Pretendiamo molto se chiediamo al signor Ministro di Grazia e Giustizia una maggiore sobrietà nelle dichiarazioni che va rilasciando a proposito dei suoi progetti sull’amministrazione della giustizia?
Comprendiamo che un giovane di trentotto anni paracadutato senza particolari credenziali su un incarico così prestigioso, si lasci prendere dalla frenesia di dimostrare che vale il regalo della sorte e che un siciliano assiso sulla poltrona dalla quale si dettano le coordinate della lotta alla criminalità organizzata, voglia fugare ogni dubbio sull’autenticità del suo impegno. Comprendiamo che egli voglia distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dai discutibili provvedimenti ad personam con fughe in avanti su un terreno in cui è facile stimolare i pruriti forcaioli della gente sulla pelle di disgraziati su cui si può tranquillamente imperversare. Ma, per carità, un pò di pudore!
Anche un contesto qual è quello mafioso impone un limite alle esagerazioni.
Il signor Ministro, quando parla di pene più severe, è sicuro di potersi riferire ai reati di mafia che già subiscono il regime di una categoria giuridicamente opinabile qual è quella del 416 bis che condanna la responsabilità oggettiva?
Il signor Ministro che parla di carcere più duro, sa che la pena nelle carceri di massima sicurezza in Italia è scontata in condizioni che irridono alla dignità dell’individuo e alla stessa normativa penitenziaria che prevede la rieducazione e il reinserimento del detenuto?
Il signor Ministro di Grazia e Giustizia che parla di rendere più impervio l’accesso agli sconti di pena, ha mai sentito parlare dei tempi della giustizia e di come l’imputato sconti l’intera pena prima di esaurire i tre gradi di giudizio, non facendo in tempo a realizzare la condizione di “definitivo” necessaria per usufruire dei benefici di legge tanto temuti?
Ma soprattutto, il signor Ministro che ha ottenuto un inasprimento del 41 bis, sa di cosa sta parlando? Gliene diamo un idea proponendo alla sua lettura un brano della lettera di un detenuto in regime di 41 bis: <<…questo dolcissimo figlio di tre anni, come sempre, non voleva lasciarmi ma questa volta è stata ancora più straziante. Dopo i dieci minuti che la legge mi accorda, ho dovuto far uscire il bambino ma egli non voleva saperne di lasciarmi e l’agente, mosso a compassione, lo ha fatto rientrare per un poco ancora fino a quando sua madre non è riuscita ad attirarlo al di là del vetro divisorio. Pensavamo che si fosse calmato ma ha continuato per tutto il tempo del colloquio a invocare il mio nome e a volere tornare da me battendo i pugni contro il vetro. >>
Ecco un esempio di 41 bis all’acqua di rose che permette ai detenuti contatti con elementi dell’organizzazione mafiosa camuffati da bambini, sul cui lassismo i bacchettoni nostrani si strappano le vesti. E’ lo stesso 41 bis la cui indulgenza preoccupa tanto il signor Ministro il quale, fino a quando la legge garantisce che degli uomini vengano murati vivi, tace. Quando invece la stessa legge ritiene che per alcuni detenuti non ci siano più le condizioni per tenere in vita un regime così severo perché il contesto originario in cui è maturato il provvedimento, dopo decenni, è mutato ed è venuta meno la capacità di collegamento dei detenuti con la criminalità, ecco che il signor Ministro insorge dichiarando che abbiamo scherzato, che le regole non vanno più bene e che le maglie vanno vieppiù serrate. Nella nota con cui il Ministro ha informato dell’iniziativa volta ad inasprire il 41 bis, è contenuto un appello all’unità di tutti gli schieramenti politici in nome dell’antimafia che, tradotto dal paludato linguaggio ufficiale, altro non è se non un messaggio di disponibilità a gettare sulla bilancia della pacificazione politica il peso di una maggiore severità che passi attraverso le vite a perdere dei detenuti in regime di 41 bis.
Nomen omen! Al portatore di un nome così vezzoso, il destino, intenerito, non poteva che offrire il meglio di sé, ma Angelino non prenda troppo sul serio i giocattoli che la sorte gli ha regalato!
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mercoledì 19 agosto 2009
Addio pietà…..addio umanità!
L’odio nella sua implacabile deriva ha prodotto l’intransigenza giacobina dei professionisti dell’antimafia. Basta assistere ad un processo di mafia per imbattersi nella ringhiosa, schiumante indignazione di giovani urlanti che mischiano la loro rabbia con l’angoscia dei familiari di mafia. L’inflessibile severità di questi giovani privi di dubbi, assisi sulla certezza della loro superiorità morale, esplode in tutta la sua spietatezza allorchè la lettura delle sentenze di condanna, nei ricorrenti processi per estorsione, è accolta da boati di approvazione e di gioia. Nessun imbarazzo per la sofferenza che si consuma a pochi passi da loro, nessuna pietà per le lacrime delle spaurite donne di mafia che pur condividono lo stesso tempo, lo stesso spazio, un pezzo di vita comune.
L’odio prende il posto della misericordia e non riconosce il dolore negando all’uomo la sua umanità.
L’odio prende il posto della misericordia e non riconosce il dolore negando all’uomo la sua umanità.
Vite a perdere
Nella sezione A di Opera un uomo sta scontando l’ergastolo perché accusato di avere partecipato alla strage di via D’Amelio. E’ da quasi dieci anni in carcere e durante questo lungo periodo ha costruito la sua realtà somatizzando mali inesistenti e convincendosi che è prossimo a morire. In verità è già morto dentro perché, dopo avere realizzato l’ineluttabilità di un destino che non merita, ha rinunciato a proclamare la sua innocenza e a vivere. Ha dato una scadenza approssimativa alla sua fine, una scadenza di pochi mesi, e si è legato morbosamente al suo fatalismo. E’ per questo che ha accolto senza illusioni le dichiarazioni del pentito che lo scagiona vivendole con stizzita insofferenza come una violenza alla sua sciagurata condizione conquistata.
Ricominciare a sperare è fatica troppo grande per un uomo che è già morto e che si è affezionato alla sua morte.
Ricominciare a sperare è fatica troppo grande per un uomo che è già morto e che si è affezionato alla sua morte.
Lettera a mio figlio
Ti ho scritto della modalità dell’essere e sorrido del tuo cruccio per non sentirti pronto a calarti in questa dimensione. Perché non ti senti pronto se tutto dipende da te e dal modo in cui riuscirai a identificarti?
Il primo obiettivo che ti devi porre è quello di avere fiducia in te e agire nel tuo interesse. Lo dice san Tommaso il quale sostiene addirittura che il peccato non consiste nella disobbedienza a Dio ma nella disobbedienza al buon vivere umano, esprimendosi così: <<>>. Lo dice Gesù che ha avuto tanta fiducia nell’uomo da farsi uomo. Egli stesso è modello di vita umana, non divina. San Tommaso, Gesù e non solo ma anche laici come Kipling ci indicano la via da seguire. Gesù con il suo esempio di vita, Kipling con la poesia “Se “ che è il testamento laico più bello che, a mio avviso, sia stato mai scritto. La fiducia in noi ci dice che non dobbiamo arrenderci al destino che la filosofia greca ha imposto all’uomo. Lo stesso destino di sofferenza, retaggio del peccato originale ebraico ereditato dal cristianesimo, può essere superato grazie alla conciliazione dell’uomo con Dio regalataci dal sacrificio di Cristo che ci rimanda all’armonia dell’uomo con sé stesso,con il prossimo, con la natura, all’amore. Quando tu mi scrivi che non riesci a concentrarti nella lettura, in realtà mi dici che sei frammentato nel tuo passato e dai suoi fantasmi. Erich Fromm afferma che nell’uomo assalito dal panico della propria frammentazione, c’è la tentazione di cancellare il mondo esterno per cancellare i propri errori. Noi detenuti in particolare avvertiamo drammaticamente questo panico e rischiamo di fuggire nell’alienazione del nostro passato rifiutando il mondo esterno. Occorre sanare le nostre lacerazioni e l’unico modo e la nostra modalità d’essere. La poesia di Kipling in proposito è esemplare come la vita di Gesù. L’esortazione evangelica: <<>> vuol dire che prima di amare il prossimo devi imparare ad amare te stesso, perché solo chi ha rispetto e considerazione di se può accettare la sofferenza di Cristo e lo stoicismo di Kipling. Perché tanta sofferenza? A quale scopo tanta severità? Risponde Kipling quando dice: <>. Tanta sofferenza e tanta disciplina per giungere ad essere un uomo. Un filosofo francese, Jean Luc Marion, in un libro che ti consiglio, “Il fenomeno erotico”, arriva a teorizzare l’amore come strumento di conoscenza rivisitando l’intuizione cartesiana “cogito ergo sum” e ribattezzandola “amo ergo sum” intendendo per amore addirittura l’amore erotico come carne che testimonia di essere accertata perché “l’essere oggetto del desiderio di un altro permette di prendere coscienza di se stessi, di non sprofondare nel nulla e persino nell’auto distruttività”. L’amore erotico dunque che si salda all’agape cristiana e diventa capacità, oltre che di cogliere, anche di donarsi, di identificarsi con chi vive le nostre stesse pulsioni, di confrontarsi con chi ha voglia di conoscere ed essere conosciuto, di suscitare e ricevere amore, di aprirsi, come san Tommaso , al nostro benessere. Cristo, Kipling, Marion, ci dicono che vivere secondo le modalità dell’essere significa donare non quello che si ha ma quello che si è ed anche che vivere pienamente significa dare valore ad ogni istante della nostra vita. Ed io aggiungo che nessuno è nulla, al di fuori di noi può dare significato alla nostra vita, che dobbiamo sapere accettare le tragiche limitazioni implicite nell’esistenza umana, tranne occasioni di crescita e fa di questa crescita lo scopo della nostra vita,sviluppare la nostra fantasia non per fuggire da circostanze intollerabili bensì per piegarle, superarle e costituire possibilità concrete, andare alla ricerca di noi stessi o meglio di ciò che di noi non conosciamo e non lasciarsi condizionare dalla sentenza del Tribunale o dalle mura di un carcere, dai sensi di colpa o dalle sconfitte subite. Basta che lo vogliamo!
Il primo obiettivo che ti devi porre è quello di avere fiducia in te e agire nel tuo interesse. Lo dice san Tommaso il quale sostiene addirittura che il peccato non consiste nella disobbedienza a Dio ma nella disobbedienza al buon vivere umano, esprimendosi così: <<>>. Lo dice Gesù che ha avuto tanta fiducia nell’uomo da farsi uomo. Egli stesso è modello di vita umana, non divina. San Tommaso, Gesù e non solo ma anche laici come Kipling ci indicano la via da seguire. Gesù con il suo esempio di vita, Kipling con la poesia “Se “ che è il testamento laico più bello che, a mio avviso, sia stato mai scritto. La fiducia in noi ci dice che non dobbiamo arrenderci al destino che la filosofia greca ha imposto all’uomo. Lo stesso destino di sofferenza, retaggio del peccato originale ebraico ereditato dal cristianesimo, può essere superato grazie alla conciliazione dell’uomo con Dio regalataci dal sacrificio di Cristo che ci rimanda all’armonia dell’uomo con sé stesso,con il prossimo, con la natura, all’amore. Quando tu mi scrivi che non riesci a concentrarti nella lettura, in realtà mi dici che sei frammentato nel tuo passato e dai suoi fantasmi. Erich Fromm afferma che nell’uomo assalito dal panico della propria frammentazione, c’è la tentazione di cancellare il mondo esterno per cancellare i propri errori. Noi detenuti in particolare avvertiamo drammaticamente questo panico e rischiamo di fuggire nell’alienazione del nostro passato rifiutando il mondo esterno. Occorre sanare le nostre lacerazioni e l’unico modo e la nostra modalità d’essere. La poesia di Kipling in proposito è esemplare come la vita di Gesù. L’esortazione evangelica: <<>> vuol dire che prima di amare il prossimo devi imparare ad amare te stesso, perché solo chi ha rispetto e considerazione di se può accettare la sofferenza di Cristo e lo stoicismo di Kipling. Perché tanta sofferenza? A quale scopo tanta severità? Risponde Kipling quando dice: <
lunedì 10 agosto 2009
Della questione meridionale
L’appassionata testimonianza di La Capria a favore di Napoli, apparsa sulla terza pagina del Corriere della Sera di qualche tempo fa, mi suggerisce una sconsolata riflessione sulla diversa sorte riservata al meridione da alcuni intellettuali cosiddetti impegnati. La Capria descrive il suo disagio per la Napoli di “Gomorra” e rivendica una Napoli diversa, una dolce, sensibile, colta Napoli ancora viva che chiama ad uno scatto d’orgoglio. Altro approccio quello di certa cultura che denuncia un meridione irredimibile, folcloristico e mafioso-camorristico, facendo della mafia e della camorra terreno di coltura di ambizioni letterarie e liquidando tutto con stereotipi abusati che escludono ogni possibilità di riscatto. Ma quanti si siedono sul trespolo dell’indignazione, non riuscendo ad alitare un sia pur leggero zefiro d’amore, hanno cercato di capire, si sono interrogati sè, mentre la mafia e la camorra inquinavano il tessuto sociale, lo stesso tessuto sociale non si sia fatto carnefice di sè producendo il frutto che lo ha avvelenato? Se questo tessuto sociale non si sia ancorato a disvalori stratificatisi durante anni di incuria, anzi di colpevole indifferenza se non, in qualche caso, di collusione dello Stato? Perché, se tutto è riconducibile ad una causa, non c’è dubbio che il meridione problematico consegnato alle generazioni future nasce anche con l’unità d’Italia.
Su una realtà feudale quale era quella meridionale del periodo risorgimentale, in cui è mancata la borghesia attiva e mercantile del resto d’Italia e in cui le sole realtà sociali rappresentate erano una aristocrazia senza illusioni ed una informe classe rurale priva di valori di riferimento, su questa realtà si è avventata una unità d’Italia avida e spietata. Che non fu, come si vuol far credere, frutto di una spontanea ed epica lotta di popolo, ma di un progetto elitario pilotato dall’alto e realizzato grazie ad una alchimia di accordi (alcuni conclusi tra la lenzuola), di tradimenti di ideali (quelli mazziniani), di arditezza e ingenuità di un personaggio come Garibaldi manipolato da Cavour, di scaramucce combattute stando attenti a non farsi male, con le truppe borboniche superiori per numero ed equipaggiamento ai Mille ma addestrati a voltare le terga e con le navi inglesi a largo a vigilare che tutto filasse liscio, di una minoranza di siciliani valorosi e folli che ci credevano sul serio ma che non rappresentavano gli umori della gente, come i ragazzi caduti a Calatafimi e ricordati da Vincenzo Consolo.
La strage ad opera dei killer di Bixio dei contadini di Bronte, fatti passare per briganti, racconta, egregio senatore Bossi, di meridionali che prima di andare ad ammazzare all’estero, furono ammazzati in Italia (e d’altronde perché no visto che la scuola antropologica lombrosiana considerava la popolazione meridionale razza diversa?), e inaugura la stagione delle menzogne, un colonialismo che ha prodotto i dazi a protezione delle mercanzie del nord, le massicce emigrazioni da una realtà ostile ma soprattutto la diffidenza nei confronti di uno Stato sentito come patrigno e contro il quale organizzarsi. La nascente classe media destinata a diventare la spina dorsale della società meridionale, crescerà nutrendosi dei sospetti nei confronti dello Stato, subendo il richiamo delle sirene di subculture e non trovando scandaloso accordarsi con i rappresentanti dell’antistato. Questa classe che è stata la zona franca su cui la mafia e la camorra hanno potuto contare e da cui hanno finito per essere usate e lo Stato che l’ha creata, ci offrono speranze?
E per favore i soliti campioni del pensiero forte e della tolleranza zero ci risparmino lo slogan secondo il quale queste mie riflessioni sono una provocazione mafiosa in salsa separatista!
Su una realtà feudale quale era quella meridionale del periodo risorgimentale, in cui è mancata la borghesia attiva e mercantile del resto d’Italia e in cui le sole realtà sociali rappresentate erano una aristocrazia senza illusioni ed una informe classe rurale priva di valori di riferimento, su questa realtà si è avventata una unità d’Italia avida e spietata. Che non fu, come si vuol far credere, frutto di una spontanea ed epica lotta di popolo, ma di un progetto elitario pilotato dall’alto e realizzato grazie ad una alchimia di accordi (alcuni conclusi tra la lenzuola), di tradimenti di ideali (quelli mazziniani), di arditezza e ingenuità di un personaggio come Garibaldi manipolato da Cavour, di scaramucce combattute stando attenti a non farsi male, con le truppe borboniche superiori per numero ed equipaggiamento ai Mille ma addestrati a voltare le terga e con le navi inglesi a largo a vigilare che tutto filasse liscio, di una minoranza di siciliani valorosi e folli che ci credevano sul serio ma che non rappresentavano gli umori della gente, come i ragazzi caduti a Calatafimi e ricordati da Vincenzo Consolo.
La strage ad opera dei killer di Bixio dei contadini di Bronte, fatti passare per briganti, racconta, egregio senatore Bossi, di meridionali che prima di andare ad ammazzare all’estero, furono ammazzati in Italia (e d’altronde perché no visto che la scuola antropologica lombrosiana considerava la popolazione meridionale razza diversa?), e inaugura la stagione delle menzogne, un colonialismo che ha prodotto i dazi a protezione delle mercanzie del nord, le massicce emigrazioni da una realtà ostile ma soprattutto la diffidenza nei confronti di uno Stato sentito come patrigno e contro il quale organizzarsi. La nascente classe media destinata a diventare la spina dorsale della società meridionale, crescerà nutrendosi dei sospetti nei confronti dello Stato, subendo il richiamo delle sirene di subculture e non trovando scandaloso accordarsi con i rappresentanti dell’antistato. Questa classe che è stata la zona franca su cui la mafia e la camorra hanno potuto contare e da cui hanno finito per essere usate e lo Stato che l’ha creata, ci offrono speranze?
E per favore i soliti campioni del pensiero forte e della tolleranza zero ci risparmino lo slogan secondo il quale queste mie riflessioni sono una provocazione mafiosa in salsa separatista!
venerdì 7 agosto 2009
Sovraffollamento nelle carceri
I giornali del 6 agosto hanno dato notizia del sovraffollamento delle carceri italiane e dell’ennesima condanna che la Corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo ha inflitto all’Italia per “trattamento inumano e degradante”.
Non illudiamoci che la condanna della Corte Suprema impensierisca più di tanto i nostri governanti nè che le iniziative, pur lodevoli, dei parlamentari e delle associazioni che sono solite combattere sul fronte di una maggiore dignità della detenzione, possano sortire alcun risultato.
La stessa stampa che riporta di volta in volta l’ultima notizia dell’emergenza carceri, lo fa giusto per l’obbligo che il dovere dell’informazione le impone, ma già il giorno dopo archivia l’argomento.
La verità è che l’universo dei detenuti non sensibilizza le pruderie solidali della cosiddetta società civile la quale anzi è stata educata a guardare con sospetto a questo universo. E sennò qualcuno dovrà spiegare perché una condizione di indegnità morale e fisica qual è quella della detenzione in Italia ha potuto sfidare le ricorrenti condanne che la comunità europea ormai ci infligge da diversi decenni a questa parte, senza che si sia pervenuti alla soluzione di tanta vergogna.
Probabilmente alla gente non è stato spiegato a sufficienza ciò che accade nelle carceri italiane e il direttore del DAP, Franco Ionta, può tranquillamente affermare che “la situazione è assolutamente sotto controllo mentre il sovraffollamento particolare cui si riferisce la sentenza della Corte Europea è durato un periodo molto limitato”. L’affermazione secondo la quale il sovraffollamento si riferisce a un solo periodo molto limitato evidentemente risente del singolare criterio di valutazione del Dottor Ionta secondo il quale vanno considerati “un periodo molto limitato” tre dei miei sei anni di detenzione patiti nell’angustia di una cella dieci metri quadrati da spartire con altri due compagni.
Ha invece ragione il dottor Ionta quando afferma che la situazione è assolutamente sotto controllo, perché è vero che è sotto controllo ferreo ogni tentativo dei detenuti di sottrarsi a questa condizione, così come è sotto controllo la condizione anestetizzata di uomini che vivono venti delle ventiquattro ore della loro giornata rinchiusi in cella facendo a turno per aggiudicarsi lo spazio disponibile in cui muoversi e per il resto sostando stravaccati nelle brande, lo sguardo perduto nel vuoto, in attesa che si faccia sera per rifugiarsi nelle realtà costruite dai loro sogni.
Non illudiamoci che la condanna della Corte Suprema impensierisca più di tanto i nostri governanti nè che le iniziative, pur lodevoli, dei parlamentari e delle associazioni che sono solite combattere sul fronte di una maggiore dignità della detenzione, possano sortire alcun risultato.
La stessa stampa che riporta di volta in volta l’ultima notizia dell’emergenza carceri, lo fa giusto per l’obbligo che il dovere dell’informazione le impone, ma già il giorno dopo archivia l’argomento.
La verità è che l’universo dei detenuti non sensibilizza le pruderie solidali della cosiddetta società civile la quale anzi è stata educata a guardare con sospetto a questo universo. E sennò qualcuno dovrà spiegare perché una condizione di indegnità morale e fisica qual è quella della detenzione in Italia ha potuto sfidare le ricorrenti condanne che la comunità europea ormai ci infligge da diversi decenni a questa parte, senza che si sia pervenuti alla soluzione di tanta vergogna.
Probabilmente alla gente non è stato spiegato a sufficienza ciò che accade nelle carceri italiane e il direttore del DAP, Franco Ionta, può tranquillamente affermare che “la situazione è assolutamente sotto controllo mentre il sovraffollamento particolare cui si riferisce la sentenza della Corte Europea è durato un periodo molto limitato”. L’affermazione secondo la quale il sovraffollamento si riferisce a un solo periodo molto limitato evidentemente risente del singolare criterio di valutazione del Dottor Ionta secondo il quale vanno considerati “un periodo molto limitato” tre dei miei sei anni di detenzione patiti nell’angustia di una cella dieci metri quadrati da spartire con altri due compagni.
Ha invece ragione il dottor Ionta quando afferma che la situazione è assolutamente sotto controllo, perché è vero che è sotto controllo ferreo ogni tentativo dei detenuti di sottrarsi a questa condizione, così come è sotto controllo la condizione anestetizzata di uomini che vivono venti delle ventiquattro ore della loro giornata rinchiusi in cella facendo a turno per aggiudicarsi lo spazio disponibile in cui muoversi e per il resto sostando stravaccati nelle brande, lo sguardo perduto nel vuoto, in attesa che si faccia sera per rifugiarsi nelle realtà costruite dai loro sogni.
mercoledì 5 agosto 2009
(SECONDA PARTE)
Un alto magistrato, in visita ad una scolaresca, ha chiesto retoricamente quale sia la giusta scelta tra la mafia e lo Stato, dimenticando di precisare di quale Stato parliamo. Se parliamo di questo Stato che ha scelto di privilegiare la sicurezza piuttosto che la giustizia ed ha fatto strame del diritto, di uno Stato teatro di stragi senza colpevoli, di vittime illustri messe nel conto di una sprovveduta manovalanza mafiosa cui è concessa l’illusione di partecipare ad un gioco più grande, se queste povere vittime possono essere impunemente e impudentemente issate sulle barricate di virtuose crociate dai loro stessi carnefici, da quei mandanti che si annidano nelle Istituzioni, se parliamo di lodi che tutelano i soliti fortunati e di provvedimenti come il 41bis che affliggono i soliti sfortunati e che lo stesso ministro Alfano ha, senza ritegno, definito ai limiti della Costituzione, se parliamo di proclami deliranti di personaggi istituzionali che non esitano a preconizzare la morte in carcere e in povertà dei mafiosi, con ciò preconizzando la morte del diritto cui viene attribuito il compito di punire la potenza anziché l’atto, il peccato anziché il reato, un modo d’essere per il solo torto d’essere, negando ogni alternativa ad uomini cui la stessa Costituzione concede la pietà del riscatto, se parliamo di un’Italia che è nel mirino della Corte Europea dei diritti dell’uomo e che ha fatto dichiarare al suo presidente, Jean Paul Casta:" Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato", se parliamo di un’Italia in cui i pensionati sono scippati dei risparmi di una vita e giungono all’appuntamento con il loro crepuscolo vivendo l’angoscia della sopravvivenza, in cui la soglia della povertà è varcata da una percentuale sempre maggiore dei suoi cittadini, famiglie in crescenti difficoltà economiche stentano a giungere all’ultima settimana del mese e via via alla penultima e alla terzultima, in cui uomini che hanno avuto una loro dignità sono ridotti a frugare tra i rifiuti alla ricerca di ciò che può essere ancora riciclato e i luoghi di lavoro sono diventati trincee dove ogni giorno, per tre volte al giorno, le campane rintoccano a morte, se è questa l’Italia di cui parliamo, parliamo di un’Italia che si è chiamata fuori dal consorzio civile e allora la scelta tra mafia e Stato non è così scontata.
E noi ultimi di questa Italia, pur segnati dalle nostre storie, arretriamo confusi, ripieghiamo su noi stessi e ci rifugiamo nella nostra schiavitù, nelle nostre consuetudini rassicuranti, al riparo dalle illusioni di una libertà perduta e riconquistata nelle atmosfere surreali della nostra dimensione pneumatica. È qui che nascono uomini nuovi che popolano mondi antichi in cui le categorie del tempo, dello spazio, delle relazioni sono rifondate e vissute “stringendo i denti e reinventando la dignità” (Josè Saramago) o perdendola del tutto sotto l’incalzare di una normalità ovattata e rassegnata.
Grazie alla schiavitù della detenzione ci risparmiamo l’espiazione della condanna alla vita.
Un alto magistrato, in visita ad una scolaresca, ha chiesto retoricamente quale sia la giusta scelta tra la mafia e lo Stato, dimenticando di precisare di quale Stato parliamo. Se parliamo di questo Stato che ha scelto di privilegiare la sicurezza piuttosto che la giustizia ed ha fatto strame del diritto, di uno Stato teatro di stragi senza colpevoli, di vittime illustri messe nel conto di una sprovveduta manovalanza mafiosa cui è concessa l’illusione di partecipare ad un gioco più grande, se queste povere vittime possono essere impunemente e impudentemente issate sulle barricate di virtuose crociate dai loro stessi carnefici, da quei mandanti che si annidano nelle Istituzioni, se parliamo di lodi che tutelano i soliti fortunati e di provvedimenti come il 41bis che affliggono i soliti sfortunati e che lo stesso ministro Alfano ha, senza ritegno, definito ai limiti della Costituzione, se parliamo di proclami deliranti di personaggi istituzionali che non esitano a preconizzare la morte in carcere e in povertà dei mafiosi, con ciò preconizzando la morte del diritto cui viene attribuito il compito di punire la potenza anziché l’atto, il peccato anziché il reato, un modo d’essere per il solo torto d’essere, negando ogni alternativa ad uomini cui la stessa Costituzione concede la pietà del riscatto, se parliamo di un’Italia che è nel mirino della Corte Europea dei diritti dell’uomo e che ha fatto dichiarare al suo presidente, Jean Paul Casta:" Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato", se parliamo di un’Italia in cui i pensionati sono scippati dei risparmi di una vita e giungono all’appuntamento con il loro crepuscolo vivendo l’angoscia della sopravvivenza, in cui la soglia della povertà è varcata da una percentuale sempre maggiore dei suoi cittadini, famiglie in crescenti difficoltà economiche stentano a giungere all’ultima settimana del mese e via via alla penultima e alla terzultima, in cui uomini che hanno avuto una loro dignità sono ridotti a frugare tra i rifiuti alla ricerca di ciò che può essere ancora riciclato e i luoghi di lavoro sono diventati trincee dove ogni giorno, per tre volte al giorno, le campane rintoccano a morte, se è questa l’Italia di cui parliamo, parliamo di un’Italia che si è chiamata fuori dal consorzio civile e allora la scelta tra mafia e Stato non è così scontata.
E noi ultimi di questa Italia, pur segnati dalle nostre storie, arretriamo confusi, ripieghiamo su noi stessi e ci rifugiamo nella nostra schiavitù, nelle nostre consuetudini rassicuranti, al riparo dalle illusioni di una libertà perduta e riconquistata nelle atmosfere surreali della nostra dimensione pneumatica. È qui che nascono uomini nuovi che popolano mondi antichi in cui le categorie del tempo, dello spazio, delle relazioni sono rifondate e vissute “stringendo i denti e reinventando la dignità” (Josè Saramago) o perdendola del tutto sotto l’incalzare di una normalità ovattata e rassegnata.
Grazie alla schiavitù della detenzione ci risparmiamo l’espiazione della condanna alla vita.
BJELOMOR ovvero L’ELOGIO DELLA SCHIAVITU’
(PRIMA PARTE)
Rinchiusi tra le mura della nostra quotidianità repressa e separati dal resto della società come corpi infetti, troviamo scampo nella schiavitù della nostra detenzione. Dalla nostra postazione osserviamo “un Paese senza verità” (Sciascia), privo di pietà o meglio destinato ad una pietà sospetta e senza speranza, osserviamo i maneggi delle lobby di potere ammantate di superiorità morale e i loro figli recitare la mistificazione di battaglie ideali che nascondono lotte di interessi privati senza esclusione di colpi.
Osserviamo un paese separato da un vallo che divide i poteri forti e i loro àscari, dai pària ai quali sono date in pasto verità addomesticate. E proprio i campioni di questo mondo degli ultimi hanno messo a nudo la cialtrona vocazione dello Stato a fare casta e ad esercitare la severità sui più deboli, i suoi sodali di un tempo, gli antichi epigoni di una cultura senza regole che hanno trasferito sullo Stato la loro arroganza: i mafiosi privati del loro status di cittadini! Contro di loro, residui di un tempo sciagurato, paradigmi di un mondo che hanno condotto alla rovina, confinati in una terra di nessuno in cui il diritto non ha patria, contro di loro la viltà di un tempo è diventata la inflessibile severità dei rinsaviti sacerdoti della legalità che sgomitano facendo a gara nel rivendicare la loro intransigenza evocando la figura del “prete ascetico” del “Crepuscolo degli idoli” (F. Nietzsche):"Quello è un conoscitore di uomini:a che scopo in realtà egli studia gli uomini? Vuole arraffare piccoli vantaggi su di loro,o anche grandi,è un politico…anche quell’altro è un conoscitore di uomini e voi dite che non vuole nulla per sé,che è un grande “impersonale”.Guardate meglio! Forse vuole addirittura un vantaggio anche peggiore :sentirsi superiore agli uomini,poterli guardare dall’alto,non confondersi più con loro. Questo “impersonale” è uno che disprezza gli uomini …".
Ai sacerdoti del nuovo mondo è affidata la difesa del Palazzo in cui i dibattiti sono il noioso copione di sempre recitato nel teatrino delle ovvietà ammannite dai soliti noti che scodinzolavano tenendo d’occhio il gradimento del padrone.
Ai cortigiani dei compiacenti giornali di regime spetta il compito di cavalcare la deriva giacobina dell’opinione pubblica incitandola alla lapidazione e drogandola con notizie di comodo fatte filtrare sapientemente, di ascrivere alla categorie dell’irredimibile cancro sociale i mafiosi (“Vibrioni del colera” e “Batteri della meningite” – F.sco Merlo), di irridere alle ispirazioni dei detenuti ai quali non si perdona la pretesa di coltivare, nonostante tutto, la speranza e sentirsi vivi e sfidare il loro destino con il conseguimento di obiettivi culturali che dai cortigiani sono guardati con sospetto e liquidati come incorreggibile narcisismo, come spia di una ontologia criminale senza speranza (Giustolisi). Questi cortigiani provocano, nella speranza di guadagnarsi lo status di martiri facendo di un mondo in disfacimento la vetrina di sfide a buon mercato produttive di rendite di posizione.
Agli intrepidi cavalieri della crociata contro la mafia spetta il compito di buttare con l’acqua il bambino, liquidando l’eredità del diritto occidentale e i suoi principi basilari: la presunzione di innocenza, la responsabilità soggettiva, la certezza del reato. Il dubbio un tempo pro reo, oggi si ritorce contro il reo, l’appartenenza ad un contesto di valori eticamente censurabili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in atti penalmente rilevanti, è considerata reato e come tale perseguita, la certezza della prova è sostituita dal libero arbitrio (pardon, convincimento) del giudice e la presunzione di innocenza si arrende impotente alla prospettiva di espiare la pena prima della pronuncia definitiva dei giudici.
Ai lividi esecutori dell’ottusa severità dello Stato spetta il compito di gridare al lupo e invocare pene sempre più severe occultando la tragedia di uomini murati vivi nell’infamia del 41bis, erranti per carceri invivibili alla ricerca delle ragioni di esistenze senza più ragioni, che in carcere ci vivono e ci muoiono disperati, che, dopo decenni, sono diventati ciascuno una particolarissima storia di sofferenza avulsa dal contesto originario, di affetti sradicati, di cervelli spappolati da anni, mesi, giorni sempre uguali, di infelici che convivono con “il pensiero onirico latente” di quell’infido appuntamento estremo che è il suicidio, di innocenti ai quali si infligge assieme alla pena per le loro colpe, l’odio per quello che essi rappresentano, di vittime della tanto invocata certezza della pena che spesso è certa quanto è incerta la colpa.
Rinchiusi tra le mura della nostra quotidianità repressa e separati dal resto della società come corpi infetti, troviamo scampo nella schiavitù della nostra detenzione. Dalla nostra postazione osserviamo “un Paese senza verità” (Sciascia), privo di pietà o meglio destinato ad una pietà sospetta e senza speranza, osserviamo i maneggi delle lobby di potere ammantate di superiorità morale e i loro figli recitare la mistificazione di battaglie ideali che nascondono lotte di interessi privati senza esclusione di colpi.
Osserviamo un paese separato da un vallo che divide i poteri forti e i loro àscari, dai pària ai quali sono date in pasto verità addomesticate. E proprio i campioni di questo mondo degli ultimi hanno messo a nudo la cialtrona vocazione dello Stato a fare casta e ad esercitare la severità sui più deboli, i suoi sodali di un tempo, gli antichi epigoni di una cultura senza regole che hanno trasferito sullo Stato la loro arroganza: i mafiosi privati del loro status di cittadini! Contro di loro, residui di un tempo sciagurato, paradigmi di un mondo che hanno condotto alla rovina, confinati in una terra di nessuno in cui il diritto non ha patria, contro di loro la viltà di un tempo è diventata la inflessibile severità dei rinsaviti sacerdoti della legalità che sgomitano facendo a gara nel rivendicare la loro intransigenza evocando la figura del “prete ascetico” del “Crepuscolo degli idoli” (F. Nietzsche):"Quello è un conoscitore di uomini:a che scopo in realtà egli studia gli uomini? Vuole arraffare piccoli vantaggi su di loro,o anche grandi,è un politico…anche quell’altro è un conoscitore di uomini e voi dite che non vuole nulla per sé,che è un grande “impersonale”.Guardate meglio! Forse vuole addirittura un vantaggio anche peggiore :sentirsi superiore agli uomini,poterli guardare dall’alto,non confondersi più con loro. Questo “impersonale” è uno che disprezza gli uomini …".
Ai sacerdoti del nuovo mondo è affidata la difesa del Palazzo in cui i dibattiti sono il noioso copione di sempre recitato nel teatrino delle ovvietà ammannite dai soliti noti che scodinzolavano tenendo d’occhio il gradimento del padrone.
Ai cortigiani dei compiacenti giornali di regime spetta il compito di cavalcare la deriva giacobina dell’opinione pubblica incitandola alla lapidazione e drogandola con notizie di comodo fatte filtrare sapientemente, di ascrivere alla categorie dell’irredimibile cancro sociale i mafiosi (“Vibrioni del colera” e “Batteri della meningite” – F.sco Merlo), di irridere alle ispirazioni dei detenuti ai quali non si perdona la pretesa di coltivare, nonostante tutto, la speranza e sentirsi vivi e sfidare il loro destino con il conseguimento di obiettivi culturali che dai cortigiani sono guardati con sospetto e liquidati come incorreggibile narcisismo, come spia di una ontologia criminale senza speranza (Giustolisi). Questi cortigiani provocano, nella speranza di guadagnarsi lo status di martiri facendo di un mondo in disfacimento la vetrina di sfide a buon mercato produttive di rendite di posizione.
Agli intrepidi cavalieri della crociata contro la mafia spetta il compito di buttare con l’acqua il bambino, liquidando l’eredità del diritto occidentale e i suoi principi basilari: la presunzione di innocenza, la responsabilità soggettiva, la certezza del reato. Il dubbio un tempo pro reo, oggi si ritorce contro il reo, l’appartenenza ad un contesto di valori eticamente censurabili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in atti penalmente rilevanti, è considerata reato e come tale perseguita, la certezza della prova è sostituita dal libero arbitrio (pardon, convincimento) del giudice e la presunzione di innocenza si arrende impotente alla prospettiva di espiare la pena prima della pronuncia definitiva dei giudici.
Ai lividi esecutori dell’ottusa severità dello Stato spetta il compito di gridare al lupo e invocare pene sempre più severe occultando la tragedia di uomini murati vivi nell’infamia del 41bis, erranti per carceri invivibili alla ricerca delle ragioni di esistenze senza più ragioni, che in carcere ci vivono e ci muoiono disperati, che, dopo decenni, sono diventati ciascuno una particolarissima storia di sofferenza avulsa dal contesto originario, di affetti sradicati, di cervelli spappolati da anni, mesi, giorni sempre uguali, di infelici che convivono con “il pensiero onirico latente” di quell’infido appuntamento estremo che è il suicidio, di innocenti ai quali si infligge assieme alla pena per le loro colpe, l’odio per quello che essi rappresentano, di vittime della tanto invocata certezza della pena che spesso è certa quanto è incerta la colpa.
La storia di mio nonno materno
Vi voglio raccontare una storia esemplare, la storia di mio nonno materno. Costretto a emigrare negli USA negli anni ’30 del secolo scorso lasciando a casa la moglie e le figlie, mio nonno lavorò duramente e mandò alla moglie le rimesse con cui questa minuta e rude donna d’altri tempi riuscì a mettere assieme un discreto patrimonio.
Nel 1953, alla morte di mio nonno, le figlie, tra cui mia madre, ereditarono case e terreni, uno dei quali fu utilizzato nel 1969 per effettuare una permuta dalla quale tre delle quattro sorelle ricavarono un cospicuo numero di appartamenti che donarono ai rispettivi figli. Io fui uno dei beneficiari di questa donazione e feci di due appartamenti ricevuti in dono la casa dove andai ad abitare fino ad oggi, anzi fino a ieri. Perché oggi sono stato privato di questi due appartamenti da un provvedimento della magistratura che me li ha sequestrati sospettando che essi provengano da guadagni illeciti.
Mio nonno ha lavorato duramente ma non mi risulta che lo abbia fatto anche illecitamente, eppure lo Stato che lo ha costretto nel 1930 a procurarsi altrove quello che in patria non ha potuto realizzare, ha trovato il modo, dopo 79 anni, di privare un suo erede di parte di quei beni: una piccola proprietà di famiglia, due appartamenti non di 16 (come hanno scritto i giornali) ma di 8 vani, del valore non di € 1.500.000 (come hanno scritto i giornali) ma di appena € 350.000 (compresi le polizze previdenziali e i libretti a risparmio), non “strappati ai boss”, come ha titolato qualche giornale, ma scippati a mio nonno la cui memoria è stata sfregiata da un episodio di stupido accanimento dello Stato contro un suo cittadino.
Per inciso, la stampa ha bruciato sul tempo la magistratura dando in anteprima la notizia del provvedimento di sequestro che a me non è stato ancora notificato.
Nel 1953, alla morte di mio nonno, le figlie, tra cui mia madre, ereditarono case e terreni, uno dei quali fu utilizzato nel 1969 per effettuare una permuta dalla quale tre delle quattro sorelle ricavarono un cospicuo numero di appartamenti che donarono ai rispettivi figli. Io fui uno dei beneficiari di questa donazione e feci di due appartamenti ricevuti in dono la casa dove andai ad abitare fino ad oggi, anzi fino a ieri. Perché oggi sono stato privato di questi due appartamenti da un provvedimento della magistratura che me li ha sequestrati sospettando che essi provengano da guadagni illeciti.
Mio nonno ha lavorato duramente ma non mi risulta che lo abbia fatto anche illecitamente, eppure lo Stato che lo ha costretto nel 1930 a procurarsi altrove quello che in patria non ha potuto realizzare, ha trovato il modo, dopo 79 anni, di privare un suo erede di parte di quei beni: una piccola proprietà di famiglia, due appartamenti non di 16 (come hanno scritto i giornali) ma di 8 vani, del valore non di € 1.500.000 (come hanno scritto i giornali) ma di appena € 350.000 (compresi le polizze previdenziali e i libretti a risparmio), non “strappati ai boss”, come ha titolato qualche giornale, ma scippati a mio nonno la cui memoria è stata sfregiata da un episodio di stupido accanimento dello Stato contro un suo cittadino.
Per inciso, la stampa ha bruciato sul tempo la magistratura dando in anteprima la notizia del provvedimento di sequestro che a me non è stato ancora notificato.
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