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lunedì 27 agosto 2012

La condanna di Anders Breivik


                                                       

La mite condanna di Anders Breivik, colpevole di avere ucciso a freddo settantasette persone, a 21 anni di carcere, suscita in noi italiani un moto di indignazione e di stupore. Educati ad un concetto di pena ben più severo, stentiamo a capire il senso di questa sentenza, perché, rispetto ai norvegesi nutriamo una diversa considerazione della dignità dell’uomo. Seppure l’art. 27 della Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, noi siamo ben lontani dalla cultura del recupero, preferendo ascoltare i suggerimenti della pancia che ci incitano alla vendetta. Da noi l’imputato è già colpevole e l’odore di sangue ci spinge ad esecuzioni di piazza che fanno giustizia sommaria della nostra civiltà ancor prima che della vita di un uomo. Basta navigare su internet per imbattersi nei più sconcertanti scampoli di un campionario di intolleranza che la dice tutta su quello che siamo. L’imputazione, ancor prima della sentenza di condanna, scatena la nostra sete di vendetta facendo emergere quella subcultura che ci connota come un popolo afflitto da una disinvolta concezione morale, spietato censore delle altrui colpe, a caccia del prossimo da linciare tanto più quanto più è indulgente con se stesso. Le tricoteuses assise ai piedi del patibolo non si discostano molto dai condannati e ne costituiscono il brodo di coltura.
Figuriamoci dunque se possiamo capire i norvegesi! Da noi, per molto meno, vige la pratica dell’ergastolo con cui liquidiamo il male anziché redimerlo, con cui normalizziamo la vita del condannato in via definitiva e mettiamo la società al riparo definitivo dal pericolo che, dopo trent’anni anni, il condannato possa tornare a delinquere. E’ l’antica diatriba fra sicurezza e diritto che da noi fa prevalere la sicurezza anche se sull’altare di questo feticcio si immola la vita di un uomo. Perché dobbiamo dire con chiarezza che stiamo parlando di una esecuzione di morte, anzi, di più, di una lenta, crudele, infinita esecuzione durante la quale il condannato è privato della sua vita attraverso una consunzione cerebrale che lo accompagna fino alla fine della sua esistenza. E in più, stiamo parlando di una esecuzione consumata nell’inferno delle nostre carceri.
Beccaria sosteneva che una pena inflitta ad un uomo dopo tanto tempo è una pena ingiusta perché colpisce un uomo che dopo tanto tempo non è più lo stesso uomo e Umberto Veronesi, proprio a commento della sentenza Breivik, ha confermato scientificamente la teoria di Beccaria. Scrive Veronesi:” Fino a pochi anni fa pensavamo che con il tempo aumentassero solo le sinapsi, i collegamenti fra neuroni. Oggi abbiamo scoperto invece che il cervello è dotato di cellule staminali proprie e dunque si rigenera. Quindi anatomicamente il nostro cervello può rinnovarsi. In effetti ognuno di noi può sperimentare come il suo modo di pensare e sentire non sia lo stesso di 10 anni prima; ma il ragionamento ha ben più forti implicazioni a livello della giustizia, perché il detenuto non è la stessa persona condannata 20 anni prima. Personalmente io appartengo alla vasta schiera dei sostenitori dell’origine ambientale del male: non esistono persone geneticamente predisposte al delitto, ma esistono persone psicologicamente più fragili che vengono influenzati da fattori esterni (famiglia, cultura, disagio sociale o psichico) che li spingono al crimine. Se accettiamo questo presupposto scientifico, allora tanto più il compito della giustizia non è la vendetta, la greca Nemesi, ma la Metanoia, il ravvedimento predicato da Giovanni Battista sulle rive del Giordano, e dunque la rieducazione e, in caso di successo, il reinserimento sociale”.
Non c’è altro da aggiungere se non la testimonianza di una confessione fattami, durante la mia detenzione, da un ergastolano: “Ritengo l’ergastolo una pena più crudele della morte. Esso è la condanna ad una parvenza di vita che parla solo a se stessa, monca, innaturale, senza connessioni col resto del mondo, è il destino di uomini che fanno della finzione una realtà vissuta disperatamente, progettando sogni e coltivando speranze che non si realizzeranno, sbirciando fuori dalla propria emarginazione e aspettando un segnale di interesse per la propria sorte. Noi ergastolani ci sforziamo di vivere, imponiamo con rabbia le nostre esistenze rivendicando il diritto alle nostre intelligenze cancellate da coloro che ci infliggono, assieme ad un futuro negato, l’astio perché osiamo. Siamo gli eredi di origini ormai lontane che, dopo decenni, stentiamo a ricordare, gli avanzi confusi di un antico contesto, ossessionati dal rumore dei nostri passi, privi di relazioni vitali, ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta inutile. René Girard ne “La nausea della vendetta” ha scritto che l’originalità della vendetta è un’impresa vana e che, nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, matura una tragedia senza inizio e senza fine. Ebbene l’ergastolo, come la vendetta, è una tragedia senza fine in cui il tempo diventa uno stillicidio senza passato e senza futuro, in cui gli uomini che sovrintendono alla nostra pena aspettano pazientemente che giungiamo a quell’appuntamento estremo che aleggia costantemente a fianco di noi ergastolani, il suicidio”.


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