Addio alla pietà atto secondo
Torno a parlare di pietà dopo aver letto le proteste di
quanti lamentano il dilagare della retorica dell’autoflagellazione nei commenti
alla tragedia di Lampedusa. Poiché anche io mi sono autoflagellato, voglio
chiarire che cosa intendo quando affermo di avvertire un senso di colpa. Mi
sento colpevole non perché mi attribuisco responsabilità per le tragedie che si
consumano quotidianamente nel canale di Sicilia, ho troppo il senso della
misura per pretendere di aspirare a colpe di cui non sono all’altezza. So bene
che le responsabilità sono altrove. Esse risiedono nella collusione con i
mercanti di carne umana degli stati canaglia che aprono le maglie dei controlli
e lasciano che dalle loro coste si riversino in mare disperati destinati, per
la maggior parte, a morte certa, risiedono nella incapacità degli stati europei
di trovare un terreno di intesa e opporsi coesi agli stati canaglia o
scoraggiare le rotte degli scafisti con sbarramenti ai confini delle acque
territoriali dei Paesi del nord Africa e soccorrere se necessario. Eppure,
nonostante non abbia precise responsabilità, mi sento ugualmente colpevole. Mi
sento colpevole perché sono cittadino di questa Europa senza anima, perché
avverto il disagio della mia condizione di privilegiato, perché i miei neuroni
specchio mi inducono alla solidarietà nei confronti di miei simili sfortunati e
la mia inadeguatezza non riesce a tradurre in atti concreti la mia solidarietà,
perché non sono accanto ai lampedusani a soccorrere i naufraghi. Vi assicuro
che la mia non è una forma di buonismo peloso, è che mi sento veramente così e
non ci posso fare niente. Mi sento persino colpevole perché percepisco che la
mia pietà prima o poi si scolorirà nella lontananza dei ricordi.
E già la pietà, questo alibi con cui puliamo la nostra
coscienza, finisce puntualmente per anestetizzarsi a contatto con le brutalità
della vita e trasformarsi in indifferenza come ci ammoniscono gli esempi che
ricorrono frequentemente nel cosiddetto consorzio civile.
Un grigio parlamentare pentastellato, miracolato dalla sorte
e proiettato dall’anonimato alla sua alta funzione da quel demiurgo mediatico
che è la rete, ha dimostrato tutto il suo valore dando addosso al Cavaliere
ormai in ginocchio con un linguaggio spregevole in tono con il personaggio che
è, un parvenu al quale non pare vero di potere infierire sul potente in
disgrazia.
Per non parlare delle penne intinte nel curaro dei manettari
di professione che hanno costruito per vent’anni le loro carriere sulle gesta
del Cavaliere e non si rassegnano al suo declino e alla conseguente assenza di
altre frecce al loro arco. Sono a corto di argomenti e, in preda al
panico, pestano forsennatamente nel
mortaio quella poca acqua che è rimasta del mare magnum in cui hanno guazzato.
Nessun rispetto, nessuna pietà.
Il signor Renzi è un altro esempio di pietà smarrita. In
occasione della presentazione del suo programma politico ha esordito dicendosi
contrario alla proposta contenuta nel messaggio alle Camere del Capo dello Stato
di sfoltire l’affollamento nelle carcere licenziando provvedimenti di amnistia
e indulto. Il nostro sostiene che questi provvedimenti sono un autogol, si
dichiara solidale con i detenuti tanto è che si arrischia a viaggiare a bordo
di una bicicletta costruita in carcere, ma lascia intendere che un conto è
concedere l’onore delle proprie terga ad una bicicletta costruita dai detenuti,
un altro conto è concedere loro condizioni di vita umane con provvedimenti di
clemenza. Il coraggio va bene ma fino a un certo punto. Ora dovrebbe essere
chiaro al signor Renzi che l’amnistia e l’indulto non sono un regalo ai
detenuti, sono semmai la testimonianza del fallimento della nostra classe
dirigente che ha confezionato condizioni di vita inumane in carcere e non è in grado
di offrire a uomini che hanno sbagliato ma che ancora hanno la dignità di
cittadini, altre soluzioni che non siano l’amnistia e l’indulto ad un problema
così grave.
L’ amnistia e l’indulto non risolvono definitivamente il
problema ma le condizioni dei nostri detenuti non ci consentono, specie in
seguito alle procedure di infrazione inflitteci dall’Europa, di essere troppo
schizzinosi. Lo scalpitante enfant prodige del PD che ha parlato di
provvedimenti diseducativi, dovrebbe spiegarci perché è difficile “far capire
ai ragazzi il valore della legalità se ogni sette anni facciamo uscire la gente
dal carcere” ed è invece facile lasciare marcire la gente in carcere in
condizioni inumane senza porsi il problema della legalità. Forse che la
certezza della pena deve essere intesa come inflizione di torture? Dovremmo
essere più cauti con le professioni di intransigenza quando non ce le possiamo
permettere.
E’ una questione di onestà intellettuale oltre che di
pietà.
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