Marco Pannella è in sciopero della fame e della sete da
sette giorni e rischia di morire. E’ l’ennesimo sciopero che a qualcuno può
apparire stucchevole e che invece per l’ennesima volta non corre il rischio
dell’ovvietà. Anzi stavolta più che mai, come in una piece guidata da una regia
magistrale, appassiona e coinvolge con una carica di suspense e di drammaticità
che colpisce non solo per il contesto in cui si svolge ma per i contenuti sacrosanti
e nobili per i quali si spende. Semmai, più che infastidire, ci fa sentire
colpevoli e inadeguati ad una battaglia che tutti dovremmo sentire nostra
perché affronta temi che riguardano i nostri diritti fondamentali. Diciamola
tutta senza concessioni a comode autoassoluzioni, siamo dei nani al cospetto di
un gigante che si mette in gioco a rischio della propria vita, dei pavidi che
tentennano impauriti evitando di misurarsi con mondi che non conoscono e che si
rifiutano di conoscere, degli insensibili alla sofferenza altrui che nutrono
diffidenza nei confronti di una umanità che ha sbagliato e con la quale non si
vogliono mischiare. Ricordo un mio compagno di detenzione il quale, quando gli
parlavo, per averla sperimentata personalmente, dell’attività di associazioni
di volontariato che si impegnano sul fronte dell’assistenza ai bisognosi e in
particolare dei familiari dei detenuti, sorrideva scettico invitandomi a non
lasciarmi andare a facili enfatizzazioni. Santino, così si chiamava il mio
compagno, non era tipo da abbandonarsi a illusioni, forte di esperienze che lo
avevano messo a contatto con gli aspetti peggiori della vita e di una natura
ferina che gli faceva guardare con sospetto a manifestazioni di altruismo. Per
lui la natura selvaggia di Hobbes ha la prevalenza sulla predisposizione alla
bontà teorizzata da Rousseau e sulla voglia di solidarietà raccontataci dalle moderne
conquiste della neuroscienza. L’uomo, per Santino, non è capace di nutrire
buoni sentimenti e per lui la diffidenza è la sola bussola che ci deve guidare
nei rapporti con i nostri simili. Ricordo questo episodio assistendo alla fiera
d’indifferenza e di sospetto con cui l’iniziativa di Pannella è accolta non
solo dalla gente comune, dalla stampa che non ha dato il dovuto risalto alla
notizia, ma soprattutto dai personaggi della nomenklatura intellettuale che più
degli altri dovrebbero avvertire il senso della battaglia condotta da Pannella
e raccogliere il suo messaggio e che invece brillano per la loro latitanza
probabilmente infastiditi dai suoi metodi. I metodi di Pannella possono anche
infastidire ma gli spiriti nobili ce ne propongono forse altri?
Per quello che può valere e con l’esperienza che mi deriva
dall’avere vissuto la condizione di detenuto, dico che la battaglia di Pannella
è giusta perché affronta il tema di una carcerazione in condizioni che confliggono
sia con il diritto naturale che con quello positivo, ed è cristiana perché
caritatevole nei confronti di nostri simili che hanno sbagliato ( non tutti in
verità ) ma che stanno pagando con la pena più innaturale che possa colpire un
uomo, la impossibilità di disporre della propria vita a piacimento nel rispetto
dei diritti altrui, di amare se ne hanno voglia, di passeggiare in riva al
mare, di percorrere le strade col naso all’insù senza una meta precisa, di
dormire o vegliare, di uscire o starsene tappati in casa, di relazionarsi o
preferire la solitudine, di essere liberi delle loro azioni se non della loro
volontà. Uomini costretti a rinunciare a tutto questo non meritano vendette da
parte dello Stato e tanto meno il sopracciglio inarcato degli studiosi dei massimi
sistemi che guardano con distacco alle miserie che scorrono sotto di loro,
hanno bisogno che l’empireo scenda sulla terra e si faccia umanità equanime e
pietosa. Sull’esempio di Gesù o, fatti i debiti distinguo, sull’esempio di
Pannella.
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