L’anno che ci lasciamo alle spalle si
è distinto per la disinvoltura con cui una certa nomenklatura ha
inteso il proprio ruolo. Una élite che è tale non a motivo delle
alte necessità del suo compito ma allo scopo di accaparrarsi
guarentigie cui non ha diritto, una corruzione diffusa che genera
scandali a cascata, commistioni tra i diversi organi dello Stato che
sconfinano illegittimamente da una competenza all’altra, il potere
amministrato in maniera disinvolta da oligarchi che pretendono di
gestire la cosa pubblica come fosse cosa loro, regole di condotta che
valgono per gli altri ma non per quelli che le impongono, e via
elencando, danno un quadro disarmante delle condizioni in cui
versano le nostre istituzioni. Quando la nostra classe politica fa la
ruota vantandosi della sua onestà e del suo interesse per il bene
del Paese, ci deve spiegare dove erano i suoi uomini mentre il nostro
PIL scendeva e il nostro debito pubblico saliva e chi dobbiamo
ringraziare per il desolante quadro sociale delle terre del Sud che
vede la disoccupazione al 20% (quella giovanile al 30%) con il
conseguente smarrimento delle coscienze e la tentazione di virare
verso l’illegalità, dove erano questi uomini mentre deflagravano
Mafia Capitale e Rete Ferroviaria italiana e i manigoldi che
custodivano i nostri risparmi ne facevano man bassa. Scopriamo un
mondo a rovescio in cui coloro che dovrebbero servire lo Stato, ne
abusano, in cui i bardi della lotta al malaffare sono i primi
malfattori, in cui la conventicola dei colletti bianchi traffica tra
le pieghe della pubblica amministrazione e, pur causando danni
maggiori delle grandi organizzazioni malavitose tradizionalmente
intese, al contrario di queste non paga pegno. Siamo costretti a
subire la dittatura della consorteria dei poteri forti, siano essi
una certa magistratura potente e autoreferenziale, la grande finanza,
i politici al servizio di interessi opachi, e della mafia dei grandi
boiardi annidati tra le quinte delle istituzioni, con alle spalle
coperture politiche ai massimi livelli, che si muovono a loro
piacimento senza rispondere ad alcuno tranne ai padrini che li hanno
designati ma dai quali col passare del tempo si sono affrancati
costituendo una forma di potere autonomo e illegittimo, un autentico
bubbone cancerogeno che corrode l’organismo dello Stato.
Tentacolari come la piovra evocata da Cosa Nostra, fanno il bello e
il cattivo tempo, decidono a loro piacimento e nel loro interesse,
gestiscono enormi fette di potere fuori da ogni controllo,
condizionano persino le attività del Parlamento e del Governo,
infliggono alla società un danno irreparabile, minano le basi stesse
della democrazia. Come potrà infatti la società difendersi da una
classe dirigente affetta da una sorta di polimiosite in cui gli
anticorpi si rivoltano contro la salute pubblica che dovrebbero
proteggere e che hanno il loro antidoto nell’attività di controllo
degli stessi controllati? Non c’è certezza di nulla ma, quel che è
grave, non c’è più fiducia nello Stato che ci dovrebbe dare
certezze. E il quadro si dipinge di tinte ancora più sconfortanti se
si considera che noi cittadini siamo irredimibili, la nostra opinione
pubblica, in buona parte gaglioffa e immorale, ammicca con indulgenza
alla nostra classe dirigente corrotta nella quale si riconosce e
ambisce militare e, manipolata dai rumor della solita caccia al
solito lupo, limita i confini del suo orizzonte alla mafia stracciona
e masochista che si presta ad essere l’alibi di mafiosi ben più
raffinati e pericolosi. Mentre la forbice tra il privilegio dei pochi
e l’indigenza dei molti si allarga, assistiamo, come ogni anno di
questi tempi, alla parata annuale dei sepolcri imbiancati che sfilano
per le stanze dorate del potere esibendo senza alcun pudore le
vestigia della loro superiorità non morale ma castale, recitando il
copione di fine d’anno e celebrando il consunto rito di un
messaggio alla nazione che si nutre di parole vuote e suona come uno
sberleffo al popolo “sovrano”. Mi pare di vederli mentre
inguainati nei loro gessati godono di uno status che non meritano, in
una atmosfera di sacralità. Salutiamo un anno che non rimpiangeremo,
senza speranza che il prossimo sia migliore.
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mercoledì 30 dicembre 2015
mercoledì 23 dicembre 2015
Sabrina Ciulla
E’ stata una serata magica quella vissuta qualche sera fa al
cinema King dove è andato in scena lo spettacolo di cui ognuno di noi vorrebbe
essere protagonista. Sul palco si sono alternati artisti di successo, da
Baccini a Castagna, ai Tamuna e i conduttori Anna Falchi e Sasà Taibi, tutti
offrendo della buona musica e uno spettacolo bello da gustare perché mai banale
e capace di coniugare arte e solidarietà. Per quelli della mia età poi, specie
grazie a Baccini, si è trattato di un vero e proprio amarcord che ha rimandato agli anni verdi in cui assaporavamo le canzoni che ci erano complici nei primi innocenti
flirt di allora. Abbiamo assaporato l’atmosfera dei cantautori genovesi che
hanno segnato un’epoca e una produzione irripetibile. La Falchi poi, bella come
non mai, fasciata in un vestito che ne accentuava le forme prorompenti eppure
non volgari, ci ha stupito con una classe che certe sue performances
cinematografiche avevano appannato. Una vera bella sorpresa! Tutti gli artisti
hanno assolto il loro compito come meglio non potevano e le nuove leve
siciliane hanno ben figurato dando prova di un talento che merita ben altra
attenzione della nostra solita indifferenza. Ma la vera star della serata è
stata Sabrina. E’ salita sul palco palesemente emozionata, e si può capire
visto che la sua ribalta naturale non è il palco di un teatro ma la strada dove
è impegnata assieme a un gruppo di volontari a raccogliere gli scarti della
società e a curarsene. Nonostante l’emozione la sua luce splendeva lo stesso e
ha affascinato ancora più della Falchi la platea che ha mostrato di capire, si
è commossa e le ha tributato un applauso scrosciante, da star quale è appunto,
una star della misericordia. Mi sono sorpreso a riflettere sulla banalità delle
lacrime che versiamo lamentando la sorte
avversa e mi sono sentito colpevole e inadeguato, ho confrontato il mio destino
con quella degli infelici disseminati ai margini della società e mi sono detto
che, tutto sommato, non ho il diritto di frignare per le piccole e grandi vicende, alcune anche
drammatiche, che hanno attraversato la mia vita, che tutti noi, al riparo di
una sicurezza economica che siamo riusciti ad agguantare e alienati da una
insensibilità che ha desertificato la nostra anima, abbiamo il dovere di metterci
in gioco, di sporcarci le mani e i calzari, di sottoporre a un bel lavacro la
nostra coscienza. C’è voluta questa giovane donna di trent’anni perché la mia coscienza,
la mia compagna di un tempo andata in letargo, si rifacesse viva. BUON NATALE
PS - Sabrina Ciulla opera con l’associazione di volontariato
“ANIRBAS” IN Corso Calatafimi, 166 Palermo
Indirizzo mail: associazioneanirbas@gmail.com
You Tube: associazione anirbas
Telefono: 091 42 73 45
venerdì 18 dicembre 2015
Così parlò Totò
“Andando in carcere, senza protestare
nonostante mi proclamassi innocente, ho rispettato il mio diritto di
avere fiducia nella giustizia.” E ancora: “Sul professionismo
dell’antimafia in tanti hanno costruito la propria carriera
distruggendo la vita degli altri. Non parlo dei magistrati,
beninteso.” Così parlò Totò Cuffaro all’indomani della sua
scarcerazione, confermando il suo profilo misurato e la sua fiducia
nella giustizia e nei magistrati. Ha ragione Cuffaro a mantenere
questo stile sobrio perché egli non ha bisogno di urlare la sua
rabbia, egli è entrato in carcere accompagnato dalle attenzioni di
una stampa che ne ha narrato la sofferenza in carcere, ci ha
raccontato di come offrisse la sua solidarietà ai compagni detenuti,
di come uno Stato poco misericordioso gli abbia negato il permesso di
visitare la madre malata. Un affresco toccante che ha continuato ad
essere dipinto, dopo la scarcerazione, nei resoconti dei giornali che
hanno trasmesso l’immagine accattivante e mite di un Cuffaro che,
dopo avere affrontato con fermezza la carcerazione, ha saputo gestire
la scarcerazione misurando i toni e guadagnandosi il rispetto anche
di quelli che non sono mai stati suoi sostenitori. Non ha dovuto
urlare, per lui ha parlato la sua immagine pacata che ha trovato
ampia diffusione nei mezzi di comunicazione. Ci sono invece quelli
che sono condannati ad affrontare gli incidenti della vita in
solitudine, e in solitudine devono combattere contro le ingiustizie
che si annidano persino nelle pieghe della giustizia, avendo come
sola arma la propria voce, per loro è difficile essere sobri, loro
hanno bisogno di urlare per farsi sentire. Non si possono permettere
la magnanimità di Cuffaro il quale mostra di perdonare la giustizia
che lo ha condannato da innocente proclamando per di più che
continua ad avere fiducia in essa, forte del sostegno della gente e
di un ritorno di immagine che equivale a un riscatto. Gli altri, gli
invisibili, i condannati all’anonimato, non dispongono di una
platea che fa il tifo per loro, del sostegno della società che li
spinga a risalire la china, restano sconosciuti all’opinione
pubblica, oscuri peones alla mercé della loro solitudine.
Abbandonati a se stessi, non sempre hanno la forza di sottrarsi alla
deriva di una vita predestinata e soccombono, urlando al mondo la
loro rabbia, senza potersi permettere il lusso della sobrietà. La
sofferenza per la stessa pena, come si vede, non è uguale per tutti.
domenica 13 dicembre 2015
Il nuovo Cuffaro
Qualcuno dice che non dobbiamo più chiamarlo Totò, nome
inghiottito dal primo capitolo di una
vita finita dietro le sbarre. Non ho mai conosciuto il Totò dei fasti ma
conosco bene il Cuffaro smagrito di Rebibbia, ne ravviso il volto scavato e lo
sguardo consapevole di chi ha visitato l’inferno e scoperto se stesso.
Lo
riconosco quando tributa il suo amore per i compagni e declina la fierezza
umile di una ritrovata condizione. Mi rivedo in lui quando scrive: “Scrivo e
riprendo i miei pensieri che, altrimenti, condannati a rimanere sconosciuti, si
perderebbero per sempre”, parole che echeggiano il contenuto della nota d’autore
del mio romanzo in cui scrivo: “I personaggi che incrociavo, i fatti che
attraversavano la mia vita in carcere, le emozioni per gli episodi e gli
affetti che via via mi andavano coinvolgendo, presero il sopravvento e con essi
la voglia di fissarli come a custodire un bene prezioso che sentivo di dovere
salvare………. che mettevo su carta freneticamente nel timore che qualcosa andasse
perduto…..”. In queste parole c’è l’angoscia
per la propria condizione, c’è l’ansia di aggrapparsi alla zattera della
scrittura e di ghermire i pensieri che scorrono veloci, il timore di non
riuscirci e di dover convivere col vuoto della mente, c’è il linguaggio che
accomuna nella medesima accezione tragica coloro che hanno vissuto l’esperienza
del carcere, ne descrivono la sofferenza e ne sono ambasciatori, c’è lo
strumento di chi attraverso i Cuffaro e i Mandalà comunica al mondo il proprio
dolore, c’è il resoconto della intimità ritrovata dopo l’insulto inflitto ad
essa da una vita banale, c’è il diario della libertà conquistata tra le mura
del carcere che ti fa librare oltre le sbarre, c’è la scelta che ti fa
imboccare la via della resurrezione quando devi decidere se vivere o morire.
Lo immagino Cuffaro mentre, a contatto con
l’inferno dei primi giorni, decide di resistere e di combattere e volare alto
verso vette mai prima raggiunte. Al nuovo Cuffaro che esce dal carcere auguro
di possedere gli anticorpi necessari ad affrontare il ritorno al mondo civile.
giovedì 10 dicembre 2015
Becero, perché no?
A conclusione del talk show “Virus”
di qualche sera fa, il fisico Carlo Rovelli, ospite della
trasmissione, ha dato a Porro del becero per il taglio, a suo avviso
scorretto, dato dal conduttore alla trasmissione. Porro ha risposto
da par suo ma a me non è bastato. Debbo dirlo senza perifrasi, sono
incazzato contro la tendenza al politicamente corretto che assolve
l’Islam dalle sue colpe e considera i musulmani vittime
dell’Occidente. L’Occidente ha commesso i suoi errori ma i
musulmani sono vittime soprattutto di se stessi tanto è che la
mattanza maggiore è quella che si scambiano i Sunniti e gli Sciiti,
e dare del becero con la pretesa che bisogna porsi col cappello in
mano nei confronti dell’Islam, è un modo fuorviante di affrontare
il problema. Un conto è il dialogo, un altro conto è cospargerci il
capo di cenere e andare a Canossa autoaccusandoci di errori che sono
solo frutto dei nostri complessi di colpa e inducendo i nostri amici
musulmani a equivocare sulle nostre debolezze. Se scegliere Voltaire
rispetto all’oscurantismo, non accettare la religione di conquista
che pretende di possedere una sua superiorità rispetto ad altre
confessioni religiose e guarda con disprezzo alle altrui fedi, non
accettare che la religione si mischi alla politica e il culto alla
vita civile generando forme di teocrazia e dunque che la religione
sia istituzionalizzata e imposta ad un’intera società come avviene
in alcuni Stati arabi, non accettare che la professione di fede si
trasformi in consegna della propria anima a odiose derive religiose,
significa essere becero, ebbene io mi dichiaro becero. Discutendo con
amici liberal, mi sono sentito rimproverare affettuosamente per avere
espresso questo mio punto di vista. Mi hanno contestato che esiste un
islamismo fatto di persone normalissime ( ci mancherebbe altro ), di
amici con cui si possono intrattenere rapporti civilissimi e di cui
ci si può fidare come e più di altri amici di fede diversa. Mi
hanno parlato di professionisti, di artigiani, di giovani e meno
giovani con cui condividono piacevoli serate, parlando del più e del
meno senza che mai faccia velo la diversità di fede e con un
approccio tollerante dell’uno nei confronti dell’altro. E’
vero, io stesso conosco queste persone degnissime e già parlarne
come se fossero una eccezione che stupisce, le offende. Però, c’è
un però. C’è che quando, dialogando con i miei amici musulmani,
sento elogiare la normalità del Corano nelle parti in cui esso
recita che le punizioni corporali sono inflitte solo a chi crea
scompiglio ad una comunità regolata dalla legge di Dio, in cui
recita che l’apostata deve vivere in privato la sua nuova fede per
evitare di sconvolgere l’ordinamento nazionale, in cui recita che
la proibizione della musica serve ad evitare distrazioni dallo studio
del Corano e deviazioni da comportamenti equilibrati, realizzo con
preoccupazione che il mondo musulmano ruota esclusivamente attorno
alla dimensione religiosa al cui dogma è sottomessa la coscienza
dell’individuo (e sennò si rischia addirittura di “sconvolgere
l’ordinamento nazionale”), e mi cadono le braccia se tutto ciò è
ritenuto normale da persone di cui non si può sospettare nulla che
non sia ragionevole e che ti appaiono come normalissimi amici della
porta accanto. Proprio questi amici di cui ammiriamo lo spiccato
senso civico, la pacatezza delle argomentazioni e i costumi comuni a
qualsiasi cittadino europeo, trovano normale rinunciare alla propria
identità e alla propria libertà di pensiero. In un clima simile
può accadere che giovani fermi nella convinzione di possedere la
verità definitiva, infettati dal virus della follia jihadista,
strumentalizzati e mandati al massacro da chi ha un progetto
politico ben chiaro, decidano di punire gli infedeli o i non
ortodossi e di condurre la loro guerra santa soprattutto al loro
interno ( tra Sciiti e Sunniti ) ma anche fuori dai loro confini, nei
confronti dei cristiani imbelli che disprezzano. E’ allora che
l’amico della porta accanto diventa il nemico della porta accanto.
Quante volte ci siamo chiesti come sia potuto accadere che persone
che non avremmo mai sospettato si siano trasformate in mostri? E’
un fatto che, come ha scritto Oriana Fallaci citando il saudita Abel
Rahman al Rashed, non tutti gli islamici sono terroristi ma tutti i
terroristi sono islamici. Ci sarà un motivo. Il motivo è che nella
loro storia ai nostri amici musulmani è mancato un passaggio
fondamentale della loro formazione, sono mancati i valori
dell’Illuminismo che duecento anni fa hanno dato all’individuo
la coscienza di sé e dei propri diritti fondamentali, e che questi
nostri amici scontano un ritardo di duecento anni. Questo non ci
autorizza a delirare straparlando di guerre di religione e di
imbecilli pretese di noi occidentali di esportare la democrazia,
proprio noi che abbiamo da farci perdonare le coglionate che abbiamo
fatto nel corso dei secoli proprio nei confronti dell’Islam e
continuiamo a fare ancora ai giorni nostri in nome del petrolio
(riforniamo l’Isis persino di armi!). Ma non ci autorizza neanche a
rifugiarci in un buonismo che serve a esorcizzare i nostri sensi di
colpa e perde di vista la vera natura del problema consegnandoci ad
un masochismo velleitario e carico di conseguenze suicide. Dobbiamo
combattere la nostra battaglia in difesa della nostra civiltà con
approccio laico, senza autoassoluzioni ma anche senza arrenderci alle
colpe degli altri, e dobbiamo combatterla con a fianco gli amici
musulmani della porta accanto che hanno a cuore i diritti che si sono
conquistati assieme a noi, che debbono avere un ruolo fondamentale
nel disinnescare senza esitazioni e manifestazioni di vittimismo
peloso (lamentano le difficoltà di trovare spazi al loro credo in un
Occidente che invece è tollerante e che anzi a volte si abbandona a
forme di piaggeria servile, mentre invece negli Stati islamici i
cristiani sono perseguitati) l’integralismo dei loro correligionari
e debbono dialogare con noi per costruire un avvenire fatto di
confronto civile anziché di conflitto sanguinoso.
venerdì 4 dicembre 2015
A volte ritornano
Mentre il web in Sicilia tace il dr.
Ingroia esterna. Egli in alcune recenti interviste ha espresso il suo
rammarico per come andavano le cose nel mondo giudiziario quando
anche egli ne faceva parte e ancora adesso dopo che se ne è
allontanato. Ecco alcune parti delle dichiarazioni contenute in una
intervista rilasciata a “Il fatto quotidiano”: “L’eccesso di
attenzione mediatica alla fine ti storpia la vita… essere un
personaggio aumenta l’autostima. Fa piacere è anche umano. Ma
senza volerlo vieni trascinato a trasformarti in oggetto invece di
resistere come soggetto, a rischiare di essere dominato dalla scena
invece che dominarla”. E ancora: ”Oggi che sono avvocato noto ciò
che ieri non vedevo e cioè che sono germogliati troppi ideologi
dell’opportunismo a volte compartecipi di una notorietà e di un
potere che produce per loro utili ingiustificabili……, che si
offrono scalpi all’opinione pubblica, vittime sacrificali in
ragione di un’approssimazione colpevole….”. Alla buon’ora,
il dottore Ingroia è stato finalmente folgorato sulla via di Damasco
e ha ammesso che degli imputati in genere, e di certi imputati in
particolare, si è abusato. Come egli stesso afferma, la
spettacolarizzazione e, aggiungiamo noi, la lunghezza dei processi,
la gogna che anticipa la pena e la fa pagare in anticipo nelle forme
di pubblico disprezzo, la stessa pena certa tanto quanto è
approssimativa la colpevolezza, fagocitano la vita dei presunti rei e
la risputano in forma di poltiglia buona per le porcilaie. Sono le
patologie di una giustizia malata e fa piacere leggere che il dr.
Ingroia se ne sia reso conto e ne soffra sinceramente. Ma ci sorge un
dubbio quando leggiamo un’altra sua esternazione: “Non difenderò
mai mafiosi e corrotti!”. Evidentemente le incrostazioni del suo
essere stato Pubblico Ministero con gli eccessi che rimprovera ai
suoi ex colleghi, hanno lasciato il segno. Probabilmente gli riesce
difficile rassegnarsi all’idea che egli è ormai solo un avvocato e
come tale non può discriminare gli imputati secondo i suoi gusti
perché tutti gli imputati, per gravi che siano le loro imputazioni,
hanno diritto ad essere difesi. E’ un fatto di civiltà giuridica e
di deontologia. Purtroppo, nonostante egli abbia dichiarato: ”La
mia vita è una seconda vita nella quale metto a frutto gli errori
della prima.”, nonostante ormai avvocato e non più Pubblico
Ministero, continua a coltivare il malvezzo di considerare gli
imputati colpevoli più per la loro reputazione che per le loro
responsabilità, e si presta a “offrire scalpi all’opinione
pubblica” anticipando le sentenze di condanna fuori dall’aula di
un tribunale. Comprendiamo il suo desiderio di riguadagnare il centro
della scena, meno la sua concezione in materia di garanzie
fondamentali.
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