L’anno che ci lasciamo alle spalle si
è distinto per la disinvoltura con cui una certa nomenklatura ha
inteso il proprio ruolo. Una élite che è tale non a motivo delle
alte necessità del suo compito ma allo scopo di accaparrarsi
guarentigie cui non ha diritto, una corruzione diffusa che genera
scandali a cascata, commistioni tra i diversi organi dello Stato che
sconfinano illegittimamente da una competenza all’altra, il potere
amministrato in maniera disinvolta da oligarchi che pretendono di
gestire la cosa pubblica come fosse cosa loro, regole di condotta che
valgono per gli altri ma non per quelli che le impongono, e via
elencando, danno un quadro disarmante delle condizioni in cui
versano le nostre istituzioni. Quando la nostra classe politica fa la
ruota vantandosi della sua onestà e del suo interesse per il bene
del Paese, ci deve spiegare dove erano i suoi uomini mentre il nostro
PIL scendeva e il nostro debito pubblico saliva e chi dobbiamo
ringraziare per il desolante quadro sociale delle terre del Sud che
vede la disoccupazione al 20% (quella giovanile al 30%) con il
conseguente smarrimento delle coscienze e la tentazione di virare
verso l’illegalità, dove erano questi uomini mentre deflagravano
Mafia Capitale e Rete Ferroviaria italiana e i manigoldi che
custodivano i nostri risparmi ne facevano man bassa. Scopriamo un
mondo a rovescio in cui coloro che dovrebbero servire lo Stato, ne
abusano, in cui i bardi della lotta al malaffare sono i primi
malfattori, in cui la conventicola dei colletti bianchi traffica tra
le pieghe della pubblica amministrazione e, pur causando danni
maggiori delle grandi organizzazioni malavitose tradizionalmente
intese, al contrario di queste non paga pegno. Siamo costretti a
subire la dittatura della consorteria dei poteri forti, siano essi
una certa magistratura potente e autoreferenziale, la grande finanza,
i politici al servizio di interessi opachi, e della mafia dei grandi
boiardi annidati tra le quinte delle istituzioni, con alle spalle
coperture politiche ai massimi livelli, che si muovono a loro
piacimento senza rispondere ad alcuno tranne ai padrini che li hanno
designati ma dai quali col passare del tempo si sono affrancati
costituendo una forma di potere autonomo e illegittimo, un autentico
bubbone cancerogeno che corrode l’organismo dello Stato.
Tentacolari come la piovra evocata da Cosa Nostra, fanno il bello e
il cattivo tempo, decidono a loro piacimento e nel loro interesse,
gestiscono enormi fette di potere fuori da ogni controllo,
condizionano persino le attività del Parlamento e del Governo,
infliggono alla società un danno irreparabile, minano le basi stesse
della democrazia. Come potrà infatti la società difendersi da una
classe dirigente affetta da una sorta di polimiosite in cui gli
anticorpi si rivoltano contro la salute pubblica che dovrebbero
proteggere e che hanno il loro antidoto nell’attività di controllo
degli stessi controllati? Non c’è certezza di nulla ma, quel che è
grave, non c’è più fiducia nello Stato che ci dovrebbe dare
certezze. E il quadro si dipinge di tinte ancora più sconfortanti se
si considera che noi cittadini siamo irredimibili, la nostra opinione
pubblica, in buona parte gaglioffa e immorale, ammicca con indulgenza
alla nostra classe dirigente corrotta nella quale si riconosce e
ambisce militare e, manipolata dai rumor della solita caccia al
solito lupo, limita i confini del suo orizzonte alla mafia stracciona
e masochista che si presta ad essere l’alibi di mafiosi ben più
raffinati e pericolosi. Mentre la forbice tra il privilegio dei pochi
e l’indigenza dei molti si allarga, assistiamo, come ogni anno di
questi tempi, alla parata annuale dei sepolcri imbiancati che sfilano
per le stanze dorate del potere esibendo senza alcun pudore le
vestigia della loro superiorità non morale ma castale, recitando il
copione di fine d’anno e celebrando il consunto rito di un
messaggio alla nazione che si nutre di parole vuote e suona come uno
sberleffo al popolo “sovrano”. Mi pare di vederli mentre
inguainati nei loro gessati godono di uno status che non meritano, in
una atmosfera di sacralità. Salutiamo un anno che non rimpiangeremo,
senza speranza che il prossimo sia migliore.
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mercoledì 30 dicembre 2015
mercoledì 23 dicembre 2015
Sabrina Ciulla
E’ stata una serata magica quella vissuta qualche sera fa al
cinema King dove è andato in scena lo spettacolo di cui ognuno di noi vorrebbe
essere protagonista. Sul palco si sono alternati artisti di successo, da
Baccini a Castagna, ai Tamuna e i conduttori Anna Falchi e Sasà Taibi, tutti
offrendo della buona musica e uno spettacolo bello da gustare perché mai banale
e capace di coniugare arte e solidarietà. Per quelli della mia età poi, specie
grazie a Baccini, si è trattato di un vero e proprio amarcord che ha rimandato agli anni verdi in cui assaporavamo le canzoni che ci erano complici nei primi innocenti
flirt di allora. Abbiamo assaporato l’atmosfera dei cantautori genovesi che
hanno segnato un’epoca e una produzione irripetibile. La Falchi poi, bella come
non mai, fasciata in un vestito che ne accentuava le forme prorompenti eppure
non volgari, ci ha stupito con una classe che certe sue performances
cinematografiche avevano appannato. Una vera bella sorpresa! Tutti gli artisti
hanno assolto il loro compito come meglio non potevano e le nuove leve
siciliane hanno ben figurato dando prova di un talento che merita ben altra
attenzione della nostra solita indifferenza. Ma la vera star della serata è
stata Sabrina. E’ salita sul palco palesemente emozionata, e si può capire
visto che la sua ribalta naturale non è il palco di un teatro ma la strada dove
è impegnata assieme a un gruppo di volontari a raccogliere gli scarti della
società e a curarsene. Nonostante l’emozione la sua luce splendeva lo stesso e
ha affascinato ancora più della Falchi la platea che ha mostrato di capire, si
è commossa e le ha tributato un applauso scrosciante, da star quale è appunto,
una star della misericordia. Mi sono sorpreso a riflettere sulla banalità delle
lacrime che versiamo lamentando la sorte
avversa e mi sono sentito colpevole e inadeguato, ho confrontato il mio destino
con quella degli infelici disseminati ai margini della società e mi sono detto
che, tutto sommato, non ho il diritto di frignare per le piccole e grandi vicende, alcune anche
drammatiche, che hanno attraversato la mia vita, che tutti noi, al riparo di
una sicurezza economica che siamo riusciti ad agguantare e alienati da una
insensibilità che ha desertificato la nostra anima, abbiamo il dovere di metterci
in gioco, di sporcarci le mani e i calzari, di sottoporre a un bel lavacro la
nostra coscienza. C’è voluta questa giovane donna di trent’anni perché la mia coscienza,
la mia compagna di un tempo andata in letargo, si rifacesse viva. BUON NATALE
PS - Sabrina Ciulla opera con l’associazione di volontariato
“ANIRBAS” IN Corso Calatafimi, 166 Palermo
Indirizzo mail: associazioneanirbas@gmail.com
You Tube: associazione anirbas
Telefono: 091 42 73 45
venerdì 18 dicembre 2015
Così parlò Totò
“Andando in carcere, senza protestare
nonostante mi proclamassi innocente, ho rispettato il mio diritto di
avere fiducia nella giustizia.” E ancora: “Sul professionismo
dell’antimafia in tanti hanno costruito la propria carriera
distruggendo la vita degli altri. Non parlo dei magistrati,
beninteso.” Così parlò Totò Cuffaro all’indomani della sua
scarcerazione, confermando il suo profilo misurato e la sua fiducia
nella giustizia e nei magistrati. Ha ragione Cuffaro a mantenere
questo stile sobrio perché egli non ha bisogno di urlare la sua
rabbia, egli è entrato in carcere accompagnato dalle attenzioni di
una stampa che ne ha narrato la sofferenza in carcere, ci ha
raccontato di come offrisse la sua solidarietà ai compagni detenuti,
di come uno Stato poco misericordioso gli abbia negato il permesso di
visitare la madre malata. Un affresco toccante che ha continuato ad
essere dipinto, dopo la scarcerazione, nei resoconti dei giornali che
hanno trasmesso l’immagine accattivante e mite di un Cuffaro che,
dopo avere affrontato con fermezza la carcerazione, ha saputo gestire
la scarcerazione misurando i toni e guadagnandosi il rispetto anche
di quelli che non sono mai stati suoi sostenitori. Non ha dovuto
urlare, per lui ha parlato la sua immagine pacata che ha trovato
ampia diffusione nei mezzi di comunicazione. Ci sono invece quelli
che sono condannati ad affrontare gli incidenti della vita in
solitudine, e in solitudine devono combattere contro le ingiustizie
che si annidano persino nelle pieghe della giustizia, avendo come
sola arma la propria voce, per loro è difficile essere sobri, loro
hanno bisogno di urlare per farsi sentire. Non si possono permettere
la magnanimità di Cuffaro il quale mostra di perdonare la giustizia
che lo ha condannato da innocente proclamando per di più che
continua ad avere fiducia in essa, forte del sostegno della gente e
di un ritorno di immagine che equivale a un riscatto. Gli altri, gli
invisibili, i condannati all’anonimato, non dispongono di una
platea che fa il tifo per loro, del sostegno della società che li
spinga a risalire la china, restano sconosciuti all’opinione
pubblica, oscuri peones alla mercé della loro solitudine.
Abbandonati a se stessi, non sempre hanno la forza di sottrarsi alla
deriva di una vita predestinata e soccombono, urlando al mondo la
loro rabbia, senza potersi permettere il lusso della sobrietà. La
sofferenza per la stessa pena, come si vede, non è uguale per tutti.
domenica 13 dicembre 2015
Il nuovo Cuffaro
Qualcuno dice che non dobbiamo più chiamarlo Totò, nome
inghiottito dal primo capitolo di una
vita finita dietro le sbarre. Non ho mai conosciuto il Totò dei fasti ma
conosco bene il Cuffaro smagrito di Rebibbia, ne ravviso il volto scavato e lo
sguardo consapevole di chi ha visitato l’inferno e scoperto se stesso.
Lo
riconosco quando tributa il suo amore per i compagni e declina la fierezza
umile di una ritrovata condizione. Mi rivedo in lui quando scrive: “Scrivo e
riprendo i miei pensieri che, altrimenti, condannati a rimanere sconosciuti, si
perderebbero per sempre”, parole che echeggiano il contenuto della nota d’autore
del mio romanzo in cui scrivo: “I personaggi che incrociavo, i fatti che
attraversavano la mia vita in carcere, le emozioni per gli episodi e gli
affetti che via via mi andavano coinvolgendo, presero il sopravvento e con essi
la voglia di fissarli come a custodire un bene prezioso che sentivo di dovere
salvare………. che mettevo su carta freneticamente nel timore che qualcosa andasse
perduto…..”. In queste parole c’è l’angoscia
per la propria condizione, c’è l’ansia di aggrapparsi alla zattera della
scrittura e di ghermire i pensieri che scorrono veloci, il timore di non
riuscirci e di dover convivere col vuoto della mente, c’è il linguaggio che
accomuna nella medesima accezione tragica coloro che hanno vissuto l’esperienza
del carcere, ne descrivono la sofferenza e ne sono ambasciatori, c’è lo
strumento di chi attraverso i Cuffaro e i Mandalà comunica al mondo il proprio
dolore, c’è il resoconto della intimità ritrovata dopo l’insulto inflitto ad
essa da una vita banale, c’è il diario della libertà conquistata tra le mura
del carcere che ti fa librare oltre le sbarre, c’è la scelta che ti fa
imboccare la via della resurrezione quando devi decidere se vivere o morire.
Lo immagino Cuffaro mentre, a contatto con
l’inferno dei primi giorni, decide di resistere e di combattere e volare alto
verso vette mai prima raggiunte. Al nuovo Cuffaro che esce dal carcere auguro
di possedere gli anticorpi necessari ad affrontare il ritorno al mondo civile.
giovedì 10 dicembre 2015
Becero, perché no?
A conclusione del talk show “Virus”
di qualche sera fa, il fisico Carlo Rovelli, ospite della
trasmissione, ha dato a Porro del becero per il taglio, a suo avviso
scorretto, dato dal conduttore alla trasmissione. Porro ha risposto
da par suo ma a me non è bastato. Debbo dirlo senza perifrasi, sono
incazzato contro la tendenza al politicamente corretto che assolve
l’Islam dalle sue colpe e considera i musulmani vittime
dell’Occidente. L’Occidente ha commesso i suoi errori ma i
musulmani sono vittime soprattutto di se stessi tanto è che la
mattanza maggiore è quella che si scambiano i Sunniti e gli Sciiti,
e dare del becero con la pretesa che bisogna porsi col cappello in
mano nei confronti dell’Islam, è un modo fuorviante di affrontare
il problema. Un conto è il dialogo, un altro conto è cospargerci il
capo di cenere e andare a Canossa autoaccusandoci di errori che sono
solo frutto dei nostri complessi di colpa e inducendo i nostri amici
musulmani a equivocare sulle nostre debolezze. Se scegliere Voltaire
rispetto all’oscurantismo, non accettare la religione di conquista
che pretende di possedere una sua superiorità rispetto ad altre
confessioni religiose e guarda con disprezzo alle altrui fedi, non
accettare che la religione si mischi alla politica e il culto alla
vita civile generando forme di teocrazia e dunque che la religione
sia istituzionalizzata e imposta ad un’intera società come avviene
in alcuni Stati arabi, non accettare che la professione di fede si
trasformi in consegna della propria anima a odiose derive religiose,
significa essere becero, ebbene io mi dichiaro becero. Discutendo con
amici liberal, mi sono sentito rimproverare affettuosamente per avere
espresso questo mio punto di vista. Mi hanno contestato che esiste un
islamismo fatto di persone normalissime ( ci mancherebbe altro ), di
amici con cui si possono intrattenere rapporti civilissimi e di cui
ci si può fidare come e più di altri amici di fede diversa. Mi
hanno parlato di professionisti, di artigiani, di giovani e meno
giovani con cui condividono piacevoli serate, parlando del più e del
meno senza che mai faccia velo la diversità di fede e con un
approccio tollerante dell’uno nei confronti dell’altro. E’
vero, io stesso conosco queste persone degnissime e già parlarne
come se fossero una eccezione che stupisce, le offende. Però, c’è
un però. C’è che quando, dialogando con i miei amici musulmani,
sento elogiare la normalità del Corano nelle parti in cui esso
recita che le punizioni corporali sono inflitte solo a chi crea
scompiglio ad una comunità regolata dalla legge di Dio, in cui
recita che l’apostata deve vivere in privato la sua nuova fede per
evitare di sconvolgere l’ordinamento nazionale, in cui recita che
la proibizione della musica serve ad evitare distrazioni dallo studio
del Corano e deviazioni da comportamenti equilibrati, realizzo con
preoccupazione che il mondo musulmano ruota esclusivamente attorno
alla dimensione religiosa al cui dogma è sottomessa la coscienza
dell’individuo (e sennò si rischia addirittura di “sconvolgere
l’ordinamento nazionale”), e mi cadono le braccia se tutto ciò è
ritenuto normale da persone di cui non si può sospettare nulla che
non sia ragionevole e che ti appaiono come normalissimi amici della
porta accanto. Proprio questi amici di cui ammiriamo lo spiccato
senso civico, la pacatezza delle argomentazioni e i costumi comuni a
qualsiasi cittadino europeo, trovano normale rinunciare alla propria
identità e alla propria libertà di pensiero. In un clima simile
può accadere che giovani fermi nella convinzione di possedere la
verità definitiva, infettati dal virus della follia jihadista,
strumentalizzati e mandati al massacro da chi ha un progetto
politico ben chiaro, decidano di punire gli infedeli o i non
ortodossi e di condurre la loro guerra santa soprattutto al loro
interno ( tra Sciiti e Sunniti ) ma anche fuori dai loro confini, nei
confronti dei cristiani imbelli che disprezzano. E’ allora che
l’amico della porta accanto diventa il nemico della porta accanto.
Quante volte ci siamo chiesti come sia potuto accadere che persone
che non avremmo mai sospettato si siano trasformate in mostri? E’
un fatto che, come ha scritto Oriana Fallaci citando il saudita Abel
Rahman al Rashed, non tutti gli islamici sono terroristi ma tutti i
terroristi sono islamici. Ci sarà un motivo. Il motivo è che nella
loro storia ai nostri amici musulmani è mancato un passaggio
fondamentale della loro formazione, sono mancati i valori
dell’Illuminismo che duecento anni fa hanno dato all’individuo
la coscienza di sé e dei propri diritti fondamentali, e che questi
nostri amici scontano un ritardo di duecento anni. Questo non ci
autorizza a delirare straparlando di guerre di religione e di
imbecilli pretese di noi occidentali di esportare la democrazia,
proprio noi che abbiamo da farci perdonare le coglionate che abbiamo
fatto nel corso dei secoli proprio nei confronti dell’Islam e
continuiamo a fare ancora ai giorni nostri in nome del petrolio
(riforniamo l’Isis persino di armi!). Ma non ci autorizza neanche a
rifugiarci in un buonismo che serve a esorcizzare i nostri sensi di
colpa e perde di vista la vera natura del problema consegnandoci ad
un masochismo velleitario e carico di conseguenze suicide. Dobbiamo
combattere la nostra battaglia in difesa della nostra civiltà con
approccio laico, senza autoassoluzioni ma anche senza arrenderci alle
colpe degli altri, e dobbiamo combatterla con a fianco gli amici
musulmani della porta accanto che hanno a cuore i diritti che si sono
conquistati assieme a noi, che debbono avere un ruolo fondamentale
nel disinnescare senza esitazioni e manifestazioni di vittimismo
peloso (lamentano le difficoltà di trovare spazi al loro credo in un
Occidente che invece è tollerante e che anzi a volte si abbandona a
forme di piaggeria servile, mentre invece negli Stati islamici i
cristiani sono perseguitati) l’integralismo dei loro correligionari
e debbono dialogare con noi per costruire un avvenire fatto di
confronto civile anziché di conflitto sanguinoso.
venerdì 4 dicembre 2015
A volte ritornano
Mentre il web in Sicilia tace il dr.
Ingroia esterna. Egli in alcune recenti interviste ha espresso il suo
rammarico per come andavano le cose nel mondo giudiziario quando
anche egli ne faceva parte e ancora adesso dopo che se ne è
allontanato. Ecco alcune parti delle dichiarazioni contenute in una
intervista rilasciata a “Il fatto quotidiano”: “L’eccesso di
attenzione mediatica alla fine ti storpia la vita… essere un
personaggio aumenta l’autostima. Fa piacere è anche umano. Ma
senza volerlo vieni trascinato a trasformarti in oggetto invece di
resistere come soggetto, a rischiare di essere dominato dalla scena
invece che dominarla”. E ancora: ”Oggi che sono avvocato noto ciò
che ieri non vedevo e cioè che sono germogliati troppi ideologi
dell’opportunismo a volte compartecipi di una notorietà e di un
potere che produce per loro utili ingiustificabili……, che si
offrono scalpi all’opinione pubblica, vittime sacrificali in
ragione di un’approssimazione colpevole….”. Alla buon’ora,
il dottore Ingroia è stato finalmente folgorato sulla via di Damasco
e ha ammesso che degli imputati in genere, e di certi imputati in
particolare, si è abusato. Come egli stesso afferma, la
spettacolarizzazione e, aggiungiamo noi, la lunghezza dei processi,
la gogna che anticipa la pena e la fa pagare in anticipo nelle forme
di pubblico disprezzo, la stessa pena certa tanto quanto è
approssimativa la colpevolezza, fagocitano la vita dei presunti rei e
la risputano in forma di poltiglia buona per le porcilaie. Sono le
patologie di una giustizia malata e fa piacere leggere che il dr.
Ingroia se ne sia reso conto e ne soffra sinceramente. Ma ci sorge un
dubbio quando leggiamo un’altra sua esternazione: “Non difenderò
mai mafiosi e corrotti!”. Evidentemente le incrostazioni del suo
essere stato Pubblico Ministero con gli eccessi che rimprovera ai
suoi ex colleghi, hanno lasciato il segno. Probabilmente gli riesce
difficile rassegnarsi all’idea che egli è ormai solo un avvocato e
come tale non può discriminare gli imputati secondo i suoi gusti
perché tutti gli imputati, per gravi che siano le loro imputazioni,
hanno diritto ad essere difesi. E’ un fatto di civiltà giuridica e
di deontologia. Purtroppo, nonostante egli abbia dichiarato: ”La
mia vita è una seconda vita nella quale metto a frutto gli errori
della prima.”, nonostante ormai avvocato e non più Pubblico
Ministero, continua a coltivare il malvezzo di considerare gli
imputati colpevoli più per la loro reputazione che per le loro
responsabilità, e si presta a “offrire scalpi all’opinione
pubblica” anticipando le sentenze di condanna fuori dall’aula di
un tribunale. Comprendiamo il suo desiderio di riguadagnare il centro
della scena, meno la sua concezione in materia di garanzie
fondamentali.
lunedì 30 novembre 2015
La fede laica
Nei commenti alla strage di Parigi ci
scopriamo attenti censori di noi stessi avvolgendo in pudiche
circonlocuzioni parole impronunciabili quali odio e guerra e
accostandoci ai vizi dell’Islam con cautela per non suscitare
l’accusa di islamofobia. Rimuoviamo la parola guerra perché
abbiamo archiviato da tempo l’idea di essa quale eventualità
probabile ed anche perché per fare la guerra bisogna essere in due e
l’Occidente non è disposto a rischiare i suoi figli sul campo. E
ci abbandoniamo a reazioni indignate se qualcuno inveisce contro i
terroristi chiamandoli islamici, protestando che islamico non è
sinonimo di terrorismo e che la causa del terrorismo non è dovuta
solo all’Islam ma anche, o forse soprattutto, a noi occidentali.
Soffriamo al contempo di un complesso di colpa e di protagonismo, una
sorta di razzismo a rovescio che nega agli altri la capacità di
peccare e attribuisce a noi una centralità da cui discendono i mali
del mondo, quasi che fossimo i soli capaci di libero arbitrio. Per
bocca dei soliti intellettualoidi affetti dalla sindrome di Tafazzi,
sussurriamo che, se l’Isis ci fa la guerra, è perché ce la
meritiamo, per gli errori che abbiamo collezionato nello scacchiere
mediorientale e per avere ghettizzato i magrebini nelle periferie
degradate delle città europee creando focolai di malcontento
destinati prima o poi ad esplodere, per esserci anche noi macchiati
in passato di efferatezze analoghe a quelle che rimproveriamo ai
nostri nemici. In effetti l’Occidente si è distinto nel recente
passato per la sua stoltezza, e le babele in Iraq, in Libia, in
Siria, il serbatoio di rancore delle banlieu parigine sono lì a
testimoniarlo, e c’è un passato di colonialismo che non ci fa
onore. Ma, a differenza del mondo al quale si rifà l’Isis, noi
europei abbiamo saputo insorgere contro i nostri errori rivelando una
coscienza che manca altrove. E’ la stessa coscienza che ci ingiunge
di affrontare con misericordia la migrazione massiccia proveniente
proprio dal mondo islamico, di cui è esempio il welfare illuminato
che accoglie i mussulmani nelle periferie belghe, dove,
ciononostante, è ugualmente fiorito il verminaio del terrorismo
europeo. E allora? Allora, senza tante acrobazie verbali e senza
farneticare sulle solite sciocchezze del politicamente corretto,
dobbiamo avere l’onestà di ammettere che il mondo islamico ha nel
suo bagaglio culturale la natura violenta della sua religione, una
natura che lo rende intollerante nei confronti del mondo occidentale,
una presunzione di superiorità morale che gli fa disprezzare i
costumi di questo mondo. E’ una identità comune a tutto l’Islam
senza distinzioni tra moderato e non, di cui sono prova le singolari
abitudini invalse in Iran e in Afganistan tradizionalmente
fondamentalisti, ma anche in Arabia Saudita e negli Emirati
considerati moderati, tutti ugualmente intransigenti, nei confronti
delle donne alle quali è negata la stessa dignità dell’uomo, nei
confronti della libera circolazione delle idee al punto che persino
la musica occidentale e le discoteche sono state abolite, nei
confronti delle adultere sottoposte alla lapidazione, e con una
coinvolgimento nella carneficina in corso di quelli di loro che
finanziano l’Isis. Questa identità i giovani mussulmani delle
nostre città se la portano appresso anche se sono diventati
cittadini europei già da diverse generazioni e, ispirati da essa,
detestano la terra che li ha accolti ma che non hanno mai accettato
come la loro patria. Ci considerano cattivi in quanto europei, per
l’identità di valori che rappresentiamo, e in quanto tali
meritevoli della guerra che ci portano, e parliamo di guerra a ragion
veduta perché, al di là delle connotazioni ideologiche e religiose
dell’Isis, ci troviamo a dovere fare i conti con una vera e propria
guerra con tutti gli interessi concreti tipici di un conflitto tra
potenze. E’però una guerra asimmetrica che noi ci rifiutiamo di
mettere a fuoco nella sua vera natura e combattere con efficacia,
avvitandoci nelle nostre contraddizioni. Mentiamo su ciò che
effettivamente sentiamo, censuriamo le nostre emozioni e le nostre
parole e scadiamo in un buonismo mieloso. Siamo assediati da
esternazioni demenziali che puzzano di falsità lontano un miglio
come: “Non vi farò il dono di odiarvi”, “Non cederemo alla
stessa ignoranza che vi ha reso ciò che siete”, “Non rinunceremo
alle nostre abitudini” etc., mentre invece viviamo nel terrore,
rischiamo di rinunciare alle nostre abitudini e sentiamo di detestare
con tutte le nostre forze chi attenta alla nostra civiltà, alla
cultura e ai diritti che ci siamo conquistati dai greci in poi.
L’ostilità che sentiamo non deve farci vergognare di noi perché
essa è uno strumento di difesa, perché è naturale detestare chi ci
vuole ridurre in schiavitù, obbedendo al nostro spirito di
sopravvivenza. Non è il caso di lasciarsi coinvolgere in una guerra
santa tra opposte confessioni, ma è il caso di combattere senza
falsi buonismi la crociata in difesa della nostra fede laica, della
legge degli uomini contro la legge di un Dio frutto della follia. E
allora, non rinunciamo alle nostre abitudini, continuiamo a vivere
come sappiamo, raschiamo dal fondo della nostra paura il coraggio
necessario ad affrontare una guerra di frontiera e, per carità, non
porgiamo l’altra guancia, ma soprattutto evitiamo di ingannare noi
stessi.
sabato 21 novembre 2015
“Panorama d’Italia”
Ho assistito alla lectio magistralis tenuta da Vittorio
Sgarbi al Teatro Politeama nell’ambito dell’iniziativa “Panorama d’Italia”,
promossa dal settimanale diretto da Giorgio Mulé. L’atmosfera creata
dall’estroso professore è stata, manco a dirlo, la solita atmosfera frizzante e
l’arte è sembrata assumere connotazioni che non siamo soliti pensare. Si aveva
la sensazione di scoprire un mondo nuovo e che questo mondo fosse naturale e
accessibile, che vivere d’arte fosse ovvio come bere un bicchier d’acqua. Il
parterre oltretutto favoriva questa sensazione. La cornice si fregiava di nomi
che nel panorama culturale e giornalistico italiano hanno detto la loro, niente
di eccezionale, beninteso, ma quel tanto che con la sua normalità incoraggia le
ambizioni dei comuni mortali e gli fa dire che anche loro ce la possono fare,
che anche per loro è facile , se solo lo vogliono. Quei personaggi erano lì, a
portata di mano, mescolati alla gente comune senza le barriere che solitamente rendono
impervio il rapporto con un mondo che appare lontano, con loro potevi parlare
liberamente, esprimere i tuoi pensieri, condividere i tuoi sogni di gloria,
assaporare l’ottimismo che quella normalità
trasmetteva. Ne avvicinai uno e gli confidai la mia ansia di visibilità,
il mio desiderio di far sapere al mondo che un autore che viene dalle retrovie
dell’esistenza sta concependo la sua creatura e vuole offrirle spazio, lamentai
la frustrazione dei peones della cultura che tentano l’assalto al fortino delle occasioni
mancate, gli sussurrai la mia richiesta d’aiuto. Mi guardò come non mi vedesse,
sorrise di un sorriso amaro, il volto segnato dal disincanto di chi conosce il
mondo e non si fa illusioni, mi raccontò dello sforzo immane nel tenere a bada
l’assedio dei cinquanta libri sfornati ogni giorno da narratori della domenica
tra cui magari si annida quello giusto e dei sensi di colpa per non avere il
tempo di leggerli tutti e mancare l’occasione della scoperta che ti fa battere
il cuore, mi mise in guardia contro il rischio di far scorrere la vita sui binari di consuetudini fruste in cui non
c’è più spazio per l’emozione e mi
esortò a continuare a scrivere se scrivere era quello che mi faceva sentire
appagato, scrivere per me più che per gli altri e scoprire nuove sensazioni. Mi
diede appuntamento al giorno dopo per parlare del mio romanzo. Non so se lo
incontrerò, forse, chissà, domani il nostro eroe sarà altrove a distribuire
speranza ad altri romanzieri in cerca di gloria, ma a me è bastato e sono
tornato a casa col cuore gonfio di gratitudine e tanta voglia di continuare a mettere
su carta quello che sento, di scrivere un post che parla di questa voglia e
dedicarlo a lui, al mio disincantato eroe che ha ridato impulso alla mia vena.
martedì 17 novembre 2015
La mattanza di Parigi
Piangiamo la mattanza di Parigi ma
piangiamola con la schiena dritta e senza lacrime di circostanza
pronte a tramutarsi fra qualche giorno in dichiarazioni di
compiacente piaggeria nei confronti dei carnefici. Obama proclama che
la Francia vincerà, Renzi che sapremo reagire, affermiamo
solennemente di sentirci tutti francesi, ma le belle parole e i
proclami non ci assolvono se prima piangiamo i morti di Charlie Hebdo
e poi diciamo che se la sono voluta e in America alcuni intellettuali
protestano per l’assegnazione di un premio alla testata con la
motivazione che essa ha offeso la sensibilità dei mussulmani, se il
regista Van Gogh è boicottato nei festival internazionali e alcuni
musei si rifiutano di esporre innocenti immagini del Profeta, se
escludiamo dalla visita artistica di una scolaresca il Cristo di
Chagall, se l’intellighenzia europea e mondiale scende in campo
firmando appelli contro la libertà di satira nei confronti di un
certo islamismo intollerante e becero, se mostriamo una miserabile
sudditanza da McEwan magistralmente definita “tribalismo
intellettuale soffocante”, se rinneghiamo la nostra cultura. E’
nell’ottica di questa sudditanza la tendenza a rimuovere le
responsabilità dell’islamismo tacciando di islamofobia chi osa
affermare il contrario e a mettere i puntini sulle i di una
distinzione tra Islam fanatico e moderato. E’ una distinzione
sacrosanta ma che non può ignorare la matrice identitaria ideale e
religiosa che accomuna i due schieramenti. In questo Islam che ha
dimenticato il suo antico splendore, non soffia il vento dei lumi e
anche in quello moderato le donne sono tenute in condizione di
inferiorità, i gay sono impiccati e le adultere lapidate, le
confessioni religiose diverse da quella islamica sono perseguitate,
la cultura è bandita. E’ in nome di questi sani principi che
l’Isis conduce la sua lotta contro gli “infedeli” senza che i
moderati si arrischino a muovere un dito perché non possono
rinnegare la matrice comune, ed è ignorando questa realtà che certi
intellettuali occidentali in malafede confezionano autentici falsi
d’autore. Detto questo, vediamo di capire quali sono le
responsabilità dell’Occidente. All’indomani della strage di
Parigi si può dire che il popolo francese è vittima non solo
dell’Isis ma anche dei governanti occidentali affetti da una
inguaribile inadeguatezza di fronte alle sfide della storia. La
pretesa di correggere i mali del mondo e di correre in difesa delle
vittime dei soprusi bonificando aree dall’equilibrio delicato con
l’eliminazione dei Gheddafi, dei Saddam e degli Assad e non
calcolando il prezzo da pagare, è stato un lusso che non ci potevamo
permettere alla luce delle conseguenze. Il dilettantismo che ha
guidato le scelte di Bush Jr e quelle successive di Obama ha sortito
l’effetto di stravolgere quell’ equilibrio che seppur precario e
inviso ai più, garantiva almeno un minimo di stabilità. Valeva la
pena di sloggiare Geddafi, visti i risultati? Ed era il caso di
impelagarsi in quel ginepraio della guerra civile in Siria senza
essere sicuri di venirne a capo. Gli USA, in nome dei diritti negati
al popolo siriano o forse in nome del petrolio, hanno sostenuto i
nemici di Assad concorrendo a destabilizzare il tiranno siriano e a
collassare ancora di più la Siria, hanno lasciato che la crisi si
aggravasse, che entrasse in scena un protagonista come l’Isis, con
la conseguenza che i diritti dei siriani continuano ad essere violati
come e più di prima e la Siria è diventato un teatro in cui si
recitano drammi come l’esodo di un popolo, la distruzione di siti
archeologici patrimoni dell’umanità, la guerra di tutti contro
tutti, la conquista di una vasta area dove l’Isis ha potuto
istallarsi in forma di Stato diventando in maniera ancora più
visibile punto di riferimento del terrorismo e base per
l’intensificazione dei suoi attacchi all’Occidente,
l’incarognimento di una guerra nella quale i giusti non hanno
patria e gli aerei dei buoni bombardano alla cieca facendo vittime
innocenti. L’elenco delle disfatte di Obama e delle conseguenze che
derivano a tutti noi, dalla dissoluzione della Libia al disfacimento
del medio oriente, alla crisi ucraina dove il nostro si è andato a
cacciare sfidando l’orso russo con una politica aggressiva che ha
svegliato la sua sindrome d’accerchiamento e gli ha offerto
l’alibi, che, sia chiaro, non lo assolve, per annettersi la Crimea,
ci dice in che mani siamo e come dobbiamo temere il peggio. In un
mondo diviso a metà in cui si confrontano due civiltà una delle
quali è minacciata da una crisi d’identità vicina alla follia,
Putin non va respinto ma recuperato alla causa della civiltà
occidentale, perché, pur essendo vero che tutto ci separa da lui, è
pure vero che ci accomuna la lotta all’identico nemico. Parigi,
città che amiamo, vive una tragedia immane, vittima di una strategia
che non c’è e orfana dell’Europa, la bella addormentata che
sonnecchia sfogliando la margherita e interrogandosi su che cosa farà
da grande. Il peggiore torto che rischiamo di farle, è dimenticare.
venerdì 13 novembre 2015
Fera ridens
Si dice di me che sono un mafioso e lo
si dice a buon diritto perché ho subito una condanna definitiva per
mafia che non condivido ma che ho accettato saldando il mio conto con
lo Stato. Questa considerazione ovvia può suscitare reazioni
infastidite, qualcuno potrebbe chiedersi: ma insomma dove vuole
andare a parare questo tizio con la solfa della sua vicenda
giudiziaria, pretende forse dalla società un’assoluzione che non
ha avuto dal giudice, vuole convincerci che è una persona per bene,
o non è piuttosto affetto da manie di protagonismo? Nulla di tutto
questo, ve lo assicuro, anzi non desidero altro che dimenticare e far
dimenticare una vicenda che mi ha fatto soffrire. Purtroppo altri non
dimenticano e con un accanimento inspiegabile si ostinano a ripescare
e sbattermi in faccia una sentenza emessa nel 2014 in relazione ad
accuse contestatemi nel 1998. Non ho altre pendenze con la giustizia,
non c’è altro che mi sia stato contestato dopo la mia condanna, è
stato riconosciuto persino da un magistrato che non sono un elemento
( proprio così, elemento ) socialmente pericoloso, sono un uomo
finalmente libero ( non del tutto in verità visto che non posso
uscire dai confini dello Stato ) ma sembra che la mia riconquistata
libertà impensierisca qualcuno. Questo qualcuno strilla stupito che
io circoli indisturbato per le contrade palermitane, mi assale
rinfacciandomi la mia mafiosità, ringhia pretendendo di conoscere da
me cosa pensi della mafia e delle sue attività illecite,
aspettandosi probabilmente che io prenda posizione a favore del
traffico di droga e delle attività estorsive in virtù della mia
connotazione mafiosa, e se oso deluderlo dissociandomi dalla mafia,
insorge indignato rinfacciandomi la faccia tosta con cui nego
l’evidenza: sono mafioso e debbo dichiararmi tale con annessi e
connessi. Mi domando cosa può volere da me questa iena traboccante
di cattiveria gratuita, cosa mi vuole far pagare. Forse non sopporta
l’idea che esisto e resisto sulle barricate di una lotta impari
contro coloro che ritengono di poter fare impunemente strame della
mia vita, di poterla violare facendo irruzioni di stampo mafioso
persino nei momenti più belli di essa o mi riservano una
indifferenza omertosa che uccide, come fanno i tanti giornalisti che
hanno sguazzato per anni nelle mie vicende giudiziarie e ora ignorano
una stagione diversa della mia esistenza disertando all’unanimità,
tranne un paio di eccezioni, la presentazione del mio romanzo e non
avvertendo l’imperativo professionale di offrire al lettore una
doverosa informazione sul nuovo corso del “mafioso” Mandalà?
Forse non tollera che io scriva, e mi dicono che lo faccia anche
bene, rivelando allo stupito gregge abbeveratosi per anni alla
fontana delle verità omologate, un’altra verità sul bieco
“mafioso”, che non sospettava? Forse lo disturba l’impertinenza
di una penna fuori dal coro che dipinge nuovi scenari e denuncia i
piani di chi su questi scenari frusti e abusati ha costruito carriere
altrimenti impensabili e si sente scippato del giocattolo? O forse,
molto più cinicamente, ripescare e rilanciare la figura di un noto
“mafioso” in disarmo serve a promuovere ambizioni a buon mercato?
Tanto, si sa, con la carne dei mafiosi si può tranquillamente
banchettare. Qualcuno dei miei estimatori ha scritto che debbo essere
rinchiuso in un gulag e che mi si deve impedire di pensare e
scrivere. Niente di nuovo come si vede. Se parliamo di macelleria,
l’attrazione è fatale e il boato sale alle stelle, se parliamo di
riscatto, un silenzio assordante cala sulla scena e la delusione
prende l’animo dei malmostosi prevaricatori della vita altrui. E’
mafia questa? Lo è, ve lo garantisce uno che, a detta di una
sentenza definitiva, di mafia si intende.
martedì 10 novembre 2015
Iena ridens
Le iene a caccia di cadaveri hanno
creduto di individuare nel sottoscritto la carcassa da addentare. Al
signor Golia evidentemente non basta il fatto che io abbia concluso
la mia vicenda giudiziaria pagando a torto un conto che a mio
giudizio non mi spettava, che abbia dichiarato a chiare lettere
proprio a lui che condivido la decisione degli imprenditori di
Bagheria di denunciare gli estorsori, tutto ciò non basta, egli ha
le sue certezze e non sopporta l’idea che io sia un uomo libero. Se
ne rammarica al punto da lanciare l’allarme su come è rischioso
che io me ne vada in giro indisturbato con grave pericolo per la
collettività. Dipendesse da lui, butterebbe la chiave. Egli è
piombato nella libreria Macaione dove si stava celebrando la
presentazione del mio romanzo “La vita di un uomo”, insalutato
ospite, incurante del benché minimo riguardo nei confronti dei
padroni di casa che ha bellamente ignorato e, invece di essere
incuriosito dalla singolarità di un condannato per mafia che scrive
un libro e di fornire al lettore la chiave di lettura di una simile
conversione, invece di rendere omaggio ad un evento che fino al
momento della sua incursione aveva odorato di pulito, invece di avere
rispetto per il luogo e per un uomo che considera mafioso senza se e
senza ma, ma al quale avrebbe dovuto concedere il beneficio del
dubbio andando a verificare un percorso letterario che narra una
storia diversa dall’abusata e scontata verità giudiziaria, da iena
ghignante ha sentito solo l’odore del sangue e mi ha “mascariato”
accostandomi a personaggi che con me non hanno niente da spartire, le
cui vicende non si sono mai intrecciate con le mie e coinvolgendomi
in un servizio su un disgustoso episodio estorsivo con cui non ho
nessun legame. Dove è il nesso e quale è lo scopo di tanta
cattiveria? Che è avvenuto di nuovo perché sul malinconico reduce
di una vicenda giudiziaria risalente al 1998 e conclusasi da tempo,
ormai dedito solo a vivere il crepuscolo della propria vita
coltivando l’innocuo hobby della scrittura, si abbattesse la tegola
di un servizio televisivo così severo? Ai signori delle Iene risulta
forse qualche nuovo motivo che non conosco e che rende la mia
persona nuovamente attuale al punto da giustificare tanto interesse?
Perché il signor Golia è entrato a gamba tesa e in maniera
palesemente gratuita nella mia vita attribuendomi una pericolosità
che lo stesso magistrato di sorveglianza ha negato in una recente
sentenza che mi ha assolto dalle misure di vigilanza? Forse gli
riesce intollerabile l’idea che un condannato per mafia osi pensare
ed esprimere ciò che pensa in un romanzo che ha visto la luce
proprio in questi giorni e che offre uno spaccato ben diverso
rispetto al personaggio pensato dall’immaginario collettivo? Certo
c’è una singolare coincidenza. Se avesse un minimo di onestà il
signor Golia dovrebbe fare pubblica ammenda, frequentare un corso
accelerato di buon giornalismo ed evitare di andare in giro a
sporcare esistenze e reputazioni che stanno tentando faticosamente di
riaffacciarsi alla vita.
domenica 8 novembre 2015
La presentazione del mio romanzo
Venerdì 6 novembre presso la libreria
Macaione-Spazio Cultura si è svolta la presentazione del mio romanzo
“La vita di un uomo”. Si è sempre in imbarazzo quando si deve
giudicare qualcosa che ti riguarda ma il giudizio non teme imbarazzo
quando, come in questo caso, l’evento è riuscito a mantenere un
profilo sobrio e ha saputo creare atmosfere magiche. Il dibattito ha
disinnescato il rischio di scadere nella narrazione del solito
ciarpame sulle vicende giudiziarie dell’autore e si è librato su
per i sentieri dell’arte colorando l’evento con pennellate che si
sforzavano di cogliere il valore dell’opera. Dopo anni in cui sono
stato asfissiato dai miasmi di una storia infame che mi ha relegato
nel recinto dei reietti, ho respirato boccate d’aria pulita e mi
sono sentito libero in un contesto in cui non si era costretti a
recitare le verità omologate delle invelenite tricoteuses assise ai
piedi delle disavventure altrui ma si doveva dibattere sulla capacità
di una fatica letteraria di descrivere sentimenti ed emozioni e
catturare l’interesse del lettore. Il parterre di uomini liberi da
pregiudizi che mostravano di interessarsi solo all’opera e non mi
guardavano con sospetto, è stato il risarcimento più grande e mi ha
fatto sentire finalmente riscattato.
Purtroppo l’incursione
delle Iene ha provato a rovinare la festa senza riuscirci,
naufragando nella pattumiera di uno pseudo giornalismo d’assalto
che tenta di sporcare la verità.
domenica 18 ottobre 2015
Francesco
In una recente trasmissione televisiva è stata proposta una
lettura delle doti che accomunano Giovanni XXIII e Papa Francesco. In
particolare è stata messa in evidenza la capacità che aveva Papa Roncalli e di
cui anche Francesco è dotato, di catturare il consenso dei fedeli con un carisma
che attrae irresistibilmente. Di Giovanni XXIII è stato ricordato il famoso
discorso con cui egli invitava i fedeli a portare una carezza ai bambini e dire
loro che era la carezza del Papa e, tornando a casa, confortare i propri cari
rassicurandoli che il Papa era con loro “specialmente nel momento della
tristezza e dell’amarezza”. Mi è venuto in mente un altro saluto portato dal
Papa buono ai carcerati quando, in visita a Regina Coeli il 28 dicembre 1958 ,
ha detto loro: “i miei occhi sono nei vostri occhi e il mio cuore è nei vostri
cuori”. Quel Papa aveva un che di mistico che lo faceva apparire quale
autentico erede di Cristo, un pastore che amava i suoi figli di quell’ amore che
coinvolge ogni battito delle ciglia e del cuore, ogni momento della vita di
ciascun uomo, uno ad uno, in ogni angolo sperduto della terra. Si può dire lo
stesso di Papa Francesco? Egli sembra concepire il suo ministero all’insegna
del risentimento anziché dell’amore, probabilmente perché ha convissuto con un
contesto di ingiustizie sociali e di povertà materiale che lo ha indurito. Si
ha come l’impressione che egli voglia far pagare il conto delle sofferenze di
cui è stato testimone e affrontare i mali del mondo non con la misericordia che
perdona ma con l’intransigenza che punisce senza remissione, quasi che il suo
animo, intriso di pessimismo, non riesca a concepire la redenzione dell’uomo e lo
porti a privilegiare altri obiettivi da salvare, come affiora nella sua ultima enciclica
“Laudato si” dedicata all’ambiente. Secondo quanto teme Ettore Gotti Tedeschi, c’è
il rischio che la Chiesa si lasci coinvolgere in una visione gnostica che
sostituisce la fede nell’uomo con la fede nella natura ed elegge
l’ambientalismo a religione universale. E’ una visione parente stretta della
cosiddetta teologia naturale che si collega al concetto stoico di un universo
armonioso, giusto e ordinato, “legge cosmica che governa il mondo e anche la
nostra mente” (Mancuso), secondo cui gli esseri umani sono creati dalla
natura-physis la quale contiene in sé il suo fine, la sua etica che rimanda
all’ordine naturale senza bisogno di un intervento soprannaturale. E’ questo
che vuole Francesco? Di lui si può dire
che le sue crociate rispondano allo spirito evangelico e che i suoi occhi e il
suo cuore sono negli occhi e nel cuore degli uomini? O non si deve piuttosto
temere che le sue scelte di campo risentano di uno scetticismo intransigente
che rinuncia a ricreare l’uomo ed anzi
lo esclude dal progetto salvifico come ha fatto con i mafiosi? Non mi unisco a
quanti sostengono che il Papa promuove se stesso piuttosto che Dio ma ammetto
di essere confuso.
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