Viaggio nel pianeta carcere
Mi accade spesso di sentirmi solo in mezzo ad una folla di
estranei. E’ la mia condizione di ex detenuto che non si è assuefatto alla
libertà dalle abitudini contratte in carcere. La vivo con un senso di vuoto che
non riesco a colmare se non rifugiandomi nella scrittura e nei personaggi che
con essa creo. Garcia Marquez sosteneva che la scrittura, se è buona scrittura,
è l’unica felicità fine a se stessa. Non ho la pretesa di fare della buona
scrittura ma mi accontento e vivo una dimensione che, se non è di felicità,
almeno mi tiene compassionevolmente compagnia. Mi tuffo in essa e nella realtà
virtuale che da essa nasce e vago attraverso i miei pensieri che fisso su
carta. Ho come la sensazione di salvare idee che altrimenti andrebbero perdute
e di costruire un mondo che, grazie alla mia penna, pulsa di una sua vita
autonoma fluttuante in una sorta di limbo libero dai condizionamenti del mondo
reale. La sensazione è estatica e mi fa sentire pieno di vita laddove la vita è
solo una impostura, è il remake di un mondo al quale non riesco a rinunciare
perché di esso porto il marchio indelebile e definitivo, è la coda velenosa di
una condanna che continuo a scontare. Quando il volo è concluso e rimetto piede
nella vita reale, avverto il senso amaro della sconfitta e la voglia di tornare
nel mio mondo onirico, sento il peso di una esistenza che mi è difficile
tollerare e la scellerata nostalgia di una seducente irrealtà. E’ allora che la
mia mente si affolla dei fantasmi di compagni non dimenticati, dei riti che
scandivano la mia quotidianità, delle abitudini che hanno incarcerato la mia
psiche e da essi non voglio fuggire, ad essi mi aggrappo incalzato dalla mia
solitudine. La mattina mi sveglio sapendo di dovere affrontare i miei fantasmi
e rivivo passo passo ogni istante della mia vita in carcere. La sveglia la
mattina alle sette e le successive fasi sempre uguali che si rincorrono
monotone e pigre e intorpidiscono la mente, fino alle sette di sera quando col
pasto serale si conclude la giornata che si ripeterà uguale per anni, per
decenni, per sempre quando il fine pena è mai. Mi accompagnano le immagini
degli ergastolani la cui fisionomia vedevo mutare nel volgere di pochi anni in
volti impassibili dietro cui si celava la loro disperazione, che si ostinavano
nella finzione di addomesticare un destino che si illudevano di considerare
provvisorio, che progettavano di quando sarebbero tornati in libertà, che
sorprendevo, quando credevano di non essere visti, mentre piangevano sulla loro
sorte. Mi accompagna il ricordo della promiscuità di celle affollate in cui si
consuma la rinuncia al pudore della propria intimità e si scoprono nei compagni
nuovi familiari con cui condividere le miserie più intime. Mi accompagna il
ricordo dei lunghi conversari, dei peripatetici dialoghi con compagni che
guardavano alle banalità del mondo libero col distacco guadagnato in tanti anni
di navigazione all’interno delle loro anime, assieme ai quali volavo in
atmosfere rarefatte, il ricordo della levità di spiriti levigati dalla
consuetudine col silenzio, della intensità di sentimenti impensabili in uomini
attraversati da tragedie più grandi di loro, di corpi di compagni penzolanti
senza vita dal cappio della loro resa, di sguardi spenti che emergevano
dall’abisso di menti spappolate, dei confronti a muso duro con i secondini
prime vittime di un sistema al quale la loro scelta li ha inchiodati al pari
dei detenuti. Mi accompagna il silenzio di notti insonni popolate da nostalgie
struggenti e di notti in cui cadevo in un sonno profondo durante il quale mi
rifugiavo in una realtà parallela. Ricordo Annibale che tutte le sere aspettava
l’appuntamento con i suoi sogni per varcare i cancelli e fuggire verso la
libertà. Mi accompagna un senso di frustrazione che esorcizzo nel chiuso del
mio studiolo dove realizzo la finzione di una celletta 4x4 e rivivo il mio
mondo perduto. Penso ai miei fratelli murati, sciagurati figli di una colpa che
non hanno saputo scansare, già fieri protagonisti di imprese scellerate
divenuti mansueti comprimari di una sofferenza quotidiana alla mercé di una
pena più grande della loro colpa, bubboni infetti guardati con orrore da una
umanità impaurita e gesuitica che non riesce a perdonarli e li respinge
demonizzandoli e cancellandone la memoria.
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