“Andando in carcere, senza protestare
nonostante mi proclamassi innocente, ho rispettato il mio diritto di
avere fiducia nella giustizia.” E ancora: “Sul professionismo
dell’antimafia in tanti hanno costruito la propria carriera
distruggendo la vita degli altri. Non parlo dei magistrati,
beninteso.” Così parlò Totò Cuffaro all’indomani della sua
scarcerazione, confermando il suo profilo misurato e la sua fiducia
nella giustizia e nei magistrati. Ha ragione Cuffaro a mantenere
questo stile sobrio perché egli non ha bisogno di urlare la sua
rabbia, egli è entrato in carcere accompagnato dalle attenzioni di
una stampa che ne ha narrato la sofferenza in carcere, ci ha
raccontato di come offrisse la sua solidarietà ai compagni detenuti,
di come uno Stato poco misericordioso gli abbia negato il permesso di
visitare la madre malata. Un affresco toccante che ha continuato ad
essere dipinto, dopo la scarcerazione, nei resoconti dei giornali che
hanno trasmesso l’immagine accattivante e mite di un Cuffaro che,
dopo avere affrontato con fermezza la carcerazione, ha saputo gestire
la scarcerazione misurando i toni e guadagnandosi il rispetto anche
di quelli che non sono mai stati suoi sostenitori. Non ha dovuto
urlare, per lui ha parlato la sua immagine pacata che ha trovato
ampia diffusione nei mezzi di comunicazione. Ci sono invece quelli
che sono condannati ad affrontare gli incidenti della vita in
solitudine, e in solitudine devono combattere contro le ingiustizie
che si annidano persino nelle pieghe della giustizia, avendo come
sola arma la propria voce, per loro è difficile essere sobri, loro
hanno bisogno di urlare per farsi sentire. Non si possono permettere
la magnanimità di Cuffaro il quale mostra di perdonare la giustizia
che lo ha condannato da innocente proclamando per di più che
continua ad avere fiducia in essa, forte del sostegno della gente e
di un ritorno di immagine che equivale a un riscatto. Gli altri, gli
invisibili, i condannati all’anonimato, non dispongono di una
platea che fa il tifo per loro, del sostegno della società che li
spinga a risalire la china, restano sconosciuti all’opinione
pubblica, oscuri peones alla mercé della loro solitudine.
Abbandonati a se stessi, non sempre hanno la forza di sottrarsi alla
deriva di una vita predestinata e soccombono, urlando al mondo la
loro rabbia, senza potersi permettere il lusso della sobrietà. La
sofferenza per la stessa pena, come si vede, non è uguale per tutti.
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