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martedì 17 novembre 2009

Peppe

L’aspetto ieratico, la candida barba, uno sguardo fiero e dolce insieme, fanno di Peppe un personaggio inconsueto tra la popolazione carceraria. Lo notai mentre, incedendo indifferente a quanto gli accadeva intorno, il labbro increspato da un sorriso appena accennato e ironico, entrava nella sua cella o, meglio, vi si barricava tirandosi alle spalle il blindo e chiudendo fuori il mondo esterno. Non lo vidi per giorni perché Peppe rifuggiva dalle consuetudini carcerarie e non scendeva a passeggiare. Incuriosito, chiesi notizie e appresi che Giuseppe Perini detto Peppe e inteso l’Intellettuale incuteva rispetto e al contempo diffidenza per la sua intelligenza che tutti ammiravano e per la sua guascona sfida alle Istituzioni che altrettanti valutavano con perplessità. Peppe, condannato a una pena di ventotto anni per traffico di droga e concorso esterno in associazione mafiosa, si definiva anarchico e prigioniero di Stato. Aveva scritto parecchi libri editi a sue spese e destinati ad un ristretto pubblico di parenti e amici, disponeva di un sito grazie al quale corrispondeva con un buon numero di persone, era socio di Antigone, collaborava con giornali di nicchia ignoti ai più, argomentava con la strampalata logica cara agli anarchici, sostenendo battaglie generose quanto improbabili, era fuori dal mondo ma aveva realizzato la sua utopia e la viveva incurante di una detenzione che disprezzava. Era l’unico detenuto con cui l’amministrazione carceraria evitava di scontrarsi perché egli si sottraeva alle categorie e ai rituali cui gli altri obbediscono e che sono il comune denominatore di una scellerata e innaturale complicità fra carcere e detenuto.
Egli dunque alloggiava in cella singola, custodiva una vera e propria biblioteca personale, riceveva chili di posta ogni giorno con dentro libri che ad altri venivano negati, era esente dalle consuete angherie che secondini dalla luna storta o una normativa demenziale infliggono ai comuni detenuti, viveva in solitudine la sua fiera diversità senza per questo assumere atteggiamenti spocchiosi nei confronti dei compagni ai quali anzi dedicava il suo tempo quando era necessario.
Con me fu un colpo di fulmine. Mi guardò dall’alto della sua stazza e mi concesse la sua familiarità, anzi fece di più, si abbandonò a valutazioni lusinghiere sul mio conto e mi informò che aveva rispetto sia per la mia età che per la mia storia. Aveva letto di me e delle mie vicende giudiziarie e, piccandosi di percepire l’intima essenza del suo prossimo al primo approccio, proclamò di riconoscermi fin dalle prime battute e mi accolse nella ristretta cerchia delle persone che stimava e che si limitavano a due: io e lui!
In effetti ci accumunava la passione per la lettura e la scrittura ma soprattutto per quello che avevamo tratto dalle letture, l’ingenua, commovente convinzione che il mondo andasse affrontato senza tanti riguardi che non fossero quelli per la nostra ingenua, commovente convinzione ma anche senza tante illusioni. Scoprimmo di essere entrambi Ariete e questo spiegava tutto!
Prendemmo l’abitudine di passeggiare assieme tra lo stupore di chi non si capacitava di vedere Peppe mescolarsi agli altri, ma in verità riuscivamo a isolarci anche in mezzo alla gente. E fu così che conobbi veramente Peppe, uomo di grandi passioni come tutti i trapanesi di un certo tipo, dal passato avventuroso e pieno e con la capacità di giocarsi ogni cosa con sciagurata noncuranza.
Lo sguardo rapito e lontano, un sorriso malinconico di traverso al suo volto solenne, parlava a sè stesso più che a me di un mondo perduto, di giorni che non verranno, di proclami che erano un grido di impotenza, di un destino senza speranza. Lo osservavo ammaliato e intenerito e invidiavo il suo lirismo ingenuo, la voglia di progettare nonostante tutto, di prendere il mondo per il bavero e sfidarlo dimentico delle sconfitte subite, mentre il desiderio di sognare tornava a fare capolino nel mio cuore dopo anni senza più illusioni.

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