La prefettura di Trapani ha comunicato
ad una azienda che non può concederle il certificato antimafia.
Motivo: la presenza nel suo organico della signora Maria Concetta
Riina, nipote di Totò Riina. L’interdittiva, si esprime
esattamente così: “La inquietante presenza nell’azienda della
citata signora Riina, fa ritenere possibile una sorta di riverenza
da parte del titolare nei confronti dell’organizzazione mafiosa,
ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale
da determinare un’oggettiva e qualificata possibilità di
permeabilità mafiosa anche della società immobiliare”.
Conseguenza: allo scopo di ottenere la certificazione antimafia
l’azienda è stata costretta a licenziare la signora Riina, pur non
essendo stato contestato alla stessa alcunché di illecito, ma non è
stata a sua volta sottoposta a provvedimento di sequestro, pur
essendo essa “permeabile alla mafia”. Lo dico non perché mi
auguro che ad un torto se ne aggiunga un altro ma per rilevare la
contraddittorietà e strumentalità del provvedimento. Le qualità
professionali della signora Riina riconosciute dall’azienda nella
stessa lettera con cui viene comunicato il licenziamento, l’articolo
27 della Costituzione che recita: “La responsabilità penale è
personale”, gli articoli 2, 3 e 4 sempre della Costituzione che
parlano di diritti inalienabili dei cittadini, e in particolare
l’articolo 4 che riconosce il diritto al lavoro e alle condizioni
che rendono effettivo questo diritto, non sono stati sufficienti a
evitare il licenziamento di una impiegata non solo brava ma anche
onesta, visto che ha una fedina penale immacolata e non si è mai
macchiata di alcun reato. Però c’è il nome e questo basta a far
dire al signor Prefetto, forte del “prevalente e consolidato
orientamento giurisprudenziale”, che “la cautela antimafia non
mira all’accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma
di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, al di là
dell’individuazione di responsabilità penali”. Dunque è così
che funziona, apprendiamo che lo scopo dell’antimafia non è quello
di accertare responsabilità penali, bensì di accertare l’innocenza
e punirla perché macchiata dal suo difetto d’origine. Come a dire
che l’uomo, erede di Caino, è colpevole per natura e non c’è
libero arbitrio che tenga. Una sorta di predestinazione di
agostiniana memoria non emendata né dalla scelta che ciascuno di noi
compie in difformità dal male né dalla grazia divina, una
mostruosità giuridica come dogma che con la cecità del suo assioma
punisce la responsabilità dell’innocente e giustifica il sopruso
nel nome della madre di tutte le battaglie, la lotta alla mafia
(sacrosanta per carità, a scanso di equivoci, quando non è
strumentale), cui vanno sacrificati persino i principi che hanno
fatto la storia della civiltà del diritto e hanno trovato
accoglimento nella nostra Costituzione. Ci mancherebbe che questi
principi valessero anche per una che si chiama Riina anche se non ha
commesso alcun reato! Una che ha il torto di portare un nome così
pesante, è già colpevole al di là delle sue responsabilità
personali, e dovrebbe avere il buon gusto di non esistere e di non
creare imbarazzo alla collettività. Si arrangi a brigare sotto banco
come può e come sa, come i tanti che, non potendo ottenere le
autorizzazioni necessarie ad affrontare un’attività lecita perché
parenti di mafiosi, sono spinti verso il sottobosco della criminalità
che, come sappiamo, non si formalizza più di tanto. Siamo alla
istituzionalizzazione dei cittadini di serie B per i quali i diritti,
anzi il diritto è sospeso. D’altronde perché scandalizzarci in un
Paese in cui la legge Severino si applica a Berlusconi ma non vale
per De Magistris e De Luca?
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