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giovedì 8 novembre 2012


 L’etica al potere

“In nome del popolo italiano ti assolviamo ma condanniamo l’immoralità dei tuoi comportamenti”. Per quanto iperbolico il testo di questa sentenza immaginaria fotografa un atteggiamento ricorrente nelle pronunce dei nostri magistrati. E’ il risultato di una convinzione diffusa secondo la quale il magistrato più che amministrare la giustizia e comminare le pene o concedere le assoluzioni obbedendo al codice penale, ha il compito di redimere la società obbedendo al codice morale e distribuendo patenti di purezza ai meritevoli o fustigando i reietti a sua discrezione. Al cittadino che non ha la colpa del reato e non può essere perseguito per essa, non si risparmia la colpa del peccato e con essa, se non una condanna penale pur sempre in agguato, una damnatio memoriae che lo accompagnerà come un marchio indelebile. Fra le vittime, alcuni reagiscono contestando con rabbia l’intrusione non dovuta nella sfera delle loro condotte, altri, i più fragili, soccombono vivendo l’oltraggio in maniera drammatica e somatizzandolo fino alle estreme conseguenze. Ho raccolto lo sfogo di un mio amico uscito malconcio ma indenne da una lunga vicenda giudiziaria, che non riusciva a capacitarsi di come, pur assolto, fosse stato dal giudice demonizzato con valutazioni di carattere etico che egli viveva peggio di una condanna. Mi mostrava i passi della sentenza che lo inchiodavano ad una valutazione moralmente impietosa delle sue condotte, tanto più corriva perché costretta a giungere a conclusioni penalmente assolutorie, e non riusciva a darsi pace. Sembrava quasi che la sentenza si rammaricasse di non avere potuto condannare l’imputato e si vendicasse con un colpo di coda moraleggiante. Sembrava dire: “Non sei colpevole di illecito ma sei colpevole di un peccato più grave: quello di indegnità morale.” Vedevo il mio amico soffrire indicibilmente di queste motivazioni improprie, lo vedevo rileggere la sentenza e ripetere come un mantra le parole che lo inchiodavano al disonore, lo sorprendevo mentre navigava in rete e si dannava commentando gli insulti di cui era fatto oggetto a causa di quella sentenza, lo vedevo spegnersi inesorabilmente. Mi confessava di sentirsi morire e, piangendo, mi chiedeva se meritava tutto questo, se era ragionevole che una sentenza di assoluzione gli procurasse tanta sofferenza, se era consentito allo Stato di spingerlo nel recinto dei reietti nel momento stesso in cui gli restituiva l’onore. Non ho fatto in tempo a dargli le risposte che mi chiedeva perché intanto è morto di crepacuore.

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