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mercoledì 30 dicembre 2015

Dei corrotti, dei corruttori e dei mafiosi

L’anno che ci lasciamo alle spalle si è distinto per la disinvoltura con cui una certa nomenklatura ha inteso il proprio ruolo. Una élite che è tale non a motivo delle alte necessità del suo compito ma allo scopo di accaparrarsi guarentigie cui non ha diritto, una corruzione diffusa che genera scandali a cascata, commistioni tra i diversi organi dello Stato che sconfinano illegittimamente da una competenza all’altra, il potere amministrato in maniera disinvolta da oligarchi che pretendono di gestire la cosa pubblica come fosse cosa loro, regole di condotta che valgono per gli altri ma non per quelli che le impongono, e via elencando, danno un quadro disarmante delle condizioni in cui versano le nostre istituzioni. Quando la nostra classe politica fa la ruota vantandosi della sua onestà e del suo interesse per il bene del Paese, ci deve spiegare dove erano i suoi uomini mentre il nostro PIL scendeva e il nostro debito pubblico saliva e chi dobbiamo ringraziare per il desolante quadro sociale delle terre del Sud che vede la disoccupazione al 20% (quella giovanile al 30%) con il conseguente smarrimento delle coscienze e la tentazione di virare verso l’illegalità, dove erano questi uomini mentre deflagravano Mafia Capitale e Rete Ferroviaria italiana e i manigoldi che custodivano i nostri risparmi ne facevano man bassa. Scopriamo un mondo a rovescio in cui coloro che dovrebbero servire lo Stato, ne abusano, in cui i bardi della lotta al malaffare sono i primi malfattori, in cui la conventicola dei colletti bianchi traffica tra le pieghe della pubblica amministrazione e, pur causando danni maggiori delle grandi organizzazioni malavitose tradizionalmente intese, al contrario di queste non paga pegno. Siamo costretti a subire la dittatura della consorteria dei poteri forti, siano essi una certa magistratura potente e autoreferenziale, la grande finanza, i politici al servizio di interessi opachi, e della mafia dei grandi boiardi annidati tra le quinte delle istituzioni, con alle spalle coperture politiche ai massimi livelli, che si muovono a loro piacimento senza rispondere ad alcuno tranne ai padrini che li hanno designati ma dai quali col passare del tempo si sono affrancati costituendo una forma di potere autonomo e illegittimo, un autentico bubbone cancerogeno che corrode l’organismo dello Stato. Tentacolari come la piovra evocata da Cosa Nostra, fanno il bello e il cattivo tempo, decidono a loro piacimento e nel loro interesse, gestiscono enormi fette di potere fuori da ogni controllo, condizionano persino le attività del Parlamento e del Governo, infliggono alla società un danno irreparabile, minano le basi stesse della democrazia. Come potrà infatti la società difendersi da una classe dirigente affetta da una sorta di polimiosite in cui gli anticorpi si rivoltano contro la salute pubblica che dovrebbero proteggere e che hanno il loro antidoto nell’attività di controllo degli stessi controllati? Non c’è certezza di nulla ma, quel che è grave, non c’è più fiducia nello Stato che ci dovrebbe dare certezze. E il quadro si dipinge di tinte ancora più sconfortanti se si considera che noi cittadini siamo irredimibili, la nostra opinione pubblica, in buona parte gaglioffa e immorale, ammicca con indulgenza alla nostra classe dirigente corrotta nella quale si riconosce e ambisce militare e, manipolata dai rumor della solita caccia al solito lupo, limita i confini del suo orizzonte alla mafia stracciona e masochista che si presta ad essere l’alibi di mafiosi ben più raffinati e pericolosi. Mentre la forbice tra il privilegio dei pochi e l’indigenza dei molti si allarga, assistiamo, come ogni anno di questi tempi, alla parata annuale dei sepolcri imbiancati che sfilano per le stanze dorate del potere esibendo senza alcun pudore le vestigia della loro superiorità non morale ma castale, recitando il copione di fine d’anno e celebrando il consunto rito di un messaggio alla nazione che si nutre di parole vuote e suona come uno sberleffo al popolo “sovrano”. Mi pare di vederli mentre inguainati nei loro gessati godono di uno status che non meritano, in una atmosfera di sacralità. Salutiamo un anno che non rimpiangeremo, senza speranza che il prossimo sia migliore.




mercoledì 23 dicembre 2015

Sabrina Ciulla


E’ stata una serata magica quella vissuta qualche sera fa al cinema King dove è andato in scena lo spettacolo di cui ognuno di noi vorrebbe essere protagonista. Sul palco si sono alternati artisti di successo, da Baccini a Castagna, ai Tamuna e i conduttori Anna Falchi e Sasà Taibi, tutti offrendo della buona musica e uno spettacolo bello da gustare perché mai banale e capace di coniugare arte e solidarietà. Per quelli della mia età poi, specie grazie a Baccini, si è trattato di un vero e proprio amarcord che  ha rimandato agli anni verdi in cui  assaporavamo le  canzoni che ci erano complici nei primi innocenti flirt di allora. Abbiamo assaporato l’atmosfera dei cantautori genovesi che hanno segnato un’epoca e una produzione irripetibile. La Falchi poi, bella come non mai, fasciata in un vestito che ne accentuava le forme prorompenti eppure non volgari, ci ha stupito con una classe che certe sue performances cinematografiche avevano appannato. Una vera bella sorpresa! Tutti gli artisti hanno assolto il loro compito come meglio non potevano e le nuove leve siciliane hanno ben figurato dando prova di un talento che merita ben altra attenzione della nostra solita indifferenza. Ma la vera star della serata è stata Sabrina. E’ salita sul palco palesemente emozionata, e si può capire visto che la sua ribalta naturale non è il palco di un teatro ma la strada dove è impegnata assieme a un gruppo di volontari a raccogliere gli scarti della società e a curarsene. Nonostante l’emozione la sua luce splendeva lo stesso e ha affascinato ancora più della Falchi la platea che ha mostrato di capire, si è commossa e le ha tributato un applauso scrosciante, da star quale è appunto, una star della misericordia. Mi sono sorpreso a riflettere sulla banalità delle lacrime che versiamo lamentando la  sorte avversa e mi sono sentito colpevole e inadeguato, ho confrontato il mio destino con quella degli infelici disseminati ai margini della società e mi sono detto che, tutto sommato, non ho il diritto di frignare per le  piccole e grandi vicende, alcune anche drammatiche, che hanno attraversato la mia vita, che tutti noi, al riparo di una sicurezza economica che siamo riusciti ad agguantare e alienati da una insensibilità che ha desertificato la nostra anima, abbiamo il dovere di metterci in gioco, di sporcarci le mani e i calzari, di sottoporre a un bel lavacro la nostra coscienza. C’è voluta questa giovane donna di trent’anni perché la mia coscienza, la mia compagna di un tempo andata in letargo, si rifacesse viva.  BUON NATALE

PS - Sabrina Ciulla opera con l’associazione di volontariato “ANIRBAS” IN Corso Calatafimi, 166 Palermo
You Tube: associazione anirbas
Telefono: 091 42 73 45

venerdì 18 dicembre 2015

Così parlò Totò

“Andando in carcere, senza protestare nonostante mi proclamassi innocente, ho rispettato il mio diritto di avere fiducia nella giustizia.” E ancora: “Sul professionismo dell’antimafia in tanti hanno costruito la propria carriera distruggendo la vita degli altri. Non parlo dei magistrati, beninteso.” Così parlò Totò Cuffaro all’indomani della sua scarcerazione, confermando il suo profilo misurato e la sua fiducia nella giustizia e nei magistrati. Ha ragione Cuffaro a mantenere questo stile sobrio perché egli non ha bisogno di urlare la sua rabbia, egli è entrato in carcere accompagnato dalle attenzioni di una stampa che ne ha narrato la sofferenza in carcere, ci ha raccontato di come offrisse la sua solidarietà ai compagni detenuti, di come uno Stato poco misericordioso gli abbia negato il permesso di visitare la madre malata. Un affresco toccante che ha continuato ad essere dipinto, dopo la scarcerazione, nei resoconti dei giornali che hanno trasmesso l’immagine accattivante e mite di un Cuffaro che, dopo avere affrontato con fermezza la carcerazione, ha saputo gestire la scarcerazione misurando i toni e guadagnandosi il rispetto anche di quelli che non sono mai stati suoi sostenitori. Non ha dovuto urlare, per lui ha parlato la sua immagine pacata che ha trovato ampia diffusione nei mezzi di comunicazione. Ci sono invece quelli che sono condannati ad affrontare gli incidenti della vita in solitudine, e in solitudine devono combattere contro le ingiustizie che si annidano persino nelle pieghe della giustizia, avendo come sola arma la propria voce, per loro è difficile essere sobri, loro hanno bisogno di urlare per farsi sentire. Non si possono permettere la magnanimità di Cuffaro il quale mostra di perdonare la giustizia che lo ha condannato da innocente proclamando per di più che continua ad avere fiducia in essa, forte del sostegno della gente e di un ritorno di immagine che equivale a un riscatto. Gli altri, gli invisibili, i condannati all’anonimato, non dispongono di una platea che fa il tifo per loro, del sostegno della società che li spinga a risalire la china, restano sconosciuti all’opinione pubblica, oscuri peones alla mercé della loro solitudine. Abbandonati a se stessi, non sempre hanno la forza di sottrarsi alla deriva di una vita predestinata e soccombono, urlando al mondo la loro rabbia, senza potersi permettere il lusso della sobrietà. La sofferenza per la stessa pena, come si vede, non è uguale per tutti.

domenica 13 dicembre 2015

Il nuovo Cuffaro


Qualcuno dice che non dobbiamo più chiamarlo Totò, nome inghiottito dal primo capitolo  di una vita finita dietro le sbarre. Non ho mai conosciuto il Totò dei fasti ma conosco bene il Cuffaro smagrito di Rebibbia, ne ravviso il volto scavato e lo sguardo consapevole di chi ha visitato l’inferno e scoperto se stesso. 
Lo riconosco quando tributa il suo amore per i compagni e declina la fierezza umile di una ritrovata condizione. Mi rivedo in lui quando scrive: “Scrivo e riprendo i miei pensieri che, altrimenti, condannati a rimanere sconosciuti, si perderebbero per sempre”, parole che echeggiano il contenuto della nota d’autore del mio romanzo in cui scrivo: “I personaggi che incrociavo, i fatti che attraversavano la mia vita in carcere, le emozioni per gli episodi e gli affetti che via via mi andavano coinvolgendo, presero il sopravvento e con essi la voglia di fissarli come a custodire un bene prezioso che sentivo di dovere salvare………. che mettevo su carta freneticamente nel timore che qualcosa andasse perduto…..”. In queste parole c’è l’angoscia per la propria condizione, c’è l’ansia di aggrapparsi alla zattera della scrittura e di ghermire i pensieri che scorrono veloci, il timore di non riuscirci e di dover convivere col vuoto della mente, c’è il linguaggio che accomuna nella medesima accezione tragica coloro che hanno vissuto l’esperienza del carcere, ne descrivono la sofferenza e ne sono ambasciatori, c’è lo strumento di chi attraverso i Cuffaro e i Mandalà comunica al mondo il proprio dolore, c’è il resoconto della intimità ritrovata dopo l’insulto inflitto ad essa da una vita banale, c’è il diario della libertà conquistata tra le mura del carcere che ti fa librare oltre le sbarre, c’è la scelta che ti fa imboccare la via della resurrezione quando devi decidere se vivere o morire.  
 Lo immagino Cuffaro mentre, a contatto con l’inferno dei primi giorni, decide di resistere e di combattere e volare alto verso vette mai prima raggiunte. Al nuovo Cuffaro che esce dal carcere auguro di possedere gli anticorpi necessari ad affrontare il ritorno al mondo civile.

giovedì 10 dicembre 2015

Becero, perché no?

A conclusione del talk show “Virus” di qualche sera fa, il fisico Carlo Rovelli, ospite della trasmissione, ha dato a Porro del becero per il taglio, a suo avviso scorretto, dato dal conduttore alla trasmissione. Porro ha risposto da par suo ma a me non è bastato. Debbo dirlo senza perifrasi, sono incazzato contro la tendenza al politicamente corretto che assolve l’Islam dalle sue colpe e considera i musulmani vittime dell’Occidente. L’Occidente ha commesso i suoi errori ma i musulmani sono vittime soprattutto di se stessi tanto è che la mattanza maggiore è quella che si scambiano i Sunniti e gli Sciiti, e dare del becero con la pretesa che bisogna porsi col cappello in mano nei confronti dell’Islam, è un modo fuorviante di affrontare il problema. Un conto è il dialogo, un altro conto è cospargerci il capo di cenere e andare a Canossa autoaccusandoci di errori che sono solo frutto dei nostri complessi di colpa e inducendo i nostri amici musulmani a equivocare sulle nostre debolezze. Se scegliere Voltaire rispetto all’oscurantismo, non accettare la religione di conquista che pretende di possedere una sua superiorità rispetto ad altre confessioni religiose e guarda con disprezzo alle altrui fedi, non accettare che la religione si mischi alla politica e il culto alla vita civile generando forme di teocrazia e dunque che la religione sia istituzionalizzata e imposta ad un’intera società come avviene in alcuni Stati arabi, non accettare che la professione di fede si trasformi in consegna della propria anima a odiose derive religiose, significa essere becero, ebbene io mi dichiaro becero. Discutendo con amici liberal, mi sono sentito rimproverare affettuosamente per avere espresso questo mio punto di vista. Mi hanno contestato che esiste un islamismo fatto di persone normalissime ( ci mancherebbe altro ), di amici con cui si possono intrattenere rapporti civilissimi e di cui ci si può fidare come e più di altri amici di fede diversa. Mi hanno parlato di professionisti, di artigiani, di giovani e meno giovani con cui condividono piacevoli serate, parlando del più e del meno senza che mai faccia velo la diversità di fede e con un approccio tollerante dell’uno nei confronti dell’altro. E’ vero, io stesso conosco queste persone degnissime e già parlarne come se fossero una eccezione che stupisce, le offende. Però, c’è un però. C’è che quando, dialogando con i miei amici musulmani, sento elogiare la normalità del Corano nelle parti in cui esso recita che le punizioni corporali sono inflitte solo a chi crea scompiglio ad una comunità regolata dalla legge di Dio, in cui recita che l’apostata deve vivere in privato la sua nuova fede per evitare di sconvolgere l’ordinamento nazionale, in cui recita che la proibizione della musica serve ad evitare distrazioni dallo studio del Corano e deviazioni da comportamenti equilibrati, realizzo con preoccupazione che il mondo musulmano ruota esclusivamente attorno alla dimensione religiosa al cui dogma è sottomessa la coscienza dell’individuo (e sennò si rischia addirittura di “sconvolgere l’ordinamento nazionale”), e mi cadono le braccia se tutto ciò è ritenuto normale da persone di cui non si può sospettare nulla che non sia ragionevole e che ti appaiono come normalissimi amici della porta accanto. Proprio questi amici di cui ammiriamo lo spiccato senso civico, la pacatezza delle argomentazioni e i costumi comuni a qualsiasi cittadino europeo, trovano normale rinunciare alla propria identità e alla propria libertà di pensiero. In un clima simile può accadere che giovani fermi nella convinzione di possedere la verità definitiva, infettati dal virus della follia jihadista, strumentalizzati e mandati al massacro da chi ha un progetto politico ben chiaro, decidano di punire gli infedeli o i non ortodossi e di condurre la loro guerra santa soprattutto al loro interno ( tra Sciiti e Sunniti ) ma anche fuori dai loro confini, nei confronti dei cristiani imbelli che disprezzano. E’ allora che l’amico della porta accanto diventa il nemico della porta accanto. Quante volte ci siamo chiesti come sia potuto accadere che persone che non avremmo mai sospettato si siano trasformate in mostri? E’ un fatto che, come ha scritto Oriana Fallaci citando il saudita Abel Rahman al Rashed, non tutti gli islamici sono terroristi ma tutti i terroristi sono islamici. Ci sarà un motivo. Il motivo è che nella loro storia ai nostri amici musulmani è mancato un passaggio fondamentale della loro formazione, sono mancati i valori dell’Illuminismo che duecento anni fa hanno dato all’individuo la coscienza di sé e dei propri diritti fondamentali, e che questi nostri amici scontano un ritardo di duecento anni. Questo non ci autorizza a delirare straparlando di guerre di religione e di imbecilli pretese di noi occidentali di esportare la democrazia, proprio noi che abbiamo da farci perdonare le coglionate che abbiamo fatto nel corso dei secoli proprio nei confronti dell’Islam e continuiamo a fare ancora ai giorni nostri in nome del petrolio (riforniamo l’Isis persino di armi!). Ma non ci autorizza neanche a rifugiarci in un buonismo che serve a esorcizzare i nostri sensi di colpa e perde di vista la vera natura del problema consegnandoci ad un masochismo velleitario e carico di conseguenze suicide. Dobbiamo combattere la nostra battaglia in difesa della nostra civiltà con approccio laico, senza autoassoluzioni ma anche senza arrenderci alle colpe degli altri, e dobbiamo combatterla con a fianco gli amici musulmani della porta accanto che hanno a cuore i diritti che si sono conquistati assieme a noi, che debbono avere un ruolo fondamentale nel disinnescare senza esitazioni e manifestazioni di vittimismo peloso (lamentano le difficoltà di trovare spazi al loro credo in un Occidente che invece è tollerante e che anzi a volte si abbandona a forme di piaggeria servile, mentre invece negli Stati islamici i cristiani sono perseguitati) l’integralismo dei loro correligionari e debbono dialogare con noi per costruire un avvenire fatto di confronto civile anziché di conflitto sanguinoso.

venerdì 4 dicembre 2015

A volte ritornano

Mentre il web in Sicilia tace il dr. Ingroia esterna. Egli in alcune recenti interviste ha espresso il suo rammarico per come andavano le cose nel mondo giudiziario quando anche egli ne faceva parte e ancora adesso dopo che se ne è allontanato. Ecco alcune parti delle dichiarazioni contenute in una intervista rilasciata a “Il fatto quotidiano”: “L’eccesso di attenzione mediatica alla fine ti storpia la vita… essere un personaggio aumenta l’autostima. Fa piacere è anche umano. Ma senza volerlo vieni trascinato a trasformarti in oggetto invece di resistere come soggetto, a rischiare di essere dominato dalla scena invece che dominarla”. E ancora: ”Oggi che sono avvocato noto ciò che ieri non vedevo e cioè che sono germogliati troppi ideologi dell’opportunismo a volte compartecipi di una notorietà e di un potere che produce per loro utili ingiustificabili……, che si offrono scalpi all’opinione pubblica, vittime sacrificali in ragione di un’approssimazione colpevole….”. Alla buon’ora, il dottore Ingroia è stato finalmente folgorato sulla via di Damasco e ha ammesso che degli imputati in genere, e di certi imputati in particolare, si è abusato. Come egli stesso afferma, la spettacolarizzazione e, aggiungiamo noi, la lunghezza dei processi, la gogna che anticipa la pena e la fa pagare in anticipo nelle forme di pubblico disprezzo, la stessa pena certa tanto quanto è approssimativa la colpevolezza, fagocitano la vita dei presunti rei e la risputano in forma di poltiglia buona per le porcilaie. Sono le patologie di una giustizia malata e fa piacere leggere che il dr. Ingroia se ne sia reso conto e ne soffra sinceramente. Ma ci sorge un dubbio quando leggiamo un’altra sua esternazione: “Non difenderò mai mafiosi e corrotti!”. Evidentemente le incrostazioni del suo essere stato Pubblico Ministero con gli eccessi che rimprovera ai suoi ex colleghi, hanno lasciato il segno. Probabilmente gli riesce difficile rassegnarsi all’idea che egli è ormai solo un avvocato e come tale non può discriminare gli imputati secondo i suoi gusti perché tutti gli imputati, per gravi che siano le loro imputazioni, hanno diritto ad essere difesi. E’ un fatto di civiltà giuridica e di deontologia. Purtroppo, nonostante egli abbia dichiarato: ”La mia vita è una seconda vita nella quale metto a frutto gli errori della prima.”, nonostante ormai avvocato e non più Pubblico Ministero, continua a coltivare il malvezzo di considerare gli imputati colpevoli più per la loro reputazione che per le loro responsabilità, e si presta a “offrire scalpi all’opinione pubblica” anticipando le sentenze di condanna fuori dall’aula di un tribunale. Comprendiamo il suo desiderio di riguadagnare il centro della scena, meno la sua concezione in materia di garanzie fondamentali.