L’appassionata testimonianza di La Capria a favore di Napoli, apparsa sulla terza pagina del Corriere della Sera di qualche tempo fa, mi suggerisce una sconsolata riflessione sulla diversa sorte riservata al meridione da alcuni intellettuali cosiddetti impegnati. La Capria descrive il suo disagio per la Napoli di “Gomorra” e rivendica una Napoli diversa, una dolce, sensibile, colta Napoli ancora viva che chiama ad uno scatto d’orgoglio. Altro approccio quello di certa cultura che denuncia un meridione irredimibile, folcloristico e mafioso-camorristico, facendo della mafia e della camorra terreno di coltura di ambizioni letterarie e liquidando tutto con stereotipi abusati che escludono ogni possibilità di riscatto. Ma quanti si siedono sul trespolo dell’indignazione, non riuscendo ad alitare un sia pur leggero zefiro d’amore, hanno cercato di capire, si sono interrogati sè, mentre la mafia e la camorra inquinavano il tessuto sociale, lo stesso tessuto sociale non si sia fatto carnefice di sè producendo il frutto che lo ha avvelenato? Se questo tessuto sociale non si sia ancorato a disvalori stratificatisi durante anni di incuria, anzi di colpevole indifferenza se non, in qualche caso, di collusione dello Stato? Perché, se tutto è riconducibile ad una causa, non c’è dubbio che il meridione problematico consegnato alle generazioni future nasce anche con l’unità d’Italia.
Su una realtà feudale quale era quella meridionale del periodo risorgimentale, in cui è mancata la borghesia attiva e mercantile del resto d’Italia e in cui le sole realtà sociali rappresentate erano una aristocrazia senza illusioni ed una informe classe rurale priva di valori di riferimento, su questa realtà si è avventata una unità d’Italia avida e spietata. Che non fu, come si vuol far credere, frutto di una spontanea ed epica lotta di popolo, ma di un progetto elitario pilotato dall’alto e realizzato grazie ad una alchimia di accordi (alcuni conclusi tra la lenzuola), di tradimenti di ideali (quelli mazziniani), di arditezza e ingenuità di un personaggio come Garibaldi manipolato da Cavour, di scaramucce combattute stando attenti a non farsi male, con le truppe borboniche superiori per numero ed equipaggiamento ai Mille ma addestrati a voltare le terga e con le navi inglesi a largo a vigilare che tutto filasse liscio, di una minoranza di siciliani valorosi e folli che ci credevano sul serio ma che non rappresentavano gli umori della gente, come i ragazzi caduti a Calatafimi e ricordati da Vincenzo Consolo.
La strage ad opera dei killer di Bixio dei contadini di Bronte, fatti passare per briganti, racconta, egregio senatore Bossi, di meridionali che prima di andare ad ammazzare all’estero, furono ammazzati in Italia (e d’altronde perché no visto che la scuola antropologica lombrosiana considerava la popolazione meridionale razza diversa?), e inaugura la stagione delle menzogne, un colonialismo che ha prodotto i dazi a protezione delle mercanzie del nord, le massicce emigrazioni da una realtà ostile ma soprattutto la diffidenza nei confronti di uno Stato sentito come patrigno e contro il quale organizzarsi. La nascente classe media destinata a diventare la spina dorsale della società meridionale, crescerà nutrendosi dei sospetti nei confronti dello Stato, subendo il richiamo delle sirene di subculture e non trovando scandaloso accordarsi con i rappresentanti dell’antistato. Questa classe che è stata la zona franca su cui la mafia e la camorra hanno potuto contare e da cui hanno finito per essere usate e lo Stato che l’ha creata, ci offrono speranze?
E per favore i soliti campioni del pensiero forte e della tolleranza zero ci risparmino lo slogan secondo il quale queste mie riflessioni sono una provocazione mafiosa in salsa separatista!
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