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martedì 7 luglio 2015

Gli appestati

La prefettura di Trapani ha comunicato ad una azienda che non può concederle il certificato antimafia. Motivo: la presenza nel suo organico della signora Maria Concetta Riina, nipote di Totò Riina. L’interdittiva, si esprime esattamente così: “La inquietante presenza nell’azienda della citata signora Riina, fa ritenere possibile una sorta di riverenza da parte del titolare nei confronti dell’organizzazione mafiosa, ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale da determinare un’oggettiva e qualificata possibilità di permeabilità mafiosa anche della società immobiliare”. Conseguenza: allo scopo di ottenere la certificazione antimafia l’azienda è stata costretta a licenziare la signora Riina, pur non essendo stato contestato alla stessa alcunché di illecito, ma non è stata a sua volta sottoposta a provvedimento di sequestro, pur essendo essa “permeabile alla mafia”. Lo dico non perché mi auguro che ad un torto se ne aggiunga un altro ma per rilevare la contraddittorietà e strumentalità del provvedimento. Le qualità professionali della signora Riina riconosciute dall’azienda nella stessa lettera con cui viene comunicato il licenziamento, l’articolo 27 della Costituzione che recita: “La responsabilità penale è personale”, gli articoli 2, 3 e 4 sempre della Costituzione che parlano di diritti inalienabili dei cittadini, e in particolare l’articolo 4 che riconosce il diritto al lavoro e alle condizioni che rendono effettivo questo diritto, non sono stati sufficienti a evitare il licenziamento di una impiegata non solo brava ma anche onesta, visto che ha una fedina penale immacolata e non si è mai macchiata di alcun reato. Però c’è il nome e questo basta a far dire al signor Prefetto, forte del “prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale”, che “la cautela antimafia non mira all’accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, al di là dell’individuazione di responsabilità penali”. Dunque è così che funziona, apprendiamo che lo scopo dell’antimafia non è quello di accertare responsabilità penali, bensì di accertare l’innocenza e punirla perché macchiata dal suo difetto d’origine. Come a dire che l’uomo, erede di Caino, è colpevole per natura e non c’è libero arbitrio che tenga. Una sorta di predestinazione di agostiniana memoria non emendata né dalla scelta che ciascuno di noi compie in difformità dal male né dalla grazia divina, una mostruosità giuridica come dogma che con la cecità del suo assioma punisce la responsabilità dell’innocente e giustifica il sopruso nel nome della madre di tutte le battaglie, la lotta alla mafia (sacrosanta per carità, a scanso di equivoci, quando non è strumentale), cui vanno sacrificati persino i principi che hanno fatto la storia della civiltà del diritto e hanno trovato accoglimento nella nostra Costituzione. Ci mancherebbe che questi principi valessero anche per una che si chiama Riina anche se non ha commesso alcun reato! Una che ha il torto di portare un nome così pesante, è già colpevole al di là delle sue responsabilità personali, e dovrebbe avere il buon gusto di non esistere e di non creare imbarazzo alla collettività. Si arrangi a brigare sotto banco come può e come sa, come i tanti che, non potendo ottenere le autorizzazioni necessarie ad affrontare un’attività lecita perché parenti di mafiosi, sono spinti verso il sottobosco della criminalità che, come sappiamo, non si formalizza più di tanto. Siamo alla istituzionalizzazione dei cittadini di serie B per i quali i diritti, anzi il diritto è sospeso. D’altronde perché scandalizzarci in un Paese in cui la legge Severino si applica a Berlusconi ma non vale per De Magistris e De Luca?

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