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mercoledì 5 agosto 2009

BJELOMOR ovvero L’ELOGIO DELLA SCHIAVITU’

(PRIMA PARTE)
Rinchiusi tra le mura della nostra quotidianità repressa e separati dal resto della società come corpi infetti, troviamo scampo nella schiavitù della nostra detenzione. Dalla nostra postazione osserviamo “un Paese senza verità” (Sciascia), privo di pietà o meglio destinato ad una pietà sospetta e senza speranza, osserviamo i maneggi delle lobby di potere ammantate di superiorità morale e i loro figli recitare la mistificazione di battaglie ideali che nascondono lotte di interessi privati senza esclusione di colpi.
Osserviamo un paese separato da un vallo che divide i poteri forti e i loro àscari, dai pària ai quali sono date in pasto verità addomesticate. E proprio i campioni di questo mondo degli ultimi hanno messo a nudo la cialtrona vocazione dello Stato a fare casta e ad esercitare la severità sui più deboli, i suoi sodali di un tempo, gli antichi epigoni di una cultura senza regole che hanno trasferito sullo Stato la loro arroganza: i mafiosi privati del loro status di cittadini! Contro di loro, residui di un tempo sciagurato, paradigmi di un mondo che hanno condotto alla rovina, confinati in una terra di nessuno in cui il diritto non ha patria, contro di loro la viltà di un tempo è diventata la inflessibile severità dei rinsaviti sacerdoti della legalità che sgomitano facendo a gara nel rivendicare la loro intransigenza evocando la figura del “prete ascetico” del “Crepuscolo degli idoli” (F. Nietzsche):"Quello è un conoscitore di uomini:a che scopo in realtà egli studia gli uomini? Vuole arraffare piccoli vantaggi su di loro,o anche grandi,è un politico…anche quell’altro è un conoscitore di uomini e voi dite che non vuole nulla per sé,che è un grande “impersonale”.Guardate meglio! Forse vuole addirittura un vantaggio anche peggiore :sentirsi superiore agli uomini,poterli guardare dall’alto,non confondersi più con loro. Questo “impersonale” è uno che disprezza gli uomini …".
Ai sacerdoti del nuovo mondo è affidata la difesa del Palazzo in cui i dibattiti sono il noioso copione di sempre recitato nel teatrino delle ovvietà ammannite dai soliti noti che scodinzolavano tenendo d’occhio il gradimento del padrone.
Ai cortigiani dei compiacenti giornali di regime spetta il compito di cavalcare la deriva giacobina dell’opinione pubblica incitandola alla lapidazione e drogandola con notizie di comodo fatte filtrare sapientemente, di ascrivere alla categorie dell’irredimibile cancro sociale i mafiosi (“Vibrioni del colera” e “Batteri della meningite” – F.sco Merlo), di irridere alle ispirazioni dei detenuti ai quali non si perdona la pretesa di coltivare, nonostante tutto, la speranza e sentirsi vivi e sfidare il loro destino con il conseguimento di obiettivi culturali che dai cortigiani sono guardati con sospetto e liquidati come incorreggibile narcisismo, come spia di una ontologia criminale senza speranza (Giustolisi). Questi cortigiani provocano, nella speranza di guadagnarsi lo status di martiri facendo di un mondo in disfacimento la vetrina di sfide a buon mercato produttive di rendite di posizione.
Agli intrepidi cavalieri della crociata contro la mafia spetta il compito di buttare con l’acqua il bambino, liquidando l’eredità del diritto occidentale e i suoi principi basilari: la presunzione di innocenza, la responsabilità soggettiva, la certezza del reato. Il dubbio un tempo pro reo, oggi si ritorce contro il reo, l’appartenenza ad un contesto di valori eticamente censurabili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in atti penalmente rilevanti, è considerata reato e come tale perseguita, la certezza della prova è sostituita dal libero arbitrio (pardon, convincimento) del giudice e la presunzione di innocenza si arrende impotente alla prospettiva di espiare la pena prima della pronuncia definitiva dei giudici.
Ai lividi esecutori dell’ottusa severità dello Stato spetta il compito di gridare al lupo e invocare pene sempre più severe occultando la tragedia di uomini murati vivi nell’infamia del 41bis, erranti per carceri invivibili alla ricerca delle ragioni di esistenze senza più ragioni, che in carcere ci vivono e ci muoiono disperati, che, dopo decenni, sono diventati ciascuno una particolarissima storia di sofferenza avulsa dal contesto originario, di affetti sradicati, di cervelli spappolati da anni, mesi, giorni sempre uguali, di infelici che convivono con “il pensiero onirico latente” di quell’infido appuntamento estremo che è il suicidio, di innocenti ai quali si infligge assieme alla pena per le loro colpe, l’odio per quello che essi rappresentano, di vittime della tanto invocata certezza della pena che spesso è certa quanto è incerta la colpa.

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