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mercoledì 5 agosto 2009

(SECONDA PARTE)
Un alto magistrato, in visita ad una scolaresca, ha chiesto retoricamente quale sia la giusta scelta tra la mafia e lo Stato, dimenticando di precisare di quale Stato parliamo. Se parliamo di questo Stato che ha scelto di privilegiare la sicurezza piuttosto che la giustizia ed ha fatto strame del diritto, di uno Stato teatro di stragi senza colpevoli, di vittime illustri messe nel conto di una sprovveduta manovalanza mafiosa cui è concessa l’illusione di partecipare ad un gioco più grande, se queste povere vittime possono essere impunemente e impudentemente issate sulle barricate di virtuose crociate dai loro stessi carnefici, da quei mandanti che si annidano nelle Istituzioni, se parliamo di lodi che tutelano i soliti fortunati e di provvedimenti come il 41bis che affliggono i soliti sfortunati e che lo stesso ministro Alfano ha, senza ritegno, definito ai limiti della Costituzione, se parliamo di proclami deliranti di personaggi istituzionali che non esitano a preconizzare la morte in carcere e in povertà dei mafiosi, con ciò preconizzando la morte del diritto cui viene attribuito il compito di punire la potenza anziché l’atto, il peccato anziché il reato, un modo d’essere per il solo torto d’essere, negando ogni alternativa ad uomini cui la stessa Costituzione concede la pietà del riscatto, se parliamo di un’Italia che è nel mirino della Corte Europea dei diritti dell’uomo e che ha fatto dichiarare al suo presidente, Jean Paul Casta:" Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato", se parliamo di un’Italia in cui i pensionati sono scippati dei risparmi di una vita e giungono all’appuntamento con il loro crepuscolo vivendo l’angoscia della sopravvivenza, in cui la soglia della povertà è varcata da una percentuale sempre maggiore dei suoi cittadini, famiglie in crescenti difficoltà economiche stentano a giungere all’ultima settimana del mese e via via alla penultima e alla terzultima, in cui uomini che hanno avuto una loro dignità sono ridotti a frugare tra i rifiuti alla ricerca di ciò che può essere ancora riciclato e i luoghi di lavoro sono diventati trincee dove ogni giorno, per tre volte al giorno, le campane rintoccano a morte, se è questa l’Italia di cui parliamo, parliamo di un’Italia che si è chiamata fuori dal consorzio civile e allora la scelta tra mafia e Stato non è così scontata.
E noi ultimi di questa Italia, pur segnati dalle nostre storie, arretriamo confusi, ripieghiamo su noi stessi e ci rifugiamo nella nostra schiavitù, nelle nostre consuetudini rassicuranti, al riparo dalle illusioni di una libertà perduta e riconquistata nelle atmosfere surreali della nostra dimensione pneumatica. È qui che nascono uomini nuovi che popolano mondi antichi in cui le categorie del tempo, dello spazio, delle relazioni sono rifondate e vissute “stringendo i denti e reinventando la dignità” (Josè Saramago) o perdendola del tutto sotto l’incalzare di una normalità ovattata e rassegnata.
Grazie alla schiavitù della detenzione ci risparmiamo l’espiazione della condanna alla vita.

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