Reduce dal Festival della filosofia di Modena, sono preso dalla voglia di curiosare dentro di me. Seguendo la rotta della mia depressione approdo alla mia cara solitudine, l’esilio che mi sono scelto fuggendo dal consorzio umano.
E’ la solitudine un’isola costretta a convivere con il resto del mondo amato e detestato ma, a quanto pare,necessario alla nostra identità.
Lo sostiene Massimo Cacciari quando afferma che “la relazione è necessaria in quanto costitutiva del soggetto e l’identità è un risultato che sarà messo in discussione dal mio rapportarmi con altri e dunque non data una volta per tutte”. Lo sostiene Edouard Glissant quando dichiara che “ogni identità è una relazione e che la realtà è un arcipelago in cui vivere significa errare da un isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria”.
La nostra identità dunque esiste perché esiste il nostro prossimo. Essa, grazie ai neuroni specchio, “ci costringe ad amare in base al meccanismo fisiologico per cui la felicità altrui è anche la nostra” (Vito Mancuso), ma ci porta ad odiare quale “prezzo che la gratuità del regalo paga all’impoverimento dell’io” (Roberto Esposito). Ed è proprio la paura di impoverire il nostro io che ci spinge a mettere in discussione il compromesso raggiunto con la collettività, a confliggere con la comunità sentita con un misto di insofferenza e attrazione e tuttavia necessaria in quanto “non relegata nell’ambito della esteriorità e dell’accidentalità e dunque non categoriale bensì esistenziale” (Jean Luc Nancy).Condannati ad una identità di cui non disponiamo per intero perché costretta a coabitare con l’alterità, viviamo una solitudine invasa e travagliata in cui la sola speranza è la fede che ci faccia amare e ci faccia percepire che amando non impoveriamo il nostro io.
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