contestare il sacrosanto diritto di critica di chi teme una deriva giacobina. Il pericolo semmai è altrove. Se infatti esaminiamo l’elenco dei magistrati che si sono o si stanno convertendo alla politica, constatiamo che la maggior parte di essi milita a sinistra. La purezza degli ideali probabilmente alberga più a sinistra che a destra ma serpeggia ugualmente il dubbio che da qualche parte la bilancia sia tenuta da Torquemada piuttosto che da Temi e che il futuro dell’Italia non prometta di essere fra i più rassicuranti.

domenica 23 dicembre 2012

Buon Natale


Augurare Buon Natale in questo scorcio di un anno terribile come il 2012, può apparire provocatorio e irridente nei confronti degli italiani che, per la maggior parte, non hanno motivi per vivere un buon Natale. Cosa c’è infatti di buono in un Natale che nega la possibilità di dar fondo all’animo caritatevole che per l’occasione si accende persino nel più duro degli uomini? L’occasione purtroppo manca perché mancano le risorse che diano le ali ai nostri buoni propositi.
Quando, uscendo dai confini del quartiere in cui vivo in un contesto sobrio per tutto l’anno e ancor più parco in questo periodo, mi sono concesso una puntata nel centro storico per respirare, come un sub in debito d’ossigeno, l’atmosfera baluginante di luci e di colori del cuore festante della città, mi sono imbattuto in un clima opaco e in un panorama di negozi vuoti, di saracinesche abbassate, di piazze e vie deserte, di buio pesto per le strade e sui volti dei rari passanti. Un paesaggio lunare dal quale mi sono sentito tradito.  
L’aspetto lunare del paesaggio tuttavia non è paragonabile al deserto della nostra anima impotente a dare risposte alle nostre domande.
A chi per esempio dovremmo chiedere conto di ciò che proviamo allorché vogliamo regalare il nostro cuore ai nostri cari e non possiamo perché il cuore è sprovvisto di doni come gli scaffali di un negozio in liquidazione?
A chi dovremmo chiedere conto di ciò che proviamo quando sui marciapiedi e agli ingressi dei supermercati schiviamo con senso di colpa le richieste d’aiuto per i più poveri avanzate con dolce garbo dagli angeli del volontariato, quando osserviamo la rabbia quasi ferina e violenta con cui i passanti assillati da richieste di elemosine si rivoltano contro i postulanti, a chi del senso di frustrazione dei nonni privati della gioia di stupire gli occhi carichi di attesa dei nipoti e dei genitori costretti a misurarsi con le rimanenti risorse dell’ultima settimana del mese che, maledizione, coincide con il Natale?
A chi dovremmo chiedere conto della pena inflitta ai nostri cuori dallo spettacolo dei fagotti umani sparsi per i marciapiedi delle nostre città sotto il cielo livido di un inverno insolitamente più severo del solito, dalla dignitosa indigenza dei nuovi poveri che si affacciano sempre più numerosi alle mense della Caritas, dallo sguardo smarrito e carico di rimprovero dei nostri figli che si aggirano fra le pareti domestiche covando vergogna e rancore per essere stati scippati del loro futuro da una generazione di padri scellerati?
A chi, in questo Natale privo di pietà, dobbiamo chiedere conto della nostra incapacità di commuoverci alla vista di Pannella ischeletrito, di provare rimorso per la sorte di nostri simili condannati alla sofferenza in carceri-lager a due passi da casa nostra, della rabbia e del vuoto che avvertiamo? 
Forse a noi stessi artefici della nostra perduta umanità, a noi spensierati complici dei nostri carnefici ai quali per anni abbiamo dato licenza di ucciderci e  che continuiamo a tollerare mentre tornano a proporsi volteggiando con imperterrita sfrontatezza sui nostri capi. 
E allora se Buon Natale deve essere, Buon Natale sia per loro, per gli assassini delle nostre speranze che ci hanno regalato la strenna avvelenata di una festa senza gioia i quali, essi si, hanno motivo per festeggiare.

lunedì 17 dicembre 2012

Pannella


Marco Pannella è in sciopero della fame e della sete da sette giorni e rischia di morire. E’ l’ennesimo sciopero che a qualcuno può apparire stucchevole e che invece per l’ennesima volta non corre il rischio dell’ovvietà. Anzi stavolta più che mai, come in una piece guidata da una regia magistrale, appassiona e coinvolge con una carica di suspense e di drammaticità che colpisce non solo per il contesto in cui si svolge ma per i contenuti sacrosanti e nobili per i quali si spende. Semmai, più che infastidire, ci fa sentire colpevoli e inadeguati ad una battaglia che tutti dovremmo sentire nostra perché affronta temi che riguardano i nostri diritti fondamentali. Diciamola tutta senza concessioni a comode autoassoluzioni, siamo dei nani al cospetto di un gigante che si mette in gioco a rischio della propria vita, dei pavidi che tentennano impauriti evitando di misurarsi con mondi che non conoscono e che si rifiutano di conoscere, degli insensibili alla sofferenza altrui che nutrono diffidenza nei confronti di una umanità che ha sbagliato e con la quale non si vogliono mischiare. Ricordo un mio compagno di detenzione il quale, quando gli parlavo, per averla sperimentata personalmente, dell’attività di associazioni di volontariato che si impegnano sul fronte dell’assistenza ai bisognosi e in particolare dei familiari dei detenuti, sorrideva scettico invitandomi a non lasciarmi andare a facili enfatizzazioni. Santino, così si chiamava il mio compagno, non era tipo da abbandonarsi a illusioni, forte di esperienze che lo avevano messo a contatto con gli aspetti peggiori della vita e di una natura ferina che gli faceva guardare con sospetto a manifestazioni di altruismo. Per lui la natura selvaggia di Hobbes ha la prevalenza sulla predisposizione alla bontà teorizzata da Rousseau e sulla voglia di solidarietà raccontataci dalle moderne conquiste della neuroscienza. L’uomo, per Santino, non è capace di nutrire buoni sentimenti e per lui la diffidenza è la sola bussola che ci deve guidare nei rapporti con i nostri simili. Ricordo questo episodio assistendo alla fiera d’indifferenza e di sospetto con cui l’iniziativa di Pannella è accolta non solo dalla gente comune, dalla stampa che non ha dato il dovuto risalto alla notizia, ma soprattutto dai personaggi della nomenklatura intellettuale che più degli altri dovrebbero avvertire il senso della battaglia condotta da Pannella e raccogliere il suo messaggio e che invece brillano per la loro latitanza probabilmente infastiditi dai suoi metodi. I metodi di Pannella possono anche infastidire ma gli spiriti nobili ce ne propongono forse altri?
Per quello che può valere e con l’esperienza che mi deriva dall’avere vissuto la condizione di detenuto, dico che la battaglia di Pannella è giusta perché affronta il tema di una carcerazione in condizioni che confliggono sia con il diritto naturale che con quello positivo, ed è cristiana perché caritatevole nei confronti di nostri simili che hanno sbagliato ( non tutti in verità ) ma che stanno pagando con la pena più innaturale che possa colpire un uomo, la impossibilità di disporre della propria vita a piacimento nel rispetto dei diritti altrui, di amare se ne hanno voglia, di passeggiare in riva al mare, di percorrere le strade col naso all’insù senza una meta precisa, di dormire o vegliare, di uscire o starsene tappati in casa, di relazionarsi o preferire la solitudine, di essere liberi delle loro azioni se non della loro volontà. Uomini costretti a rinunciare a tutto questo non meritano vendette da parte dello Stato e tanto meno il sopracciglio inarcato degli studiosi dei massimi sistemi che guardano con distacco alle miserie che scorrono sotto di loro, hanno bisogno che l’empireo scenda sulla terra e si faccia umanità equanime e pietosa. Sull’esempio di Gesù o, fatti i debiti distinguo, sull’esempio di Pannella.

mercoledì 12 dicembre 2012

La bella Italia


Ma in che razza di Paese viviamo?
E’ un Paese normale quello in cui un Procuratore della Repubblica incappa in una intercettazione predisposta dallo stesso ufficio che egli coordina mentre sta parlando con un indagato al quale si sospetta stia dando notizie sull’indagine che lo riguarda?
E’ un Paese normale quello in cui un magistrato definisce sentenza politica una sentenza della Consulta che, a suo parere, risponde alle esigenze di una parte, sia pure autorevole quale quella del Capo dello Stato, piuttosto che a esigenze di verità? Ma non ci è stato sempre detto che le sentenze vanno accettate ? E invece proprio un magistrato contesta la sentenza della Consulta con queste parole:”Le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto. La sentenza della Corte costituzionale rappresenta un brusco arretramento rispetto al principio di uguaglianza e all’equilibrio fra i poteri dello Stato”. E’ un chiaro attacco alla capacità di indipendenza e all’autorevolezza del massimo organo di garanzia, che getta un’ombra sulla imparzialità di una istituzione fondamentale dello Stato. Ma allora, se un magistrato tanto autorevole ci dice che dobbiamo diffidare persino della Corte costituzionale, a quale Stato ci siamo consegnati? Ed è un Paese normale quello in cui sempre il nostro infaticabile magistrato, sebbene in piena attività di servizio, non esita a schierarsi marcatamente a favore di una parte politica nello stesso tempo in cui in tribunale sostiene l’accusa contro un esponente di primo piano dello schieramento politico che egli avversa e, scendendo sul terreno di una contesa in una arena turbolenta quale è quella di un  seguitissimo talk show, espone se stesso e le istituzioni che rappresenta all’epiteto di mascalzone?
E’ un Paese normale quello in cui un ex Presidente del Consiglio che ha fatto il suo tempo, che ha dato al suo Paese un contributo, gli storici diranno se positivo o negativo, ma che adesso non ha nient’altro da dire se non a favore di un dialogo costruttivo e privo di veleni, che dovrebbe aver maturato la consapevolezza dei propri limiti, dovrebbe avvertire la sobrietà di un Cincinnato e vivere un bucolico dignitoso crepuscolo invitando i seguaci ad un percorso di ragionevolezza che non ripeta gli errori e gli eccessi del passato e guardi all’interesse della Patria nel momento del suo maggior pericolo, è normale che un simile uomo scompagini equilibri faticosamente raggiunti e getti sulla bilancia la sua spada come un Brenno qualsiasi?
E’ normale un Paese in cui un popolo ridotto allo stremo trovi  la risposta alla propria disperazione in un comico che, beninteso, non ha il suo limite nella comicità che anzi, quando non era stata ancora sostituita dalla politica, ci ha regalato momenti di genialità, bensì nella ovvietà e impraticabilità del suo populismo, mentre uomini che hanno fatto dell’attività politica il loro mestiere e sono pagati per trovare soluzioni ai problemi della gente, si sono dati alla latitanza e hanno abbandonato il campo quando la situazione stava precipitando passando la mano ai cosiddetti tecnici, salvo, come dei bambini capricciosi smaniosi di tornare in possesso del giocattolo, dar loro il benservito dopo che questi hanno cavato le castagne dal fuoco in loro vece salvando l’Italia dal fallimento e dandole credibilità ?
E’ normale un Paese che sta smottando sempre più verso la povertà e allarga sempre più la forbice tra ricchi e poveri svolgendo una funzione che non ha il diritto di esercitare, appaltandosi impropriamente il diritto di pilotare l’economia e riuscendo nell’impresa di tutelare i più abbienti a scapito dei meno abbienti?
E’ questo un Paese normale? 

venerdì 7 dicembre 2012

La morte in diretta


Ki-Sunck Han, il coreano aggrappato al marciapiedi della stazione nella metropolitana di New York in attesa di essere travolto e ucciso dal treno in arrivo sotto lo sguardo di un fotoreporter intento a riprendere la scena, evoca lo scatto di Kevin Carter che fissa l’immagine di una donna sudanese allo stremo delle forze e sul punto di morire di fame e di stenti, osservata a distanza da un avvoltoio.
L’orrore consiste non tanto o non solamente nella scena della morte in diretta, quanto nella indifferenza della folla che assiste passiva senza intervenire e si assiepa a tragedia avvenuta attorno al corpo martoriato con morbosa curiosità riprendendo la scena con i telefonini, e nel cinismo del reporter che, tra scegliere di impiegare il tempo disponibile per tentare di salvare un suo simile o impiegarlo per scattare 59 fotogrammi che gli avrebbero consegnato un macabro scoop, non ha avuto esitazioni, ha privilegiato lo scoop. E’ l’orrore di una umanità perduta che respinge gli impulsi dei neuroni specchio e abdica alla propria natura barattandola con le oscene esigenze di un mercato privo di scrupoli e di ancoraggi morali.
Bene ha fotografato questa nuova frontiera disumana David Carr sul New York Times parlando di “eunuchi morali che non intervengono quando il pericolo o il male si materializzano davanti a loro e segretamente tifano perché il peggio accada”. La cronaca quotidiana purtroppo dissemina il proprio cammino di episodi di cannibalismo che pur non producendo gli effetti sconvolgenti di una morte in diretta, tuttavia falcidiano ugualmente vite umane in nome di malintesi miti da celebrare. Avviene con il diritto di cronaca che sacrifica ab origine l’onorabilità degli indagati facendo della macelleria mediatica senza preoccuparsi più di tanto della obbiettività della informazione se in ballo c’è l’occasione di cavalcare il giacobinismo della gente e lucrare su notizie commercialmente redditizie.
Meno spietati del reporter del New York Post ma altrettanto efficaci nel causare vittime, i talebani dell’informazione, poietici reificanti di verità contraffatte, proliferano lasciando ogni giorno sul terreno vite irrimediabilmente segnate e reputazioni sfregiate.

giovedì 29 novembre 2012

L’evoluzione di Angelino


Tempo fa ho dedicato un post ad Angelino Alfano ministro di grazia e giustizia invitandolo a non prendersi troppo sul serio. Gli agrigentini mi hanno sempre affascinato per la loro peculiarità complessa che non per nulla ha partorito Pirandello. Il grande agrigentino, quando parlava di maschera e realtà, riferiva di un mondo che avvolge con la sua ineluttabilità la vita e ne sviluppa la trama attraverso un divenire di cui non si riesce a fissare un punto. L’uomo in balia di questo divenire, tenta inutilmente di opporvisi costruendo delle maschere con cui dare un senso alla propria vita. Orbene di questo mondo Alfano è un interprete autentico. Per nulla spaventato dalla portata del destino che gli è piovuto addosso e indifferente ai timori di un clamoroso fiasco, testardo e proteso verso il suo scopo, non solo si è preso sul serio ma ha aumentato la posta: non più ministro di grazia e giustizia ma segretario dell’allora maggior partito italiano. D’accordo, l’incarico, come quello del dicastero di grazia e giustizia, gli è stato regalato da Berlusconi in preda ad uno delle sue solite infatuazioni che gli fanno perdere la misura e la cautela, ma il nostro non si è certo tirato indietro, anzi ha rilanciato, la sua ambizione gli ha preso la mano e lo ha guidato verso il miraggio del grande obiettivo: non solo la segreteria del partito ma addirittura la candidatura a premier!
Di obiettivo in obiettivo ha falciato il suo mentore dichiarando che non tollererà nella competizione delle primarie del PDL la presenza in lista di candidati inquisiti, pena il suo ritiro dalla competizione. Addirittura! E’ pur vero che l’on. Alfano ci ha abituato a performances di tutto rispetto quando da ministro di grazia e giustizia ha reso più impervio l’accesso agli sconti di pena, ha inasprito il regime del 41bis, ha concorso a rendere peggiori le condizioni di vita in carcere, ha disatteso i proclami con cui prometteva l’apertura di nuove strutture carcerarie e l’alleviamento della mostruosità del sovraffollamento, ma nessuno poteva immaginare che il suo rigore e il suo calcolo lo avrebbero spinto fino a invocare la mannaia contro dei semplici inquisiti, con buona pace della presunzione d’innocenza, della vocazione liberale e garantista sbandierata dallo schieramento cui appartiene, pur di concorrere in foia giustizialista con un Di Pietro qualsiasi, proprio quando Di Pietro comincia a mostrare la corda e servire la polpetta avvelenata a Berlusconi. E, per quanto si produca in una farisaica acrobazia che confina tra i reprobi dei semplici inquisiti e santifica come vittima il condannato Berlusconi, non la da a bere, a tutti appare evidente che, novello Bruto, egli ha tentato il parricidio senza peraltro riuscire nell’impresa. Il sopracciglio inarcato, il voto atteggiato a un cruccio pensoso, la maschera appunto, dicono di un uomo che ha grande considerazione di se ma che dietro la sua altezzosità fisiognomica nasconde solo il vuoto, l’incapacità di promuovere nuove sfide e convincenti ideali in alternativa alle lusinghe ammanniteci per vent’anni dal pifferaio magico, la mancanza dell’astuzia necessaria ad affrancarsi da una tutela ingombrante e della statura all’altezza di sorprendere il fianco scoperto del tiranno e liberarci di lui proponendosi in sua vece con una leadership credibile.    

giovedì 8 novembre 2012


 L’etica al potere

“In nome del popolo italiano ti assolviamo ma condanniamo l’immoralità dei tuoi comportamenti”. Per quanto iperbolico il testo di questa sentenza immaginaria fotografa un atteggiamento ricorrente nelle pronunce dei nostri magistrati. E’ il risultato di una convinzione diffusa secondo la quale il magistrato più che amministrare la giustizia e comminare le pene o concedere le assoluzioni obbedendo al codice penale, ha il compito di redimere la società obbedendo al codice morale e distribuendo patenti di purezza ai meritevoli o fustigando i reietti a sua discrezione. Al cittadino che non ha la colpa del reato e non può essere perseguito per essa, non si risparmia la colpa del peccato e con essa, se non una condanna penale pur sempre in agguato, una damnatio memoriae che lo accompagnerà come un marchio indelebile. Fra le vittime, alcuni reagiscono contestando con rabbia l’intrusione non dovuta nella sfera delle loro condotte, altri, i più fragili, soccombono vivendo l’oltraggio in maniera drammatica e somatizzandolo fino alle estreme conseguenze. Ho raccolto lo sfogo di un mio amico uscito malconcio ma indenne da una lunga vicenda giudiziaria, che non riusciva a capacitarsi di come, pur assolto, fosse stato dal giudice demonizzato con valutazioni di carattere etico che egli viveva peggio di una condanna. Mi mostrava i passi della sentenza che lo inchiodavano ad una valutazione moralmente impietosa delle sue condotte, tanto più corriva perché costretta a giungere a conclusioni penalmente assolutorie, e non riusciva a darsi pace. Sembrava quasi che la sentenza si rammaricasse di non avere potuto condannare l’imputato e si vendicasse con un colpo di coda moraleggiante. Sembrava dire: “Non sei colpevole di illecito ma sei colpevole di un peccato più grave: quello di indegnità morale.” Vedevo il mio amico soffrire indicibilmente di queste motivazioni improprie, lo vedevo rileggere la sentenza e ripetere come un mantra le parole che lo inchiodavano al disonore, lo sorprendevo mentre navigava in rete e si dannava commentando gli insulti di cui era fatto oggetto a causa di quella sentenza, lo vedevo spegnersi inesorabilmente. Mi confessava di sentirsi morire e, piangendo, mi chiedeva se meritava tutto questo, se era ragionevole che una sentenza di assoluzione gli procurasse tanta sofferenza, se era consentito allo Stato di spingerlo nel recinto dei reietti nel momento stesso in cui gli restituiva l’onore. Non ho fatto in tempo a dargli le risposte che mi chiedeva perché intanto è morto di crepacuore.

sabato 3 novembre 2012


Viaggio nel pianeta carcere

Mi accade spesso di sentirmi solo in mezzo ad una folla di estranei. E’ la mia condizione di ex detenuto che non si è assuefatto alla libertà dalle abitudini contratte in carcere. La vivo con un senso di vuoto che non riesco a colmare se non rifugiandomi nella scrittura e nei personaggi che con essa creo. Garcia Marquez sosteneva che la scrittura, se è buona scrittura, è l’unica felicità fine a se stessa. Non ho la pretesa di fare della buona scrittura ma mi accontento e vivo una dimensione che, se non è di felicità, almeno mi tiene compassionevolmente compagnia. Mi tuffo in essa e nella realtà virtuale che da essa nasce e vago attraverso i miei pensieri che fisso su carta. Ho come la sensazione di salvare idee che altrimenti andrebbero perdute e di costruire un mondo che, grazie alla mia penna, pulsa di una sua vita autonoma fluttuante in una sorta di limbo libero dai condizionamenti del mondo reale. La sensazione è estatica e mi fa sentire pieno di vita laddove la vita è solo una impostura, è il remake di un mondo al quale non riesco a rinunciare perché di esso porto il marchio indelebile e definitivo, è la coda velenosa di una condanna che continuo a scontare. Quando il volo è concluso e rimetto piede nella vita reale, avverto il senso amaro della sconfitta e la voglia di tornare nel mio mondo onirico, sento il peso di una esistenza che mi è difficile tollerare e la scellerata nostalgia di una seducente irrealtà. E’ allora che la mia mente si affolla dei fantasmi di compagni non dimenticati, dei riti che scandivano la mia quotidianità, delle abitudini che hanno incarcerato la mia psiche e da essi non voglio fuggire, ad essi mi aggrappo incalzato dalla mia solitudine. La mattina mi sveglio sapendo di dovere affrontare i miei fantasmi e rivivo passo passo ogni istante della mia vita in carcere. La sveglia la mattina alle sette e le successive fasi sempre uguali che si rincorrono monotone e pigre e intorpidiscono la mente, fino alle sette di sera quando col pasto serale si conclude la giornata che si ripeterà uguale per anni, per decenni, per sempre quando il fine pena è mai. Mi accompagnano le immagini degli ergastolani la cui fisionomia vedevo mutare nel volgere di pochi anni in volti impassibili dietro cui si celava la loro disperazione, che si ostinavano nella finzione di addomesticare un destino che si illudevano di considerare provvisorio, che progettavano di quando sarebbero tornati in libertà, che sorprendevo, quando credevano di non essere visti, mentre piangevano sulla loro sorte. Mi accompagna il ricordo della promiscuità di celle affollate in cui si consuma la rinuncia al pudore della propria intimità e si scoprono nei compagni nuovi familiari con cui condividere le miserie più intime. Mi accompagna il ricordo dei lunghi conversari, dei peripatetici dialoghi con compagni che guardavano alle banalità del mondo libero col distacco guadagnato in tanti anni di navigazione all’interno delle loro anime, assieme ai quali volavo in atmosfere rarefatte, il ricordo della levità di spiriti levigati dalla consuetudine col silenzio, della intensità di sentimenti impensabili in uomini attraversati da tragedie più grandi di loro, di corpi di compagni penzolanti senza vita dal cappio della loro resa, di sguardi spenti che emergevano dall’abisso di menti spappolate, dei confronti a muso duro con i secondini prime vittime di un sistema al quale la loro scelta li ha inchiodati al pari dei detenuti. Mi accompagna il silenzio di notti insonni popolate da nostalgie struggenti e di notti in cui cadevo in un sonno profondo durante il quale mi rifugiavo in una realtà parallela. Ricordo Annibale che tutte le sere aspettava l’appuntamento con i suoi sogni per varcare i cancelli e fuggire verso la libertà. Mi accompagna un senso di frustrazione che esorcizzo nel chiuso del mio studiolo dove realizzo la finzione di una celletta 4x4 e rivivo il mio mondo perduto. Penso ai miei fratelli murati, sciagurati figli di una colpa che non hanno saputo scansare, già fieri protagonisti di imprese scellerate divenuti mansueti comprimari di una sofferenza quotidiana alla mercé di una pena più grande della loro colpa, bubboni infetti guardati con orrore da una umanità impaurita e gesuitica che non riesce a perdonarli e li respinge demonizzandoli e cancellandone la memoria.

martedì 23 ottobre 2012


L’unità d’Italia

Ricorrono spesso gli inviti ad uno scatto di reni di noi italiani, a prendere coscienza delle nostre potenzialità e della nostra condizione tutto sommato felice rispetto al resto del mondo. Ci si chiede perché non siamo capaci di amare sufficientemente la nostra patria, la sua cultura, le sue bellezze naturali, i suoi siti archeologici, persino i suoi brand imposti all’attenzione del mondo intero con il lavoro, l’ingegno, l’industriosità, perché non abbiamo l’orgoglio del nostro passato e in nome di esso l’aspirazione a costruire un destino comune. Azzardo una risposta: probabilmente perché l’Italia è una incompiuta, o meglio, l’Italia intesa come consapevolezza della propria identità, non è mai esistita. Già al momento della sua nascita essa fu il frutto di circostanze fortuite e favorevoli, non già di un moto di popolo spontaneo né di un progetto diffuso. Lo stesso Cavour, considerato il geniale artefice dell’unità d’Italia, aveva un altro progetto rispetto a quello che si ritrovò realizzato tra le mani. Aveva in animo l’ampliamento dei confini del regno sabaudo e guardava con sospetto ai matti come Garibaldi e Mazzini che, a suo vedere, rischiavano di scompaginare i suoi progetti. L’idea d’Italia fu l’utopia di mille idealisti spiantati, armati ed equipaggiati alla bell’e meglio, che veleggiarono verso Marsala incuranti della preponderanza di un esercito che sulla carta appariva imbattibile. Lo stesso Garibaldi probabilmente, in cuor suo, sapeva di andare incontro ad una impresa dall’esito incerto se non disperato e solo il suo fegataccio avvezzo a gesta temerarie in Sudamerica, poteva avventurarsi in quel salto nel buio che era la spedizione verso una terra sconosciuta a sud di Napoli. Dove accadde di tutto al di là di ogni più rosea aspettativa, la fellonìa delle truppe e il tradimento dei generali borbonici, il gioco degli interessi delle cancellerie francesi e inglesi, lo rabbia contro il potere costituito gettata sulle barricate da servi della gleba, lazzaroni e picciotti, l’apatia della nobiltà, l’insussistenza di una borghesia che non aveva coscienza di alcun ruolo, l’alleanza della criminalità organizzata con chi brigava contro il Borbone, tutto tranne lo spirito patriottico.
Ad unità compiuta dall’una e dall’altra parte ci si rese conto del risultato ottenuto. Gli ex sudditi del regno delle Due Sicilie, divenuti sudditi del regno d’Italia, si resero conto del pessimo affare fatto e di come erano caduti dalla padella nella brace, e i nuovi padroni si dovettero confrontare con una realtà medioevale che non sapeva neanche in quale dimensione era stata traghettata. La guerra civile, i contadini scambiati per briganti e trucidati o in alcuni casi divenuti autenticamente briganti in presenza di nuove ingiustizie, la normativa che penalizzava l’economia del sud a favore di quella del nord, lo stravolgimento delle sia pur poche testimonianze di dissenso, la dicono tutta sul clima dell’epoca e sul piglio coloniale che animava i nuovi governanti. Altro che unità d’Italia! Fu un imbroglio che condizionò il futuro della nostra Nazione. Come tutte le fusioni a freddo l’unione non  avvenne, anzi si radicò maggiormente il senso di appartenenza a più patrie, tante quante sono le contrade d’Italia e col passare del tempo è sempre più cresciuta nella mente della maggior parte degli italiani la convinzione di essere vittime di due realtà inconciliabili lette col livore delle parti contrapposte, un nord avido e rapace e un sud sprecone e parassita. Ancora oggi fatica a realizzarsi quell’identità che dovrebbe spingerci se non all’amor di patria, almeno alla coscienza della comune appartenenza. Siamo ancora guelfi contro ghibellini, polentoni contro terroni. Siamo fermi all’Italia dei comuni e di quel tempo abbiamo conservato la genialità, lo spirito d’iniziativa e l’amore per l’ignoto, il gusto del bello, uno stile di vita gaudente e non impegnativo, un individualismo esasperato e naturalmente una inguaribile litigiosità. Non ci si può chiedere quello che non abbiamo, l’orgoglio della nostra appartenenza e la capacità di andare oltre il particolare per costruire un destino comune che non è nelle nostre corde perché da sempre siamo un’accozzaglia di campanili.
Allorché invochiamo la riforma dello Stato sembriamo dimenticare che lo Stato nasce dal patto tra i cittadini, che i nostri cittadini sono irredimibili come i loro vizi e non hanno la coscienza civica per tenere fede agli impegni presi e che dunque il patto che hanno sottoscritto era destinato ad essere tradito. E infatti l’interesse comune al centro del patto sociale è stato puntualmente travolto dall’interesse privato, la cura del particolare incoraggiata da una coscienza elastica e il malaffare conseguente sono diventati una pratica diffusa, alle corporazioni che guidano il Paese e che hanno gonfiato la spesa pubblica per garantire le loro prebende, risponde l’esercito degli evasori fiscali,  il disavanzo pubblico è cresciuto per saziare la fame dei nostri notabili ed è destinato a crescere in un rincorrersi perverso di tasse e spesa fino a quando tale fame non sarà saziata, cioè mai. La spesa pubblica è fuori controllo proprio perché chi dovrebbe por mano alla sua riduzione, dovrebbe ridurre i propri privilegi, figuriamoci! Qualcuno sostiene che ci è mancata la rivoluzione protestante e che non siamo forgiati al senso del dovere. Qualunque sia il motivo, è un fatto che siamo come siamo e non è facile addomesticarci, che la politica e l’antipolitica che oggi si contrappongono con faccia feroce valgono per quello che sono, l’inutile esercizio di due categorie che vengono declinate nelle estreme espressioni di due eccessi negativi, il solo esercizio di cui siamo capaci. Facciamo politica nei modi e con gli esiti che sono sotto gli occhi di tutti, rispondiamo con un’antipolitica inconcludente che partorisce un populismo velleitario. E’ inutile dolersi di come siamo e pretendere di redimerci. Siamo fatti a modo nostro e non è detto che sia il modo peggiore, ma non è il caso di farci illusioni sventolando propositi che non sappiamo realizzare, facendo appello al superamento del nostro particolare che resta il solo obiettivo di cui siamo capaci, attribuendoci patenti di un moralismo improbabile che reclama dai nostri potenti una etica adamantina che noi cittadini comuni per primi non possediamo. Quello che riusciamo a realizzare è solo un inganno, il brontolio intollerabile e ipocrita di un nuovo sovrano, l’opinione pubblica rancorosa e diseducata al diritto, che straparla di buoni propositi e di morale, che agita un giustizialismo con cui tacita la propria coscienza e crocifigge il prossimo, che liquida l’avversario di turno attraverso la scorciatoia giudiziaria, che rinnega il patto fondativo dello Stato di diritto a favore della giustizia ideologica. 

giovedì 11 ottobre 2012


I luoghi comuni giustizialisti

Leggendo i commenti ad alcuni miei post mi sono fatto una cultura sul lessico degli intransigenti che al riparo di nickname e di una legislazione permissiva danno libero sfogo alle loro frustrazioni.
Se non fossero sintomatici di un preoccupante vuoto culturale e non riguardassero vicende drammatiche, queste entrate a gamba tesa, data la loro esilarante demenza, meriterebbero di essere prese in considerazione al massimo come copione per opere buffe. Ma parliamo di mafia e antimafia e anche la demenza va presa sul serio.
L’armamentario al quale ricorre la nuova lingua giustizialista ha il suo certificato di nascita in un rigurgito rancoroso che scopre nuove frontiere letterarie, da voce ad un vaneggiamento che non riesce a trovare adeguata espressione nel linguaggio tradizionale e ricorre ad un nuovo forte linguaggio per rendere appieno l’intensità del suo livore.
La voglia di far male è tale che non trova esagerato esprimersi con queste perle di cui sono stato il malcapitato destinatario:

“ non solo state in vacanza ( in carcere ) a spese della collettività ma vi lamentate pure mentre dovreste essere appesi a testa in giù…”

“ non capisco cosa ci faccia lei in un blog. Il regime carcerario che le è stato assegnato dovrebbe isolarlo completamente dal resto del mondo….”

“ altro che 41bis. Voi mafiosi dovrebbero sterminarvi come si fa con i parassiti, una volta per tutte….”

“ sarei propenso a votare per la pena di morte per quelli come lei….”

Non male, vero? E tuttavia la foia forcaiola sa fare di meglio allorché, sbronza della ciucca mediatica in circolo perenne, bara con la realtà e rivolta la parola come un guanto scodellandoci, oltre alle succitate amenità, luoghi comuni ancora più vieti dettati dal tasso alcolico in vena al momento. Tra i più ricorrenti è la lamentela di chi afferma che non c’è certezza della pena, senza prendersi la briga di verificare che spesso la pena, specie per i mafiosi, è, non solo certa, ma inflitta a maggior ragione  quando più è incerta  la colpa.
Altrettanto ricorrente è l’intransigenza di chi cambia il significato di inquisito e vi attribuisce quello di condannato. Non si ha la pazienza di aspettare la sentenza di condanna definitiva e si appioppa all’imputato il marchio di colpevole ex cathedra.
Qualcuno si è spinto fino a dichiarare che è un momento magico quello in cui si sente il tintinnio delle manette. Siamo all’estasi da masturbazione onirica !
Si invoca il gulag e il carcere a vita raccomandando di “ buttare la chiave “, perché tanto chi è imputato deve pur aver fatto qualcosa di illecito e sennò perché lo avrebbero arrestato?
Si afferma che in nome dell’emergenza è lecita una giustizia emergenziale, vale a dire, sommaria.
La lentezza processuale che allunga a dismisura la via crucis giudiziaria viene letta, piuttosto che come un calvario per l’imputato, come un eccesso di garanzie che penalizza l’accertamento della verità, e i prescritti che non fanno in tempo a sapere se sono colpevoli o innocenti e in buona sostanza sono privati del diritto ad un processo equo, vengono bollati come furbi che beneficiano della scadenza dei termini per sottrarsi ad una sentenza di condanna. Più che prescritti, come ha acutamente scritto qualcuno, andrebbero considerati proscritti.
Rassicuro chi si preoccupa che sia finita qui, il piatto forte arriva quando volano insulti che richiamano escrementi e rifiuti organici in genere e che motivi di decenza mi impediscono di riportare nella loro esplicita declinazione. Chi ama il disgusto cerchi e troverà!
Per dirla col poeta, “ Il modo ancor m’offende”, ancor più del contenuto è l’involucro che colpisce come un pugno nello stomaco. Passi l’idiozia ma si abbia almeno il buon gusto di impacchettarla in una confezione elegante.

mercoledì 3 ottobre 2012



Non tutte le mafie sono uguali

La reazione al mio post sul 41bis da la misura di come è sentito il fenomeno mafioso in Italia.
Basta scorrere la letteratura che si occupa di mafia per avere una idea di ciò che pensano gli italiani sul’argomento, basta leggere i commenti che hanno accompagnato il mio blog fin dalla sua nascita per percepire l’odio che alberga nell’animo dei blogger in giro per la rete, nei confronti dei mafiosi, dei presunti tali e di quelli che sono appena sfiorati da un minimo sospetto.
Niente da obiettare, l’indignazione è sacrosanta anche se risente di una enfatizzazione che rimanda  ad una regia sospetta. Nelle proteste di un popolo ferito che insorge contro il malaffare si mischia assieme all’ira genuina, la manipolazione di quanti utilizzano lo sdegno degli onesti per guadagnare dimensioni altrimenti impensabili. Personaggi destinati all’anonimato si ritagliano una loro visibilità pontificando dall’alto di una superiorità morale che spesso è usurpata, maratoneti delle fughe in avanti si segnalano fra i più attivi nello sforzo di cancellare con pennellate di intransigenza le tracce di un passato che vogliono far dimenticare, abili press agents di se stessi lucrano sulle disgrazie altrui o sulla simulazione delle proprie promuovendo carriere e affari, letterati mediocri e chierici d’assalto sfruttano la gallina dalle uova d’oro per soddisfare vanità e coltivare interessi.
Agli intransigenti in buona fede ma a tema unico sottopongo alcune riflessioni.
L’ Italia ha subito dalla mafia ferite difficilmente rimarginabili, di più, offese agli affetti più cari dei propri cittadini e oltraggi alla propria immagine, attentati al proprio ordinamento civile che l’hanno indotta a provvedimenti ai limiti della legittimità giuridica. Non voglio accendere in questa sede un ulteriore dibattito sulla giustezza o meno dei provvedimenti adottati ma credo di poter dire, senza ombra di dubbio, che essi sono stati, giusti o no, di una durezza senza precedenti. Si è ritenuto che le circostanze richiedessero una risposta adeguata, che la collettività corresse dei rischi e non si è andato tanto per il sottile. Ma, chiedo ai crociati antimafia: è solo la mafia che attenta alla dignità del nostro popolo, alle istituzioni e all’ordinamento civile? E dunque è solo la mafia che merita tanta intransigenza e, in compagnia dei soli movimenti eversivi, provvedimenti così disumani?
Osservo la realtà che mi circonda e mi chiedo perché tante sacche di malcostume che aggrediscono la nostra società con la stessa forza devastante della mafia possono tranquillamente prosperare senza suscitare una indignazione che vada oltre il solito vezzo degli italiani per la protesta sterile.
Dove sono i comitati anticorruzione che, sfilando per le vie delle città, invochino la reclusione in regime di massima sicurezza per i sicari della nostra economia e dei nostri destini? Dove una commissione che, come la Commissione Antimafia, combatta le altre mafie che soffocano il libero funzionamento della nostra democrazia, la burocrazia che tiene prigioniera la politica, privilegia gli appartenenti al cerchio magico e impedisce le riforme, le organizzazioni consortili che blindano assetti consolidati, i potentati finanziari che hanno sostituito la produzione con la speculazione saccheggiando realtà imprenditoriali e vanificando la crescita di tutti noi, i politici che hanno assolto al solo compito di realizzare rendite di posizione personali, enclaves di impunità, prebende la cui scandalosa gestione esplode in una Piedigrotta grottesca che mette a nudo la loro inadeguatezza persino nel malaffare, che aprono le maglie della legge agli appetiti dei disonesti e che, per il resto, hanno portato il Paese allo sfacelo continuando imperterriti a riproporsi al palato accomodante di noi italiani, i cosiddetti poteri forti, mitici burattinai di un mondo misterioso che non devono rendere conto a nessuno, i responsabili di una giustizia civile e penale che ci regala ogni cinque giorni il consueto annunciato suicidio in carcere e arranca in coda alla graduatoria dell’efficienza e dell’equità in Europa e nel mondo, i manipolatori delle nostre coscienze che si avvalgono del loro potere mediatico per imporci le loro verità.
In che cosa queste mafie differiscono dalla mafia comunemente intesa? Certamente nella veste paludata che non richiama l’immagine cruenta di Cosa Nostra, ma non nella loro crudeltà, perché esse sono, se possibile, più crudeli e letali di Cosa Nostra, sono più invasive, hanno saccheggiato il futuro dei nostri giovani e cancellato il passato dei nostri vecchi, ci hanno spogliato della dignità di cittadini trasformandoci in sudditi, hanno ucciso la nostra facoltà di scegliere e l’ hanno sostituita con l’unica opzione oggi possibile, la rincorsa affannosa agli espedienti per sbarcare il lunario, ci hanno rubato la serenità necessaria a un minimo di qualità di vita, ci fanno convivere con l’incertezza del diritto e  la certezza delle ingiustizie diffuse, ci condannano all’impotenza e alla frustrazione in uno scenario senza speranza.
E allora, perché a questi mafiosi non si infliggono le stesse pene dei mafiosi tradizionali?
Perché i mafiosi tradizionali li precipitiamo in tombini dove chiunque passi può sputare, li rimuoviamo come si fa con qualcosa che sentiamo estranea e ci imbarazza, e invece ai mafiosi paludati ammicchiamo con indulgente complicità come a dei geniali birbanti? Forse perché di questi birbanti invidiamo l’abilità e le fortune e alla loro famiglia sentiamo, tutto sommato, di appartenere privi come siamo di un minimo di senso civico? O forse  perché uomini delle istituzioni e colpevoli si nutrono dello stesso brodo di coltura, frequentano gli stessi luoghi, appartengono alle stesse caste, si sposano fra di loro e contraggono omertose connivenze avendo cura di distogliere la rabbia della gente dal proprio mondo e indirizzarla contro i soliti iloti figli di un dio minore?

venerdì 21 settembre 2012

In risposta ai soliti noti


Avevo messo nel conto la reazione dei soliti noti che impazzano in rete alla ricerca delle occasioni per liberare le loro frustrazioni e deciso in partenza di non tenerne conto. Ma non mi aspettavo tanto. Debbo dire che ho difficoltà a leggere il senso degli insulti che mi vengono rivolti ed è troppa fatica (oltretutto non ne ho la competenza) cimentarsi nell’unico ambito che dovrebbe occuparsi della complessità dei deliri piovutimi addosso: la psicoanalisi. Non c’è nessuno che abbia centrato il cuore del problema, non uno che abbia contestato, sul piano morale e giuridico, il mio appello per la cancellazione del regime del 41bis, quasi tutti sono andati fuori tema e si sono concentrati sulla mia indegnità. Come se essere indegni precluda la possibilità di porre un problema che indubbiamente esiste e che non è così scontato (vedi le censure in sede europea). Siamo alla damnatio memoriae, alla cancellazione dell’individuo e della sua capacità di pensare, all’etica come strumento di lobotomizzazione della mente, alla rete che esibisce campioni di un massimalismo che si appalta le poltrone del moralismo e l’esclusiva delle patenti da distribuire, in cui tanti Vinscinsky da strapazzo scorazzano sognando di dar corpo alle loro ambizioni forcaiole. Ho persino prodotto un mostro che coltiva il sogno del ripristino della pena di morte.
I soli che sono entrati nel merito del mio appello seppure per contestarlo, sono stati l’on. Lumia e il dr. Ingroia, l’uno con considerazioni di opportunità, l’altro con considerazioni di carattere giuridico. Al primo il quale sostiene che il regime del 41bis andrebbe addirittura indurito e che la sua cancellazione equivarrebbe ad una sconfitta dello Stato, mi permetto far presente che le esigenze di sicurezza non sono esigenze di vendetta, che esse  possono essere tutelate anche con strumenti diversi dall’isolamento e che forte della sua intransigenza, invece di imperversare nel comodo mattatoio di casa nostra contro i reietti tagliati fuori dalle garanzie del nostro ordinamento giuridico, egli dovrebbe volare a Strasburgo e bacchettare Jean Paul Casta presidente della Corte Europea dei diritti dell’uomo il quale ha censurato l’Italia con queste parole: “Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato”. E per favore non scomodi Pindaro che cantò gesta e miti inseguendo un ideale umano che nulla ha a che fare con la concretissima quotidianità di uomini murati vivi.
Al dr. Ingroia il quale ci ricorda che la Consulta si è pronunciata per la costituzionalità del 41bis, voglio a mia volta raccomandare la lettura dei seguenti articoli della Carta Costituzionale, gli articoli 2, 10,13,27. La pronuncia della Consulta alla luce di queste norme costituzionali è, mi sia consentito, un mistero.
Non voglio chiudere questo post senza rispondere ai soli che hanno usato toni pacati e mi hanno fatto sentire un poco meno indegno.
A Balqis De Cesare ricordo che sono un imputato di mafia condannato in primo e secondo grado e dunque una mia partecipazione ad una manifestazione antimafia suonerebbe inopportuna, poco credibile e, oserei dire, provocatoria, a parte il fatto che non verrebbe accettata. Ma cosa penso della mafia e la mia distanza da essa si possono evincere dalla lettura dei post del mio blog e soprattutto dalla lettura del mio libro “L’universo di Nazareno” stampato dal gruppo editoriale l’Espresso.
Ringrazio Aledo per i suoi toni pacati, ogni tanto si respira un poco d’aria pulita. Rischio però di deluderlo. C’è una verità processuale seppure non definitiva che dice che sono mafioso. Si vedrà come andrà in Cassazione, nel caso venissero confermate le sentenze di primo e secondo grado, sarò definitivamente e ufficialmente mafioso. C’è però anche una verità non processuale della quale parlo nel mio post “Ritorno in carcere”, e quella è la mia verità. A lei scegliere a chi credere. La posso aiutare citando la mistica spagnola Teresa D’Avila che sosteneva: “Se vuoi conoscere veramente un uomo, devi leggere le sue epistole perché è lì che l’uomo si libera degli orpelli e denuda il suo cuore”. Cito a memoria ma il senso dovrebbe essere questo. La ringrazio qualunque dovesse essere la sua scelta.

giovedì 13 settembre 2012

Il 41 bis


Ho sperimentato sulla mia pelle cosa significa sollevare il problema relativo al regime del 41 bis per essere stato investito, quando ho affrontato l’argomento, da invettive, insulti e inviti a finire i miei giorni in un gulag. So poi che, assieme ai soliti ignoti a caccia di buglioli in cui vomitare il loro odio, debbo mettere nel conto anche  il rischio di essere frainteso dai soliti aruspici che amano leggere chissà quali dietrologie in articoli innocenti, e le sacrosante proteste di quanti portano impresse sulla loro pelle i segni delle ferite riportate sul fronte della lotta alla mafia. Ma sono testardo e torno sull’argomento che, seppure impopolare, ha il fascino della lotta impari e della pietà sentita come imperativo morale.
Mi rivolgo innanzitutto ai parenti delle vittime di mafia. Di essi condivido lo sdegno e comprendo l’ira, ad essi, se la Cassazione deciderà in via definitiva che sono mafioso, seppure estraneo alle loro sofferenze ma colpevole dell’identità inflittami, chiederò perdono, ma ad essi sento di  rivolgermi come a compagni di un medesimo viaggio, titolari di quello che Gibran ha chiamato il comune destino in cui “insieme sono intessuti il filo bianco e il filo nero e, se il filo nero si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio.”
Ad essi dico che il loro desiderio di giustizia è sacrosanto ma che questo desiderio non può confondersi con la voglia di sangue di cui si nutrono gli squallidi personaggi che usano i drammi altrui per liberare la loro anima malvagia, che essi sono l’umore dal quale sono germogliati gli spiriti di uomini che hanno sacrificato la loro vita, che il loro dolore è troppo nobile per sporcarsi col rancore e la vendetta. I loro destini servono a riscattare altri destini e ad essi chiedo di unirsi ai familiari dei carnefici dei loro cari per un atto di giustizia. Quando parlo di giustizia non intendo indulgenza nei confronti delle colpe e delle pene. A ciascuno il suo, ai colpevoli l’espiazione della pena, ai giusti la pretesa del rispetto dei fondamentali diritti umani. Il rigore dell’espiazione non deve essere frainteso e confuso con la tortura, l’espiazione deve procedere senza sconti ma avendo riguardo per la dignità del colpevole e dei suoi familiari. Quando in un mio post proposi la lettera di un detenuto in regime di 41 bis che descriveva le condizioni strazianti in cui si svolgeva il colloquio tra se e suo figlio di pochi anni, ho dovuto registrare il sarcastico commento di un anonimo che si compiaceva della crudeltà del colloquio descritto e si augurava sofferenze ancora maggiori. Ecco cosa intendo per giustizia di contro al giustizialismo, non certo il perdono da parte dello Stato che non può abdicare al suo rigore, ma neanche la vendetta e l’accanimento nei confronti del reo al cui fianco mi piace immaginare la pietà della vittima che ben conosce la sofferenza e ne avverte l’insensatezza.
Ad altri mi rivolgo con diverse motivazioni e, fra esse, non certo la pietà. Alle coscienze libere che hanno a cuore l’equità del diritto mi rivolgo per ricordare loro che hanno dormito a lungo, che tra diritto e sicurezza urge una scelta e che l’opzione della sicurezza finora prevalsa non fa onore alla tradizione dei lumi e delle garanzie liberali. La pena non può essere utilizzata come risposta eccezionale ad una condizione d’emergenza e lo Stato di diritto deve sapere tenere i nervi saldi non dimenticando che la contrapposizione fra sicurezza e diritto va gestita con misura ed equilibrio. Vi è chi si richiami alla lezione Dei Beccaria, dei Montesquieu, dei Locke, e sappia gridare che la pena non è afflizione e che non è ammissibile che esseri umani fatti della stessa carne di noi tutti subiscano l’inferno di una condizione intollerabile quale è quella del 41 bis reiterato ininterrottamente per decenni, senza alcuna considerazione per le mutate circostanze e per le nuove sensibilità nel frattempo maturate nell’animo dei detenuti, in cui la vita fisica e quella psichica vengono giorno dopo giorno spente con un crudele stillicidio di vessazioni che coinvolgono i reclusi e i loro familiari?
Dal mio non invidiabile osservatorio percepisco che mio figlio non è più quello di sette anni fa e constato lo smarrimento di mio nipote costretto a sottoporsi al martirio del colloquio mensile col padre, il vuoto del suo sguardo, la mia inadeguatezza a dare risposte alle sue domande mute e il mio terrore per le derive che possono nascere nel suo animo provato.
Uomini come il Capo dello Stato, campioni del pensiero liberale che hanno a cuore la tutela dell’individuo come Ostellino, luminari della scienza che hanno sostenuto la capacità dell’uomo di cambiare e di avere diritto ad una seconda opportunità come Veronesi, combattivi difensori dei diritti umani come Pannella, Della Vedova e Manconi, portatori di una concezione giuridica rigorosamente garantista come Pisapia e Ferrajoli, giornalisti intellettualmente onesti come Panza, Polito, Battista e carismatici come Scalfari, non hanno alibi se continuano a latitare in una contesa che riguarda la civiltà del diritto ancor prima della sopravvivenza di vite umane. Ad essi ricordo che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 39/46 del 1987 ha approvato una Convenzione contro la tortura e ha obbligato gli stati contraenti ad adottare una serie di provvedimenti in sintonia con la convenzione approvata. La legislazione italiana non si è ancora adeguata a quest’obbligo e, se si fa riferimento all’art. 27 della Costituzione sulla umanizzazione della pena, non c’è dubbio che il 41 bis è un regime di tortura e che la sua applicazione è un vulnus del nostro sistema giudiziario. D’altronde siamo destinatari di parecchie censure in merito da parte della Comunità europea. La giustizia in uno stato liberale altro non è che una valutazione morale esercitata in un ordinamento legale, grazie alla quale lo Stato può giustificare il ricorso alla violenza, attraverso la condanna e la carcerazione, in risposta alla violenza del cittadino. Ma lo Stato che affida ad una valutazione morale la ragione della sua violenza, non può prescindere da un analogo imperativo morale che imponga il rispetto della condizione umana alla quale è costretto a fare violenza.
E’ questo un appello alle coscienze libere, agli Ostellino, ai Veronesi, ai Pannella, Della Vedova, Manconi, Pisapia. Ferrajoli, Panza, Polito, Battista, Scalfari e ad altri uomini di buona volontà perché si rivolgano alla associazione Liberarsi a Grassina (Fi) ( assliberarsi@tiscali.it ) che da tempo si batte in difesa dei diritti dei detenuti e assieme ad essa si intestino una battaglia per l’abolizione del 41 bis, una battaglia che so difficile perché combattuta contro avversari che godono di seguito, di potere di veto e coagulano umori giacobini coltivati a lungo e capillarmente diffusi in una opinione pubblica spaventata e incitata al linciaggio, ma che ha il fascino delle lotte degne perché riguarda l’uomo della cui centralità cominciò a parlare un certo Socrate attirandosi l’accusa di empietà, perché riguarda la sua dignità che è quella di tutti noi.
Avevo previsto di rivolgere questo appello al cardinale Martini, così vicino alle sofferenze dei carcerati, ma sono arrivato tardi. Sono comunque certo che da lassù ci darà una mano.

lunedì 27 agosto 2012

La condanna di Anders Breivik


                                                       

La mite condanna di Anders Breivik, colpevole di avere ucciso a freddo settantasette persone, a 21 anni di carcere, suscita in noi italiani un moto di indignazione e di stupore. Educati ad un concetto di pena ben più severo, stentiamo a capire il senso di questa sentenza, perché, rispetto ai norvegesi nutriamo una diversa considerazione della dignità dell’uomo. Seppure l’art. 27 della Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, noi siamo ben lontani dalla cultura del recupero, preferendo ascoltare i suggerimenti della pancia che ci incitano alla vendetta. Da noi l’imputato è già colpevole e l’odore di sangue ci spinge ad esecuzioni di piazza che fanno giustizia sommaria della nostra civiltà ancor prima che della vita di un uomo. Basta navigare su internet per imbattersi nei più sconcertanti scampoli di un campionario di intolleranza che la dice tutta su quello che siamo. L’imputazione, ancor prima della sentenza di condanna, scatena la nostra sete di vendetta facendo emergere quella subcultura che ci connota come un popolo afflitto da una disinvolta concezione morale, spietato censore delle altrui colpe, a caccia del prossimo da linciare tanto più quanto più è indulgente con se stesso. Le tricoteuses assise ai piedi del patibolo non si discostano molto dai condannati e ne costituiscono il brodo di coltura.
Figuriamoci dunque se possiamo capire i norvegesi! Da noi, per molto meno, vige la pratica dell’ergastolo con cui liquidiamo il male anziché redimerlo, con cui normalizziamo la vita del condannato in via definitiva e mettiamo la società al riparo definitivo dal pericolo che, dopo trent’anni anni, il condannato possa tornare a delinquere. E’ l’antica diatriba fra sicurezza e diritto che da noi fa prevalere la sicurezza anche se sull’altare di questo feticcio si immola la vita di un uomo. Perché dobbiamo dire con chiarezza che stiamo parlando di una esecuzione di morte, anzi, di più, di una lenta, crudele, infinita esecuzione durante la quale il condannato è privato della sua vita attraverso una consunzione cerebrale che lo accompagna fino alla fine della sua esistenza. E in più, stiamo parlando di una esecuzione consumata nell’inferno delle nostre carceri.
Beccaria sosteneva che una pena inflitta ad un uomo dopo tanto tempo è una pena ingiusta perché colpisce un uomo che dopo tanto tempo non è più lo stesso uomo e Umberto Veronesi, proprio a commento della sentenza Breivik, ha confermato scientificamente la teoria di Beccaria. Scrive Veronesi:” Fino a pochi anni fa pensavamo che con il tempo aumentassero solo le sinapsi, i collegamenti fra neuroni. Oggi abbiamo scoperto invece che il cervello è dotato di cellule staminali proprie e dunque si rigenera. Quindi anatomicamente il nostro cervello può rinnovarsi. In effetti ognuno di noi può sperimentare come il suo modo di pensare e sentire non sia lo stesso di 10 anni prima; ma il ragionamento ha ben più forti implicazioni a livello della giustizia, perché il detenuto non è la stessa persona condannata 20 anni prima. Personalmente io appartengo alla vasta schiera dei sostenitori dell’origine ambientale del male: non esistono persone geneticamente predisposte al delitto, ma esistono persone psicologicamente più fragili che vengono influenzati da fattori esterni (famiglia, cultura, disagio sociale o psichico) che li spingono al crimine. Se accettiamo questo presupposto scientifico, allora tanto più il compito della giustizia non è la vendetta, la greca Nemesi, ma la Metanoia, il ravvedimento predicato da Giovanni Battista sulle rive del Giordano, e dunque la rieducazione e, in caso di successo, il reinserimento sociale”.
Non c’è altro da aggiungere se non la testimonianza di una confessione fattami, durante la mia detenzione, da un ergastolano: “Ritengo l’ergastolo una pena più crudele della morte. Esso è la condanna ad una parvenza di vita che parla solo a se stessa, monca, innaturale, senza connessioni col resto del mondo, è il destino di uomini che fanno della finzione una realtà vissuta disperatamente, progettando sogni e coltivando speranze che non si realizzeranno, sbirciando fuori dalla propria emarginazione e aspettando un segnale di interesse per la propria sorte. Noi ergastolani ci sforziamo di vivere, imponiamo con rabbia le nostre esistenze rivendicando il diritto alle nostre intelligenze cancellate da coloro che ci infliggono, assieme ad un futuro negato, l’astio perché osiamo. Siamo gli eredi di origini ormai lontane che, dopo decenni, stentiamo a ricordare, gli avanzi confusi di un antico contesto, ossessionati dal rumore dei nostri passi, privi di relazioni vitali, ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta inutile. René Girard ne “La nausea della vendetta” ha scritto che l’originalità della vendetta è un’impresa vana e che, nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, matura una tragedia senza inizio e senza fine. Ebbene l’ergastolo, come la vendetta, è una tragedia senza fine in cui il tempo diventa uno stillicidio senza passato e senza futuro, in cui gli uomini che sovrintendono alla nostra pena aspettano pazientemente che giungiamo a quell’appuntamento estremo che aleggia costantemente a fianco di noi ergastolani, il suicidio”.


lunedì 20 agosto 2012

Casini…


                                                                 
In una lettera al Corriere della Sera l’on.Casini invita a raccogliere la lezione di De Gasperi e, come al solito, si propone con l’aria del bravo ragazzo che cade dalle nuvole denunciando gli errori degli altri.
Evocando le parole di De Gasperi: “Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni”, egli accusa la classe politica e una parte di quella dirigente di avere tradito la lezione di De Gasperi coltivando “gli interessi di partito, di categoria e di corporazione, e poco, o niente,” quelli delle “prossime generazioni”. Aggiunge che il testimone di De Gasperi è stato raccolto “da uomini come Fanfani, La Malfa o Moro, personalità capaci di guidare il Paese, attraverso scelte anche impopolari, fino a risultati straordinari, con tassi di crescita che oggi definiremmo cinesi, un Pil pro capite da quarta-quinta potenza economica mondiale, un’industria manifatturiera seconda solo alla Germania”. L’on. Casini si è nutrito della stessa cultura degli uomini che mostra di ammirare, una cultura che si ispirava ai valori di un malinteso senso di giustizia sociale e di un cattolicesimo di retroguardia che da lì a poco sarebbe stato superato dai nuovi indirizzi della dottrina sociale della Chiesa. Prendendo il testimone di De Gasperi c’era da fare una scelta tra i due vecchi antagonisti di sempre, libertà e uguaglianza, sapendo leggere il messaggio di De Gasperi. L’Italia di allora era una Nazione protesa verso i traguardi decantati dall’on. Casini grazie alla propria forza vitale, al proprio ingegno, alla propria laboriosità e creatività, certamente non grazie all’opera degli eredi di De Gasperi che fecero una scelta di uguaglianza imbrigliando quelle risorse invece di incoraggiarle. In omaggio ad un ideale di uguaglianza calata dall’alto, fu varato un welfare sprecone e lottizzato che incoraggiò la nascita di corporazioni e lobby e finì per fissare disuguaglianze tra privilegiati e non, soprattutto tra le generazioni delle vacche grasse e le generazioni future penalizzate da un saccheggio delle risorse pubbliche che non potevamo permetterci. Assistiamo alla corsa di chi pretende di intestarsi valori liberali, dopo averli ignorati in una corsa folle allo statalismo invasivo che ha soffocato l’economia del Paese pur di garantire consorterie ormai consolidate e difficili da scalfire, mentre le nuove generazioni affogano nei problemi di una esistenza senza futuro grazie ad una scelta che parte da lontano e che è stata fatta dagli uomini che Casini definisce statisti.
Figlio di questa cultura, ad ogni rintocco di campane a morte, il nostro sale sull’ambone a denunciare i tradimenti della politica con aria compunta e  piglio scandalizzato, ma non ci spiega dove era lui mentre si perpetravano questi tradimenti.  

mercoledì 8 agosto 2012

Gli zombi


Il popolo degli zombi è perennemente in agguato pronto a consumare il rito dell’eucaristia pagana non appena sente odore di sangue. Esso è infatti puntualmente risorto per cannibalizzare Alex Schwazer caduto in una marcia che ha tentato di correre imboccando la scorciatoia del doping.
Naturalmente non si può solidarizzare con chi ha tentato di falsificare il risultato di una gara e scipparla a chi ha fatto sacrifici onesti. Si può capire perciò la severità con cui Patrizio Oliva ha condannato Schwazer, arrivando persino a censurare le lacrime dell’altoatesino e affermando che è troppo comodo piangere, che le lacrime non possono cancellare la gravità dell’inganno. Si è addirittura augurato che Schwazer sia radiato a vita piuttosto che sospeso per due anni. E’ impressionante assistere alla impietosa reprimenda di Oliva dopo avere assistito alla straziante conferenza stampa di Schwazer e viene da chiedersi se Oliva non abbia esagerato, specie se ci si convince che il pentimento mostrato da Schwazer è sincero. Un po’di rispetto, si potrebbe dire, per un uomo in lacrime che ha saputo affrontare la gogna mediatica esponendosi all’occhio crudele delle telecamere e ha saputo assumersi le sue responsabilità, un uomo, per di più, che ha dato l’impressione di aver vissuto la sua scelta in una solitudine troppo pesante per la sua fragilità, di non avere più sopportato di convivere con essa e abbia deciso di condividerla facendo di tutto per farsi scoprire. Al galantuomo in vena di razzismo alla rovescia che ha scritto : “ In fondo Schwazer non è neppure italiano” è facile rispondere che infatti il comportamento di Schwazer non è da italiani abituati a negare l’evidenza e ad arrampicarsi sugli specchi pur di non assumersi le proprie responsabilità. 
Tornando ad Oliva, pur privo di una qualsiasi forma di pietà, egli ha l’autorevolezza e le carte in regola per consentirsi tanta severità perché ha ottenuto e dato all’Italia i massimi risultati nella sua disciplina imboccando la via maestra del rigore, perché è a contatto continuo con il sacrificio degli atleti che allena e non riesce ad accettare che tutto ciò venga tradito. La sua rabbia dunque, per quanto impietosa, egli se la può permettere.
Chi non si può permettere di infierire su un uomo caduto sono i soliti censori da strapazzo che non perdono occasione per dare sfogo al loro livore da complessati orfani di una qualsiasi impresa che valga la pena di essere ricordata, che traggono dalle disgrazie del loro prossimo la loro ragione di vita, sono i cecchini rosi dalla rabbia della propria mediocrità che si appollaiano sull’albero dell’anonimato per colpire chi fino ad allora hanno dovuto osannare, realizzando così la loro rivincita. E’ la viltà di noi italiani che abbiamo tributato onori e fasti al dittatore quando era in auge e l’abbiamo appeso a testa in giù a Piazzale Loreto quando è caduto.
E, diciamolo pure, con buona pace di tutti i censori in buona o in mala fede, si è fatto troppo rumore per una vicenda che non lo meritava.

La ragion di Stato


Nella sua rubrica settimanale “Il dubbio” sul Corriere della Sera di sabato 4 agosto, Piero Ostellino ha commentato l’intervista a Repubblica con cui il dr. Ingroia ha lamentato il tentativo d’ingerenza della politica nell’attività della magistratura.
Piero Ostellino ha gratificato Ingroia di un duro giudizio accusandolo di essere “afflitto da una imbarazzante carenza scolastica” e ha rincarato la dose sostenendo che la sua reazione è “frutto di una inadeguatezza culturale e di una inclinazione a contrapporre Giustizia e Politica”.
Tutto perché Ingroia ha reclamato una maggiore chiarezza da parte della politica che dovrebbe dire a chiare lettere se c’è una ragion di Stato che impedisce l’azione della magistratura e l’accertamento della verità a proposito della trattativa Stato mafia.
Ostellino sostiene che la ragion di Stato non è “codificabile, bensì immanente alla Politica, è un suo modo d’essere”, ha, appunto, una sua ragione che si giustifica perché“vuole evitare che uomini pubblici che si siano (eventualmente) sporcate le mani nel servire lo Stato siano chiamati a risponderne all’opinione pubblica o ai tribunali secondo la morale e la legge che regolano i comportamenti del cittadino comune”. Essa è legibus soluta e per questo motivo non può essere dichiarata o preventivamente comunicata alla magistratura alla quale non ha l’obbligo di rispondere, e che peraltro non potrebbe accettarne la logica, essa  risponde esclusivamente alle esigenze della Politica che a sua volta risponde solo alla propria coscienza. E’ inutile strapparsi i capelli e gridare allo scandalo, bisogna prendere atto che, per quanto ciò possa urticare il nostro senso morale, dalla ragion di Stato qualche volta non si può prescindere, bene inteso sempre che il background istituzionale sia solido e impermeabile alle derive che da essa possono nascere. Bisogna che gli uomini che reggono le sorti dello Stato siano integerrimi, che sappiano valutare le condotte degli uomini che guidano e garantire che essi  servano effettivamente lo Stato quando ricorrono alla ragion di Stato, che insomma siano percepiti così indiscutibilmente specchiati e al di sopra di ogni sospetto da non destare alcun dubbio se sono costretti ad una scelta così estrema.
Abbiamo noi governanti di tal fatta? Se si, dobbiamo fidarci di loro e accettare che “boss mafiosi, generali dei carabinieri, uomini politici siedano sullo stesso banco degli accusati” senza scandalizzarci. Se gli uomini di cui ci fidiamo hanno lasciato che servitori dello Stato, accusati di“essersi sporcate le mani”, venissero incriminati, vuol dire che hanno ritenuto tali servitori infedeli e degni di meritare un destino pari a quello del comune cittadino che infrange la legge.
Ma, ecco il punto, è la nostra classe politica all’altezza del suo compito e possiamo fidarci dei suoi uomini?

domenica 22 luglio 2012

Ritorno in carcere

La sentenza d’appello depositata qualche mese fa con la quale è stata confermata la condanna a otto anni inflittami in primo grado è stato un rospo difficile da ingoiare. Ho combattuto a lungo con la tentazione di commentarla pubblicamente senza sapermi decidere. Alla fine mi sono detto che non potevo lasciare al mio giudice l’esclusiva della verità sul mio conto e che avevo il diritto di dire la mia. Vengo meno perciò alla decisione presa tempo fa di non scrivere più sul mio blog e torno a utilizzarlo proprio per commentare la suddetta sentenza. Evidentemente non sono quell’uomo d’onore che dicono io sia. E veniamo al dunque. Si è soliti dire che le sentenze non vanno discusse ma rispettate. Posso capire che siano rispettate, ma non per questo necessariamente condivise. Io, per esempio, sto accettando la sentenza che mi condanna e, se la Cassazione ribadirà definitivamente tale condanna, non mi sottrarrò ad essa e tornerò in carcere. Ma pur accettando la verità processuale non esito a dissentire da essa ritenendola profondamente ingiusta. Lo dico con cognizione di causa dopo avere letto le motivazioni della sentenza in cui si può cogliere un campionario delle acrobazie messe in atto pur di giungere ad una verità abborracciata. Se un collaboratore di giustizia mi accusa di essere mafioso reiterando la stessa accusa appresa da un precedente collaboratore senza aggiungere elementi nuovi che diano originalità alla sua dichiarazione, appare chiaro che non può invocarsi la cosiddetta convergenza del molteplice e considerarla prova per condannarmi, come ha fatto il mio giudice. Se un collaboratore di giustizia afferma di detestarmi e promette di farmela pagare confidando la sua avversione e i suoi progetti di rivalsa nei miei confronti ad un suo amico che ne ha dato testimonianza in aula in qualità di teste dell’accusa, se emergono le ragioni del suo rancore attraverso le dichiarazione di due testimoni (stavolta della difesa) che riferiscono di quando l’ho schiaffeggiato, è singolare che il giudice ritenga non attendibili i miei testimoni (e il teste dell’accusa?) senza denunciarli per falsa testimonianza e non nutra alcun dubbio sulla sincerità delle accuse del collaboratore. A maggior ragione se lo stesso collaboratore è stato ritenuto inattendibile da altro giudice e continua ad incassare ulteriori sconfessioni come è accaduto in questi giorni. Se nella intercettazione di un mio colloquio con questo stesso personaggio che si stava apprestando a saltare il fosso e, per convincere gli inquirenti della sua buona volontà, accettava di prestarsi a tendermi una trappola presentandosi all’appuntamento con me imbottito di microspie con l’intento di carpirmi dichiarazioni compromettenti, emerge che io, all’oscuro di tutto, dichiaro di essere estraneo alle logiche mafiose senza che il mio interlocutore contesti le mie affermazioni richiamandomi, che so, alla responsabilità per azioni delittuose commesse assieme, che grido la mia indignazione per essere stato coinvolto incolpevolmente nelle vicende di mio figlio senza suscitare alcuna reazione di stupita protesta nel mio interlocutore, è singolare che il giudice ritenga le mie affermazioni frutto di un’abile messa in scena, attribuendomi doti profetiche e pretendendo che io conoscessi, nel momento in cui stava nascendo, un progetto di collaborazione che sarebbe divenuto operativo e noto solo a distanza di sei mesi dalla data del colloquio. Se un collaboratore di giustizia afferma di avermi incontrato in un locale che è risultato inesistente, se afferma che in questo presunto colloquio mi ha chiesto di accreditarlo presso il comune di Villabate per l’ottenimento di un incarico professionale confidando nel mio potere politico e nella mia conseguente capacità di influenzare le scelte dell’amministrazione comunale dell’epoca, se risulta che la data del colloquio è il 1993, anno in cui io non svolgevo alcuna attività politica (avrei cominciato il mio percorso politico solo nel 1994 con F.I.) e dunque non avevo alcun potere contrattuale per intervenire su un’amministrazione comunale i cui esponenti peraltro sarebbero stati miei avversari politici nella competizione elettorale amministrativa che si sarebbe svolta nel 1994, se il signor collaboratore mi indica come ex sindaco di Villabate mentre è notorio che non ho mai fatto parte neanche di un collegio sindacale di condominio, è singolare che il giudice ritenga attendibile il collaboratore solo perché questi ha affermato di riconoscermi in una foto durante le indagini condotte dai P.M. senza la presenza dei miei difensori che vigilassero sulla correttezza delle procedure, ritenendo questo presunto riconoscimento elemento di colpevolezza anche se non riconducibile ad alcuna azione delittuosa! Se due collaboratori di giustizia dichiarano che hanno tentato di coinvolgermi in una messa a posto, ammettendo che io mi sono rifiutato di aderire alle loro richieste, è singolare che il giudice ritenga insufficiente il mio diniego e valuti con sospetto la mia condotta. Se un collaboratore di giustizia afferma che è logico che sono mafioso perché padre di mio figlio, è singolare che il giudice accetti questo automatismo che introduce il principio della responsabilità oggettiva nel diritto penale. Se un collaboratore, prima mi esclude dall’organigramma della famiglia mafiosa di Villabate e successivamente, a domanda del P.M.(in assenza dei miei difensori), mi include, è singolare che il giudice prenda per buono questo ripensamento sospetto. Se persino la vittima della turbativa d’asta che mi viene contestata, mi scagiona, è inspiegabile che il mio giudice mi condanni. Se la mia attività politica esercitata ricoprendo incarichi di partito conquistati dopo libere elezioni che mi accreditavano quale interlocutore legittimo nella vita politica del mio territorio, è stata prima negata e poi letta come una indebita intromissione dal mio giudice, pur non essendomi stato contestato alcun reato in ordine a detta attività, c’è da chiedersi a quale carta costituzionale il mio giudice si sia ispirato. Se tutti i collaboratori di giustizia che mi accusano, seppur contraddittori, non riscontrati e palesemente ispirati da dichiarazioni apprese da altri, sono dal giudice ritenuti attendibili e i testi della difesa, pur non palesando incertezze e confusioni, sono dallo stesso giudice considerati dogmaticamente inattendibili nella presunzione che essi mi vogliano a vario titolo favorire senza tuttavia essere perseguiti per favoreggiamento, lasciatemi dire che c’è del marcio nel pianeta giustizia, che c’è il calcolo di piegare la verità a teoremi precostituiti e perseguire, per dirla con Trasimaco, l’interesse del più forte, l’interesse cioè di una magistratura onnipotente che conduce una battaglia ideologica senza esclusione di colpi e sospende di fatto i diritti fondamentali pur di realizzare la sua vocazione messianica. Tucidide nel libro V° de La guerra del Peloponneso racconta come i Melii si siano dovuti piegare alle ragioni degli Ateniesi i quali ammantavano con l’appellativo di diritto le loro convenienze. E’ la consacrazione di una deriva che ha sempre attraversato il destino degli uomini e che vede i più deboli soccombere nei confronti dei più forti. In questa lotta impari in cui tutto è sempre uguale a se stesso e i deboli di ogni stagione replicano un copione stantio, è il turno degli imputati di mafia di farsi Melii e di recitare il ruolo dei deboli, quasi che le loro presunte colpe, l’infamia della loro imputazione, giustifichino la cessazione del loro status di cittadini e che lo Stato debba essere ritenuto legittimato a farne carne da macello in un sistema senza garanzie. La certezza del diritto diventa così certezza della pena tanto più quanto più incerta è la colpa. Purtroppo quando si affrontano tematiche mafiose non si va tanto per il sottile. Si scatena una vera e propria caccia alle streghe e le sentenze mediatiche finiscono per anticipare e influenzare quelle dei tribunali. In questo clima può accadere che maturino sentenze della magistratura in cui si condanna la reputazione piuttosto che il reato, in cui si utilizza come prova la cosiddetta convergenza del molteplice anche quando a convergere è solo l’inganno del dichiarante, in cui il principio del “non poteva non sapere” viene ritenuto elemento sufficiente di colpevolezza, in cui l’amministrazione della giustizia diventa una esercitazione di approssimazione giuridica. In questo modo si infliggono alla giustizia ferite mortali come è accaduto nel caso dei sette condannati all’ergastolo per la strage di via D’Amelio che hanno scontato 15 anni di carcere non dovuto, nel caso Tortora, nei tanti casi meno noti o non venuti alla luce, in cui con la pratica dei depistaggi e delle mistificazioni vite umane sono state sacrificate e la certezza del diritto è stata messa in forse. Bisogna allora avere il coraggio di denunciare l’ipocrisia della sacralità di alcune sentenze quando, al di là dell’onesto errore umano, in esse si annida disonestà intellettuale. Bisogna avere il coraggio di denunciare la disinvoltura di certa normativa ammiccante che talvolta fa del magistrato il giudice di se stesso sottraendolo ad un controllo terzo che scoraggi tentazioni autoritarie. In nome dell’autonomia del magistrato si è prodotto un monstrum, la irresponsabilità del medesimo a scapito del cittadino esposto al rischio dell’arbitrio, ed è venuta a mancare la coscienza morale di una novella Antigone che rivendichi il primato dei valori etici contro l’autoreferenzialità di una corporazione arroccata in un fortilizio consortile. Non ignoriamo l’esistenza di norme quali l’art.104 d. lgs 6.9.2011 nr.159 sulle attribuzioni del PG della Cassazione e l’art.6 del d. lgs. 20.2.2006 nr. 106, a garanzia del cittadino, ma non possiamo neanche ignorare che l’applicazione di esse è affidata agli stessi magistrati al cui corpo appartengono i controllati e che cane non mangia cane. Non tutti hanno la possibilità, come il sen. Mancino, di rivolgersi ascoltato e riscontrato al consigliere giuridico del Presidente della Repubblica ottenendo che questi intervenga sul Procuratore Nazionale Antimafia seppure con richieste lecite. Al comune cittadino non è concessa pari attenzione, al comune cittadino è concesso, come nel mio caso, dopo 15 anni di processo, 6 anni di carcere preventivo senza che si sia giunti ancora ad una sentenza definitiva, nonostante l’insussistenza dei motivi di condanna e la mia ragguardevole età, di programmare il ritorno in carcere se il mio giudice a Berlino non saprà trovare tra le pieghe del diritto l’equità che impedisca il compimento di una ulteriore ingiustizia.