Chi non si è fatto tentare almeno una
volta nella vita dalla voglia di suicidio? Credo in parecchi, perché
la vita è un affare complicato e pieno di insidie e non sempre siamo
all'altezza di affrontarla. Ho una certa dimestichezza con
l’argomento, perché nei luoghi da me frequentati sono stato vicino
di stanza della morte e l’ho sentita aleggiare, suadente compagna
di infelici che trascinano la loro esistenza ascoltando l’eco dei
loro passi sempre uguali, ossessionati dal tempo che non scorre mai.
E l’ho anche vista qualche volta all'opera mentre colpisce alle
spalle coscienze tramortite dall'abbrutimento e andate in pappa
inseguendo i loro fantasmi, e vi posso dire che la bastarda non fa
tanti complimenti. Mi ricordo di un episodio in particolare. Un mio
compagno si fermò davanti alla mia cella, mi raccontò dei suoi
progetti, di quello che avrebbe mangiato quel giorno, di come stava
mettendo da parte i soldi per un regalo all'ultimo figlio appena
nato, e passò oltre ostentando una normalità che ingannava per
primo lui privandolo delle difese contro l’insidia incombente.
Dopo pochi minuti sentii le urla dell’agente che, compiendo il suo
giro d’ispezione, se lo ritrovò davanti privo di vita, penzolante
dal cappio di un lenzuolo.
Ho letto in questi giorni la testimonianza
di molti uomini noti che hanno confessato di avere pensato al
suicidio. Crocetta per primo che ha strillato di avere corso il
rischio ma di essersi salvato non sappiamo in virtù di quale
miracolo. E Galan che lamenta di possedere solo 30.000 euro con cui
sbarcare il lunario e di avere pensato anche lui al suicidio ma di
avere desistito grazie alla figlia. Sono uomini che, grazie a Dio,
non hanno trovato il coraggio di uccidersi ma che purtroppo hanno
anche smarrito il senso della decenza, mettendo in piazza la
narrazione della loro tentazione suicida e facendone mercimonio per
lucrare una visibilità che muovesse a compassione. I miei compagni
che si sono suicidati erano già morti prima di uccidersi e hanno
vissuto fino in fondo e coerentemente la loro sciagurata scelta,
questi campioni di insulse brodaglie melodrammatiche, aggrappati
morbosamente alla vita, sapevano da sempre di non voler morire e
hanno scelto di frignare tentando di barare con i nostri sentimenti.
Un minimo di rossore signori e, per favore, un po’ di rispetto per
chi con la morte gioca a dadi partite dall'esito scontato.
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martedì 28 luglio 2015
giovedì 23 luglio 2015
La solitudine
Ho finito di leggere “Avventurieri dell’eterno” di Antonio Socci e “Abolire il carcere” di
Manconi, Anastasia, Calderone e Resta, e sono passato dalla sensazione di
speranza e di felicità cui, secondo il messaggio di Socci, è destinato l’uomo, ad
una sensazione opposta che ben conosco, la sensazione di pena per la condizione
in carcere narrata nelle pagine del libro
di Manconi & C. e drammaticamente confermata
dalla notizia degli ultimi suicidi di due detenuti. Mi sono venute in mente la
poesia di Quasimodo “Ed è subito sera” e la lode della solitudine di Gervaso e mi
sono chiesto se la solitudine non sia il solo vero rimedio alla vita che ci è
stata assegnata e che decliniamo come possiamo e sappiamo tra le insidie di un
mondo contraddittorio, a volte generoso a volte crudele, che mette a dura prova
la nostra fragilità raziocinante. Ho un parente ossessionato dalla cultura della
legalità e da una sorta di paranoia etica che lo guida in tutti i suoi giudizi,
in genere severi e senza sconti. Giunge a negare i meriti più evidenti se
macchiati da ciò che a lui appare eticamente censurabile. Inutile spiegargli
che merito e moralità non sono categorie inscindibili, che l’uno non deve
necessariamente presupporre l’altra, e che anzi nella storia dell’uomo
ricorrono tanti esempi di sommi artisti moralmente indegni, il nostro intransigente
campione non si convince e resta fermo nella sua condanna inappellabile.
Peccato che egli, come tutti i moralisti, abbia una doppia morale. Quando, esasperato
dalla sua inflessibilità, gli ricordo che sta godendosi la pensione grazie ai
buoni uffici dell’onorevole Pincopallo che lo ha sistemato illo tempore in una
struttura pubblica senza farlo passare attraverso le forche caudine di un
concorso, mi guarda con aria stupita protestando che così fan tutti. Una bella
morale come si vede. Non ricordo chi disse: “Guardo dentro di me e
inorridisco”. Ebbene la morale del mio parente è la morale farisaica
di chi è indulgente con se stesso e inorridisce solo per i peccati altrui, di
coloro che inarcano il sopracciglio al cospetto della sorte infelice di una
umanità che non conoscono eppure demonizzano, quella degli innocenti figli di
padri colpevoli, che, a loro dire, se la sono voluta, come la signora Maria
Concetta Riina, per esempio, che è onesta ma nipote del capo dei capi e tanto
basta, e come i familiari dei detenuti in regime di 41 bis costretti dal vetro
divisorio a non stringere al petto la propria carne per decenni. E’ la morale
di quanti incitano a buttare la chiave perché il carcere è l’unica soluzione
che appaga il loro senso di giustizia e si girano dall’altra parte infastiditi
dalle notizie da bollettino di guerra dei detenuti che si impiccano, colpevoli
incalliti fino alla fine quando, penzolando imbarazzanti dal cappio di un
lenzuolo, fanno l’ultimo, estremo dispetto allo Stato. E’ la morale degli
Ingroia e dei Lumia che si sono caricati sulle spalle la vara di San Saro
elevandolo a icona del galateo etico e campione della lotta alla corruzione e
al malaffare e adesso si rifugiano tra le pieghe di mille distinguo, non pagando
pegno per il disastro morale e politico al quale hanno prestato il fianco
cavalcando incautamente un crocettismo che non hanno saputo imbrigliare. E’ la
morale dei censori che imperversano in rete, tutti onesti e assetati del sangue
della vittima di turno, sventolando la ragione di chi si nasconde dietro un nickename
anonimo. Mi sono detto che l’unica amica
che non mi tradirà è la mia cara, fedele solitudine che mi tiene a distanza di
sicurezza da questo mondo di…..onesti.
domenica 19 luglio 2015
Crocetta
E’ forte la tentazione di unirsi alla
canea che ha investito Crocetta. L’uomo si è distinto in passato
per il cinismo con cui ha tentato di macchiare la reputazione di
galantuomini pur di lustrare la sua patente di antimafioso
inflessibile, e dunque viene spontaneo l’impulso di ripagarlo con
la stessa moneta senza stare tanto a sottilizzare. Ma anche nei
confronti di un uomo simile, contro il quale si ha ragione di nutrire
sacrosante riserve per mille motivi, la cautela è d’obbligo non
per riguardo alla persona ma al dovere dell’onestà. Quanti hanno
a cuore le garanzie di chi è sottoposto ad accuse senza riscontri
certi, non possono prestarsi al furore dei linciaggi, e la legge del
contrappasso che Crocetta sta subendo dopo aver maramaldeggiato per
anni, è una questione tra duri e puri che non può riguardare chi,
come i comuni mortali, con la purezza non ha molta dimestichezza.
Coloro che hanno subito esecuzioni sommarie, anche ad opera del
signor Crocetta, sanno che cosa significa finire nel frullatore di
certa stampa al servizio di ragioni non sempre chiare e a caccia di
colpevoli sulla cui responsabilità non c’è ancora il timbro
definitivo della magistratura, e non possono condividere gli insulti
della canaglia in rete. L’Espresso sostiene di essere in possesso
di una intercettazione che inchioderebbe Crocetta a responsabilità
morali stomachevoli, la Procura di Palermo sostiene che non c’è
alcuna traccia di una simile intercettazione. Vedremo chi dice il
vero, anche se non c’è bisogno di attendere le verifiche sulle
frasi attribuite a Tutino, per essere preoccupati. Dalle
intercettazioni in mano agli inquirenti emerge infatti, stavolta
senza alcun dubbio, il comparaggio, che evoca scenari inquietanti,
tra Crocetta e Tutino, all’ombra del quale veniva decisa la
spartizione degli incarichi da affidare. Che dire, si rimane
sconcertati non tanto perché scopriamo che il santo martire della
lotta al malaffare usa gli stessi metodi di coloro che dice di
combattere, ma perché avvertiamo un senso di impotenza di fronte ad
un gattopardismo duro a morire che ci irride attraverso la
sfrontatezza del nostro governatore. Non ci resta che ripagarlo col
senso di ripulsa che suscita la sua panza ballerina.
giovedì 16 luglio 2015
L’inossidabile Germania
C’è un Paese in Europa che non è solito onorare i suoi
impegni e ha la pretesa di dare lezioni di morale agli altri, che ha un debito
con la Storia per aver scatenato due guerre mondiali ed essere stato graziato con un taglio cospicuo dei suoi
debiti di guerra, eppure si atteggia a severo censore, che dovrebbe sapere che le condizioni capestro
non portano a nulla di buono per averle avute imposte dal dissennato trattato
di Versailles ed essersene vendicato con la follia del nazismo, che ha tratto
vantaggio dall’istituzione dell’Europa Unita grazie alle ricadute positive della moneta
unica agganciata alla sua moneta forte e di un mercato europeo asservito allo
strapotere della sua industria che vi esporta il 45% del suo PIL senza avere
mai avuto la lungimiranza di dirottare i suoi appetiti verso il mercato interno
liberando spazi per le economie più deboli, che ha praticato una cieca politica
di arcigna difesa dello status quo imposto dai trattati negando, in ossequio
alla intollerabilità delle deroghe, il taglio del debito greco, immemore dell’accordo
di Londra del 1953 e delle deroghe che, esso si, si è regalato in combutta con
la Francia sforando i limiti del deficit di bilancio nel 2003, che ha preteso e
ottenuto, sempre nel nome delle regole, un fondo al quale conferire un pezzo
della Grecia per il valore di 50 miliardi di euro destinato alla vendita per
ripagare il programma ESM da 82 miliardi e tentando (senza riuscirci) di
mortificare la dignità di un Paese sovrano con la pretesa di allocare questo
fondo in Lussemburgo, che è alle spalle della potentissima banca d’affari
scelta per gestire questo fondo, nel cui consiglio di amministrazione siedono
il ministro delle finanze Schauble e il
vice cancelliere Sigmar Gabriel, che è la patria di un gruppo di investitori
pronti a scippare a prezzi di realizzo i beni del suddetto fondo, che ha lo
stomaco di imporre da una posizione di forza quello che Der Spiegel ha definito
il “catalogo degli orrori” ad un Paese allo stremo, che otterrà come risultato
immediato ulteriori inutili sofferenze di un popolo al quale sono stati negati
i mezzi per sopravvivere, e come risultato successivo un fallimento la cui ineluttabilità è insita
nella pesantezza delle draconiane condizioni imposte che non potranno mai essere rispettate dai
greci. Il fallimento greco con l’effetto domino che ne deriverà lascerà sul
terreno un cumulo di macerie fra le quali la signora Merkel si aggirerà ebbra
di potere secondo la migliore tradizione dello Sturm und Drang. Ci meritiamo
che un simile campione d’altruismo funga da severo custode del farisaismo in
quel giardino del Getsemani che è la casa comune europea.
venerdì 10 luglio 2015
La crisi greca
Commentare la crisi greca significa avventurarsi su un
terreno nel quale è difficile districarsi. La vicenda con i suoi connotati di
politica economica e finanziaria, è troppo complicata e insidiosa per tollerare
incursioni non pertinenti ed io che non sono un esperto, non ho la pretesa di
azzardare analisi di natura tecnica. Proverò piuttosto ad esprimere un punto di
vista che ha a che vedere con la sofferenza di un popolo che amiamo, il popolo
greco. So di dovere fare i conti con quanti sostengono che i greci hanno avuto
quello che si meritavano perché hanno vissuto al di sopra delle loro
possibilità e si sono indebitati senza avere gli strumenti per potere rientrare
dal debito, non una industria produttiva, non una politica che sapesse gestire
il welfare in modo ragionevole, non un programma di riforme che offrisse una
via d’uscita ad una condizione che precipitava verso il peggio. E so anche che non
è condivisibile l’indulgenza di quanti assolvono il popolo affermando che la
colpa è solo dei governanti e dimenticano che la democrazia si basa sulla
sovranità popolare, che il popolo è responsabile dei governanti che si è
scelti. Detto questo però, rimane il fatto che il popolo greco non ha potuto
esprimere la propria volontà al riparo dall’inganno, l’inganno dei suoi
governanti che hanno truccato le carte pur di farsi accettare nella casa
europea con conseguente sfascio del bilancio statale e dell’economia, e l’inganno
delle istituzioni europee che non hanno vigilato a sufficienza perché gli conveniva
non vigilare. La signora Merkel, impegnata a germanizzare l’Europa e piegarla
agli interessi del suo popolo e delle sue banche, era troppo intenta a cogliere
l’occasione propizia tollerando una finanza avida e cialtrona, per avere voglia
di imporre allora piuttosto che oggi, dopo che il danno è stato consumato
probabilmente in modo irreversibile, il rigore necessario a monitorare una
deriva che ha portato al disastro attuale. Quando in futuro si parlerà della
signora Merkel non si ricorderà certo la sua statura di statista ma la miopia
che ha guidato il suo istinto di massaia dedita al bilancio familiare. Il popolo greco ha poi dovuto fare i conti
con quello che ha ritenuto essere la soluzione ai suoi problemi, il signor Tsipras.
Un governante che con la riedizione del materialismo storico ha sfidato le
lezioni della Storia, che ha mentito al suo popolo promettendo quello che
sapeva di non potere mantenere, che ha contraddetto se stesso con una condotta
ondivaga prestandosi alle richieste dell’Europa e dei creditori dopo aver vinto
il referendum indetto proprio per farsi autorizzare ad opporre un rifiuto a
tali richieste e così ingannando ancora una volta il suo popolo, non può essere
la soluzione al problema. La DDR dall’economia collassata accolta a braccia
aperte dalla Repubblica Federale Tedesca, i Paesi ex comunisti che, dopo la
caduta dell’impero sovietico, si sono rifugiati sotto l’ombrello dell’Europa
unita ricevendone una pioggia di contributi, la stessa Germania di Adenauer che
ha goduto di un taglio del 60% del suo debito di guerra (la Grecia fu tra i
sottoscrittori), sono tutti esempi di una solidarietà europea che adesso viene
negata alla Grecia. Una costruzione così alta quale è quella pensata dai padri
fondatori dell’Europa unita, che ha dimostrato di essere in grado di garantire
decenni di pace e di stabilità, che contiene in sé valori che ci accomunano in
un uguale sentire e che dobbiamo ad una lontana provincia dove migliaia di anni
fa si gettavano le basi della moderna civiltà, non merita la miopia degli
egoismi nazionali. La Grecia è nostra sorella come lo è la Germania,
l’Ungheria, la Francia e quante altre, e abbandonarla a se stessa significa
rinunciare a un pezzo della nostra identità. Chi sa e può metta da parte la
pretesa delle proprie ragioni e sposi le ragioni di quel popolo meraviglioso, obbedendo
allo spirito di Antigone piuttosto che a quello di Creonte. I governanti greci
non sono degni del loro passato ma non è neppure degno permettere che nella
patria di Socrate e Platone dove è nata la civiltà occidentale, un popolo a noi
caro sia lasciato al proprio destino.
martedì 7 luglio 2015
Gli appestati
La prefettura di Trapani ha comunicato
ad una azienda che non può concederle il certificato antimafia.
Motivo: la presenza nel suo organico della signora Maria Concetta
Riina, nipote di Totò Riina. L’interdittiva, si esprime
esattamente così: “La inquietante presenza nell’azienda della
citata signora Riina, fa ritenere possibile una sorta di riverenza
da parte del titolare nei confronti dell’organizzazione mafiosa,
ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale
da determinare un’oggettiva e qualificata possibilità di
permeabilità mafiosa anche della società immobiliare”.
Conseguenza: allo scopo di ottenere la certificazione antimafia
l’azienda è stata costretta a licenziare la signora Riina, pur non
essendo stato contestato alla stessa alcunché di illecito, ma non è
stata a sua volta sottoposta a provvedimento di sequestro, pur
essendo essa “permeabile alla mafia”. Lo dico non perché mi
auguro che ad un torto se ne aggiunga un altro ma per rilevare la
contraddittorietà e strumentalità del provvedimento. Le qualità
professionali della signora Riina riconosciute dall’azienda nella
stessa lettera con cui viene comunicato il licenziamento, l’articolo
27 della Costituzione che recita: “La responsabilità penale è
personale”, gli articoli 2, 3 e 4 sempre della Costituzione che
parlano di diritti inalienabili dei cittadini, e in particolare
l’articolo 4 che riconosce il diritto al lavoro e alle condizioni
che rendono effettivo questo diritto, non sono stati sufficienti a
evitare il licenziamento di una impiegata non solo brava ma anche
onesta, visto che ha una fedina penale immacolata e non si è mai
macchiata di alcun reato. Però c’è il nome e questo basta a far
dire al signor Prefetto, forte del “prevalente e consolidato
orientamento giurisprudenziale”, che “la cautela antimafia non
mira all’accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma
di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, al di là
dell’individuazione di responsabilità penali”. Dunque è così
che funziona, apprendiamo che lo scopo dell’antimafia non è quello
di accertare responsabilità penali, bensì di accertare l’innocenza
e punirla perché macchiata dal suo difetto d’origine. Come a dire
che l’uomo, erede di Caino, è colpevole per natura e non c’è
libero arbitrio che tenga. Una sorta di predestinazione di
agostiniana memoria non emendata né dalla scelta che ciascuno di noi
compie in difformità dal male né dalla grazia divina, una
mostruosità giuridica come dogma che con la cecità del suo assioma
punisce la responsabilità dell’innocente e giustifica il sopruso
nel nome della madre di tutte le battaglie, la lotta alla mafia
(sacrosanta per carità, a scanso di equivoci, quando non è
strumentale), cui vanno sacrificati persino i principi che hanno
fatto la storia della civiltà del diritto e hanno trovato
accoglimento nella nostra Costituzione. Ci mancherebbe che questi
principi valessero anche per una che si chiama Riina anche se non ha
commesso alcun reato! Una che ha il torto di portare un nome così
pesante, è già colpevole al di là delle sue responsabilità
personali, e dovrebbe avere il buon gusto di non esistere e di non
creare imbarazzo alla collettività. Si arrangi a brigare sotto banco
come può e come sa, come i tanti che, non potendo ottenere le
autorizzazioni necessarie ad affrontare un’attività lecita perché
parenti di mafiosi, sono spinti verso il sottobosco della criminalità
che, come sappiamo, non si formalizza più di tanto. Siamo alla
istituzionalizzazione dei cittadini di serie B per i quali i diritti,
anzi il diritto è sospeso. D’altronde perché scandalizzarci in un
Paese in cui la legge Severino si applica a Berlusconi ma non vale
per De Magistris e De Luca?
venerdì 3 luglio 2015
L’innominato
Il personaggio di cui mi occupo in
questo post dispone di un potenziale offensivo di tutto rispetto che
sconsiglia sfide suicide, per questo motivo eviterò di declinarne
apertamente l’identità. So che non faccio la figura di un cuor di
leone ma appartengo ad una specie non protetta e non mi posso
permettere certi lussi. Come recita saggiamente un proverbio
siciliano,“fuggire è vergogna ma è salvamento di vita”. Dunque
il personaggio in questione è una icona della superiorità morale,
sodale della consorteria dei puri, sacerdote del verbo antimafioso,
che dall’alto del suo ambone distribuisce sermoni e scaglia fatwa
contro gli infedeli che non aderiscono alla sua chiesa, liquidandoli
tutti come mafiosi. Il principio guida della sua vita è il sospetto
che brandisce per mascariare gli avversari, anzi i nemici, attingendo
ad un retroterra sub culturale che mescola un pot pourri di frasi
fatte e di ovvietà politicamente corrette date in pasto a un popolo
di tricoteuses traboccanti di vuoto e assetate di sangue che sbavano
in sognante adorazione di cotanto profeta. Un’altra categoria che
lo ispira è la sua inclinazione sibarita che lo indirizza verso
valutazioni estetiche imbarazzanti sulla morfologia dei personaggi
che non gli aggradano, ma il meglio di sé lo da nella sua
personalissima concezione del diritto inteso quale optional piegato
alla bisogna, ora malandrino e incurante delle regole quando si
tratta di colpire gli avversari, ora compiacente e omertoso quando si
tratta di coprire le magagne degli amici del cerchio magico ammessi
ai privilegi della greppia da lui stesso creata, secondo un copione
caro a certi tromboni radical chic che hanno una doppia morale e la
utilizzano come un’arma impropria. Ognuno ha il messia che si
merita e noi siciliani ci meritiamo questa caricatura di Savonarola
perché siamo un popolo di servi che ha perduto il senso della
decenza e ha dilapidato il proprio orgoglio deponendolo ai piedi di
ciò che conviene, ora della mafia che traffica con la morte e il
malaffare, ora della mafia dei furbi che ha fatto dell’antimafia
un affare lucroso servendosi dei soliti turibolanti utili idioti.
Grazie alla sua disinvoltura morale il nostro innominato ha saputo
barcamenarsi, in barba alla decenza, tra le insidie delle verità
scomode e, con la sua natura debordante che non conosce argini,
dilagare imperterrito approfittando della dabbenaggine del solito
gattopardismo siciliano che, inseguendo i suoi bizantinismi, si è
incartato e ci ha regalato questa guida illuminata. Ce lo siamo
meritato e ce lo teniamo, ma è troppo sperare che, nella migliore
tradizione della nostra storia di popolo messo a giudizio da
provvidenziali invasori, qualcuno abbia misericordia di noi e venga
ancora una volta a soccorrerci? Il signor Renzi, per esempio, alla
cui scuderia tutto sommato appartiene il nostro campione, e che
potrebbe decidere di ritirarlo dall’agone siciliano destinandolo a
competere nelle sue contrade?
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