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sabato 3 novembre 2012


Viaggio nel pianeta carcere

Mi accade spesso di sentirmi solo in mezzo ad una folla di estranei. E’ la mia condizione di ex detenuto che non si è assuefatto alla libertà dalle abitudini contratte in carcere. La vivo con un senso di vuoto che non riesco a colmare se non rifugiandomi nella scrittura e nei personaggi che con essa creo. Garcia Marquez sosteneva che la scrittura, se è buona scrittura, è l’unica felicità fine a se stessa. Non ho la pretesa di fare della buona scrittura ma mi accontento e vivo una dimensione che, se non è di felicità, almeno mi tiene compassionevolmente compagnia. Mi tuffo in essa e nella realtà virtuale che da essa nasce e vago attraverso i miei pensieri che fisso su carta. Ho come la sensazione di salvare idee che altrimenti andrebbero perdute e di costruire un mondo che, grazie alla mia penna, pulsa di una sua vita autonoma fluttuante in una sorta di limbo libero dai condizionamenti del mondo reale. La sensazione è estatica e mi fa sentire pieno di vita laddove la vita è solo una impostura, è il remake di un mondo al quale non riesco a rinunciare perché di esso porto il marchio indelebile e definitivo, è la coda velenosa di una condanna che continuo a scontare. Quando il volo è concluso e rimetto piede nella vita reale, avverto il senso amaro della sconfitta e la voglia di tornare nel mio mondo onirico, sento il peso di una esistenza che mi è difficile tollerare e la scellerata nostalgia di una seducente irrealtà. E’ allora che la mia mente si affolla dei fantasmi di compagni non dimenticati, dei riti che scandivano la mia quotidianità, delle abitudini che hanno incarcerato la mia psiche e da essi non voglio fuggire, ad essi mi aggrappo incalzato dalla mia solitudine. La mattina mi sveglio sapendo di dovere affrontare i miei fantasmi e rivivo passo passo ogni istante della mia vita in carcere. La sveglia la mattina alle sette e le successive fasi sempre uguali che si rincorrono monotone e pigre e intorpidiscono la mente, fino alle sette di sera quando col pasto serale si conclude la giornata che si ripeterà uguale per anni, per decenni, per sempre quando il fine pena è mai. Mi accompagnano le immagini degli ergastolani la cui fisionomia vedevo mutare nel volgere di pochi anni in volti impassibili dietro cui si celava la loro disperazione, che si ostinavano nella finzione di addomesticare un destino che si illudevano di considerare provvisorio, che progettavano di quando sarebbero tornati in libertà, che sorprendevo, quando credevano di non essere visti, mentre piangevano sulla loro sorte. Mi accompagna il ricordo della promiscuità di celle affollate in cui si consuma la rinuncia al pudore della propria intimità e si scoprono nei compagni nuovi familiari con cui condividere le miserie più intime. Mi accompagna il ricordo dei lunghi conversari, dei peripatetici dialoghi con compagni che guardavano alle banalità del mondo libero col distacco guadagnato in tanti anni di navigazione all’interno delle loro anime, assieme ai quali volavo in atmosfere rarefatte, il ricordo della levità di spiriti levigati dalla consuetudine col silenzio, della intensità di sentimenti impensabili in uomini attraversati da tragedie più grandi di loro, di corpi di compagni penzolanti senza vita dal cappio della loro resa, di sguardi spenti che emergevano dall’abisso di menti spappolate, dei confronti a muso duro con i secondini prime vittime di un sistema al quale la loro scelta li ha inchiodati al pari dei detenuti. Mi accompagna il silenzio di notti insonni popolate da nostalgie struggenti e di notti in cui cadevo in un sonno profondo durante il quale mi rifugiavo in una realtà parallela. Ricordo Annibale che tutte le sere aspettava l’appuntamento con i suoi sogni per varcare i cancelli e fuggire verso la libertà. Mi accompagna un senso di frustrazione che esorcizzo nel chiuso del mio studiolo dove realizzo la finzione di una celletta 4x4 e rivivo il mio mondo perduto. Penso ai miei fratelli murati, sciagurati figli di una colpa che non hanno saputo scansare, già fieri protagonisti di imprese scellerate divenuti mansueti comprimari di una sofferenza quotidiana alla mercé di una pena più grande della loro colpa, bubboni infetti guardati con orrore da una umanità impaurita e gesuitica che non riesce a perdonarli e li respinge demonizzandoli e cancellandone la memoria.

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