La mite condanna di Anders Breivik, colpevole di avere
ucciso a freddo settantasette persone, a 21 anni di carcere, suscita in noi
italiani un moto di indignazione e di stupore. Educati ad un concetto di pena
ben più severo, stentiamo a capire il senso di questa sentenza, perché,
rispetto ai norvegesi nutriamo una diversa considerazione della dignità
dell’uomo. Seppure l’art. 27 della Costituzione stabilisce che “le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato”, noi siamo ben lontani dalla cultura del
recupero, preferendo ascoltare i suggerimenti della pancia che ci incitano alla
vendetta. Da noi l’imputato è già colpevole e l’odore di sangue ci spinge ad
esecuzioni di piazza che fanno giustizia sommaria della nostra civiltà ancor
prima che della vita di un uomo. Basta navigare su internet per imbattersi nei
più sconcertanti scampoli di un campionario di intolleranza che la dice tutta
su quello che siamo. L’imputazione, ancor prima della sentenza di condanna, scatena
la nostra sete di vendetta facendo emergere quella subcultura che ci connota
come un popolo afflitto da una disinvolta concezione morale, spietato censore
delle altrui colpe, a caccia del prossimo da linciare tanto più quanto più è
indulgente con se stesso. Le tricoteuses assise ai piedi del patibolo non si
discostano molto dai condannati e ne costituiscono il brodo di coltura.
Figuriamoci dunque se possiamo capire i norvegesi! Da noi,
per molto meno, vige la pratica dell’ergastolo con cui liquidiamo il male
anziché redimerlo, con cui normalizziamo la vita del condannato in via
definitiva e mettiamo la società al riparo definitivo dal pericolo che, dopo
trent’anni anni, il condannato possa tornare a delinquere. E’ l’antica diatriba
fra sicurezza e diritto che da noi fa prevalere la sicurezza anche se
sull’altare di questo feticcio si immola la vita di un uomo. Perché dobbiamo
dire con chiarezza che stiamo parlando di una esecuzione di morte, anzi, di
più, di una lenta, crudele, infinita esecuzione durante la quale il condannato
è privato della sua vita attraverso una consunzione cerebrale che lo accompagna
fino alla fine della sua esistenza. E in più, stiamo parlando di una esecuzione
consumata nell’inferno delle nostre carceri.
Beccaria sosteneva che una pena inflitta ad un uomo dopo
tanto tempo è una pena ingiusta perché colpisce un uomo che dopo tanto tempo
non è più lo stesso uomo e Umberto Veronesi, proprio a commento della sentenza
Breivik, ha confermato scientificamente la teoria di Beccaria. Scrive
Veronesi:” Fino a pochi anni fa pensavamo che con il tempo aumentassero solo le
sinapsi, i collegamenti fra neuroni. Oggi abbiamo scoperto invece che il
cervello è dotato di cellule staminali proprie e dunque si rigenera. Quindi
anatomicamente il nostro cervello può rinnovarsi. In effetti ognuno di noi può
sperimentare come il suo modo di pensare e sentire non sia lo stesso di 10 anni
prima; ma il ragionamento ha ben più forti implicazioni a livello della
giustizia, perché il detenuto non è la stessa persona condannata 20 anni prima.
Personalmente io appartengo alla vasta schiera dei sostenitori dell’origine
ambientale del male: non esistono persone geneticamente predisposte al delitto,
ma esistono persone psicologicamente più fragili che vengono influenzati da
fattori esterni (famiglia, cultura, disagio sociale o psichico) che li spingono
al crimine. Se accettiamo questo presupposto scientifico, allora tanto più il
compito della giustizia non è la vendetta, la greca Nemesi, ma la Metanoia , il ravvedimento
predicato da Giovanni Battista sulle rive del Giordano, e dunque la
rieducazione e, in caso di successo, il reinserimento sociale”.
Non c’è altro da aggiungere se non la testimonianza di una
confessione fattami, durante la mia detenzione, da un ergastolano: “Ritengo
l’ergastolo una pena più crudele della morte. Esso è la condanna ad una
parvenza di vita che parla solo a se stessa, monca, innaturale, senza
connessioni col resto del mondo, è il destino di uomini che fanno della
finzione una realtà vissuta disperatamente, progettando sogni e coltivando
speranze che non si realizzeranno, sbirciando fuori dalla propria emarginazione
e aspettando un segnale di interesse per la propria sorte. Noi ergastolani ci
sforziamo di vivere, imponiamo con rabbia le nostre esistenze rivendicando il
diritto alle nostre intelligenze cancellate da coloro che ci infliggono,
assieme ad un futuro negato, l’astio perché osiamo. Siamo gli eredi di origini
ormai lontane che, dopo decenni, stentiamo a ricordare, gli avanzi confusi di
un antico contesto, ossessionati dal rumore dei nostri passi, privi di
relazioni vitali, ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta
inutile. René Girard ne “La nausea della vendetta” ha scritto che l’originalità
della vendetta è un’impresa vana e che, nella misura in cui tutti i personaggi
sono presi in una spirale di vendetta, matura una tragedia senza inizio e senza
fine. Ebbene l’ergastolo, come la vendetta, è una tragedia senza fine in cui il
tempo diventa uno stillicidio senza passato e senza futuro, in cui gli uomini
che sovrintendono alla nostra pena aspettano pazientemente che giungiamo a
quell’appuntamento estremo che aleggia costantemente a fianco di noi
ergastolani, il suicidio”.
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