L’etica al potere
“In nome del popolo italiano ti assolviamo ma condanniamo
l’immoralità dei tuoi comportamenti”. Per quanto iperbolico il testo di questa
sentenza immaginaria fotografa un atteggiamento ricorrente nelle pronunce dei
nostri magistrati. E’ il risultato di una convinzione diffusa secondo la quale
il magistrato più che amministrare la giustizia e comminare le pene o concedere
le assoluzioni obbedendo al codice penale, ha il compito di redimere la società
obbedendo al codice morale e distribuendo patenti di purezza ai meritevoli o
fustigando i reietti a sua discrezione. Al cittadino che non ha la colpa del
reato e non può essere perseguito per essa, non si risparmia la colpa del
peccato e con essa, se non una condanna penale pur sempre in agguato, una
damnatio memoriae che lo accompagnerà come un marchio indelebile. Fra le
vittime, alcuni reagiscono contestando con rabbia l’intrusione non dovuta nella
sfera delle loro condotte, altri, i più fragili, soccombono vivendo l’oltraggio
in maniera drammatica e somatizzandolo fino alle estreme conseguenze. Ho
raccolto lo sfogo di un mio amico uscito malconcio ma indenne da una lunga
vicenda giudiziaria, che non riusciva a capacitarsi di come, pur assolto, fosse
stato dal giudice demonizzato con valutazioni di carattere etico che egli
viveva peggio di una condanna. Mi mostrava i passi della sentenza che lo
inchiodavano ad una valutazione moralmente impietosa delle sue condotte, tanto
più corriva perché costretta a giungere a conclusioni penalmente assolutorie, e
non riusciva a darsi pace. Sembrava quasi che la sentenza si rammaricasse di
non avere potuto condannare l’imputato e si vendicasse con un colpo di coda
moraleggiante. Sembrava dire: “Non sei colpevole di illecito ma sei colpevole
di un peccato più grave: quello di indegnità morale.” Vedevo il mio amico
soffrire indicibilmente di queste motivazioni improprie, lo vedevo rileggere la
sentenza e ripetere come un mantra le parole che lo inchiodavano al disonore,
lo sorprendevo mentre navigava in rete e si dannava commentando gli insulti di
cui era fatto oggetto a causa di quella sentenza, lo vedevo spegnersi
inesorabilmente. Mi confessava di sentirsi morire e, piangendo, mi chiedeva se
meritava tutto questo, se era ragionevole che una sentenza di assoluzione gli
procurasse tanta sofferenza, se era consentito allo Stato di spingerlo nel
recinto dei reietti nel momento stesso in cui gli restituiva l’onore. Non ho
fatto in tempo a dargli le risposte che mi chiedeva perché intanto è morto di
crepacuore.
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