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venerdì 18 dicembre 2015

Così parlò Totò

“Andando in carcere, senza protestare nonostante mi proclamassi innocente, ho rispettato il mio diritto di avere fiducia nella giustizia.” E ancora: “Sul professionismo dell’antimafia in tanti hanno costruito la propria carriera distruggendo la vita degli altri. Non parlo dei magistrati, beninteso.” Così parlò Totò Cuffaro all’indomani della sua scarcerazione, confermando il suo profilo misurato e la sua fiducia nella giustizia e nei magistrati. Ha ragione Cuffaro a mantenere questo stile sobrio perché egli non ha bisogno di urlare la sua rabbia, egli è entrato in carcere accompagnato dalle attenzioni di una stampa che ne ha narrato la sofferenza in carcere, ci ha raccontato di come offrisse la sua solidarietà ai compagni detenuti, di come uno Stato poco misericordioso gli abbia negato il permesso di visitare la madre malata. Un affresco toccante che ha continuato ad essere dipinto, dopo la scarcerazione, nei resoconti dei giornali che hanno trasmesso l’immagine accattivante e mite di un Cuffaro che, dopo avere affrontato con fermezza la carcerazione, ha saputo gestire la scarcerazione misurando i toni e guadagnandosi il rispetto anche di quelli che non sono mai stati suoi sostenitori. Non ha dovuto urlare, per lui ha parlato la sua immagine pacata che ha trovato ampia diffusione nei mezzi di comunicazione. Ci sono invece quelli che sono condannati ad affrontare gli incidenti della vita in solitudine, e in solitudine devono combattere contro le ingiustizie che si annidano persino nelle pieghe della giustizia, avendo come sola arma la propria voce, per loro è difficile essere sobri, loro hanno bisogno di urlare per farsi sentire. Non si possono permettere la magnanimità di Cuffaro il quale mostra di perdonare la giustizia che lo ha condannato da innocente proclamando per di più che continua ad avere fiducia in essa, forte del sostegno della gente e di un ritorno di immagine che equivale a un riscatto. Gli altri, gli invisibili, i condannati all’anonimato, non dispongono di una platea che fa il tifo per loro, del sostegno della società che li spinga a risalire la china, restano sconosciuti all’opinione pubblica, oscuri peones alla mercé della loro solitudine. Abbandonati a se stessi, non sempre hanno la forza di sottrarsi alla deriva di una vita predestinata e soccombono, urlando al mondo la loro rabbia, senza potersi permettere il lusso della sobrietà. La sofferenza per la stessa pena, come si vede, non è uguale per tutti.

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