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martedì 23 ottobre 2012


L’unità d’Italia

Ricorrono spesso gli inviti ad uno scatto di reni di noi italiani, a prendere coscienza delle nostre potenzialità e della nostra condizione tutto sommato felice rispetto al resto del mondo. Ci si chiede perché non siamo capaci di amare sufficientemente la nostra patria, la sua cultura, le sue bellezze naturali, i suoi siti archeologici, persino i suoi brand imposti all’attenzione del mondo intero con il lavoro, l’ingegno, l’industriosità, perché non abbiamo l’orgoglio del nostro passato e in nome di esso l’aspirazione a costruire un destino comune. Azzardo una risposta: probabilmente perché l’Italia è una incompiuta, o meglio, l’Italia intesa come consapevolezza della propria identità, non è mai esistita. Già al momento della sua nascita essa fu il frutto di circostanze fortuite e favorevoli, non già di un moto di popolo spontaneo né di un progetto diffuso. Lo stesso Cavour, considerato il geniale artefice dell’unità d’Italia, aveva un altro progetto rispetto a quello che si ritrovò realizzato tra le mani. Aveva in animo l’ampliamento dei confini del regno sabaudo e guardava con sospetto ai matti come Garibaldi e Mazzini che, a suo vedere, rischiavano di scompaginare i suoi progetti. L’idea d’Italia fu l’utopia di mille idealisti spiantati, armati ed equipaggiati alla bell’e meglio, che veleggiarono verso Marsala incuranti della preponderanza di un esercito che sulla carta appariva imbattibile. Lo stesso Garibaldi probabilmente, in cuor suo, sapeva di andare incontro ad una impresa dall’esito incerto se non disperato e solo il suo fegataccio avvezzo a gesta temerarie in Sudamerica, poteva avventurarsi in quel salto nel buio che era la spedizione verso una terra sconosciuta a sud di Napoli. Dove accadde di tutto al di là di ogni più rosea aspettativa, la fellonìa delle truppe e il tradimento dei generali borbonici, il gioco degli interessi delle cancellerie francesi e inglesi, lo rabbia contro il potere costituito gettata sulle barricate da servi della gleba, lazzaroni e picciotti, l’apatia della nobiltà, l’insussistenza di una borghesia che non aveva coscienza di alcun ruolo, l’alleanza della criminalità organizzata con chi brigava contro il Borbone, tutto tranne lo spirito patriottico.
Ad unità compiuta dall’una e dall’altra parte ci si rese conto del risultato ottenuto. Gli ex sudditi del regno delle Due Sicilie, divenuti sudditi del regno d’Italia, si resero conto del pessimo affare fatto e di come erano caduti dalla padella nella brace, e i nuovi padroni si dovettero confrontare con una realtà medioevale che non sapeva neanche in quale dimensione era stata traghettata. La guerra civile, i contadini scambiati per briganti e trucidati o in alcuni casi divenuti autenticamente briganti in presenza di nuove ingiustizie, la normativa che penalizzava l’economia del sud a favore di quella del nord, lo stravolgimento delle sia pur poche testimonianze di dissenso, la dicono tutta sul clima dell’epoca e sul piglio coloniale che animava i nuovi governanti. Altro che unità d’Italia! Fu un imbroglio che condizionò il futuro della nostra Nazione. Come tutte le fusioni a freddo l’unione non  avvenne, anzi si radicò maggiormente il senso di appartenenza a più patrie, tante quante sono le contrade d’Italia e col passare del tempo è sempre più cresciuta nella mente della maggior parte degli italiani la convinzione di essere vittime di due realtà inconciliabili lette col livore delle parti contrapposte, un nord avido e rapace e un sud sprecone e parassita. Ancora oggi fatica a realizzarsi quell’identità che dovrebbe spingerci se non all’amor di patria, almeno alla coscienza della comune appartenenza. Siamo ancora guelfi contro ghibellini, polentoni contro terroni. Siamo fermi all’Italia dei comuni e di quel tempo abbiamo conservato la genialità, lo spirito d’iniziativa e l’amore per l’ignoto, il gusto del bello, uno stile di vita gaudente e non impegnativo, un individualismo esasperato e naturalmente una inguaribile litigiosità. Non ci si può chiedere quello che non abbiamo, l’orgoglio della nostra appartenenza e la capacità di andare oltre il particolare per costruire un destino comune che non è nelle nostre corde perché da sempre siamo un’accozzaglia di campanili.
Allorché invochiamo la riforma dello Stato sembriamo dimenticare che lo Stato nasce dal patto tra i cittadini, che i nostri cittadini sono irredimibili come i loro vizi e non hanno la coscienza civica per tenere fede agli impegni presi e che dunque il patto che hanno sottoscritto era destinato ad essere tradito. E infatti l’interesse comune al centro del patto sociale è stato puntualmente travolto dall’interesse privato, la cura del particolare incoraggiata da una coscienza elastica e il malaffare conseguente sono diventati una pratica diffusa, alle corporazioni che guidano il Paese e che hanno gonfiato la spesa pubblica per garantire le loro prebende, risponde l’esercito degli evasori fiscali,  il disavanzo pubblico è cresciuto per saziare la fame dei nostri notabili ed è destinato a crescere in un rincorrersi perverso di tasse e spesa fino a quando tale fame non sarà saziata, cioè mai. La spesa pubblica è fuori controllo proprio perché chi dovrebbe por mano alla sua riduzione, dovrebbe ridurre i propri privilegi, figuriamoci! Qualcuno sostiene che ci è mancata la rivoluzione protestante e che non siamo forgiati al senso del dovere. Qualunque sia il motivo, è un fatto che siamo come siamo e non è facile addomesticarci, che la politica e l’antipolitica che oggi si contrappongono con faccia feroce valgono per quello che sono, l’inutile esercizio di due categorie che vengono declinate nelle estreme espressioni di due eccessi negativi, il solo esercizio di cui siamo capaci. Facciamo politica nei modi e con gli esiti che sono sotto gli occhi di tutti, rispondiamo con un’antipolitica inconcludente che partorisce un populismo velleitario. E’ inutile dolersi di come siamo e pretendere di redimerci. Siamo fatti a modo nostro e non è detto che sia il modo peggiore, ma non è il caso di farci illusioni sventolando propositi che non sappiamo realizzare, facendo appello al superamento del nostro particolare che resta il solo obiettivo di cui siamo capaci, attribuendoci patenti di un moralismo improbabile che reclama dai nostri potenti una etica adamantina che noi cittadini comuni per primi non possediamo. Quello che riusciamo a realizzare è solo un inganno, il brontolio intollerabile e ipocrita di un nuovo sovrano, l’opinione pubblica rancorosa e diseducata al diritto, che straparla di buoni propositi e di morale, che agita un giustizialismo con cui tacita la propria coscienza e crocifigge il prossimo, che liquida l’avversario di turno attraverso la scorciatoia giudiziaria, che rinnega il patto fondativo dello Stato di diritto a favore della giustizia ideologica. 

1 commento:

  1. Caro sig Mandalà,
    ci sarà sempre differenza tra nord e sud, come lei saprà.E' la gente che lo vuole, perchè non mandano a "fanculo" tutti i politici che da trent'anni ci rappresentano che fanno promesse mai mantenute e che si sono fregati una montagna di soldi, perchè non scendiamo tutti in piazza a gridarlo forte VOGLIAMO IL CAMBIAMENTO, la gente non vuole il cambiamento vuole essere solo ruffiana e prenderla in quel posto!!!Daltronde IL POTERE E DEL POPOLO
    Dal canto mio ,ha un paio d'anni che mi guardo attorno e cerco di ragionare con la mia testa senza farmi infinocchiare da nessuno comunque almeno ci provo e penso che L'ITALIA è una bella repubblica fondata sul LAVORO e non sul mangia mangia...
    Le faccio i migliori auguri per la sua battaglia sul 41bis, esprimendole la mia solidarietà.

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