Pauperismo
In un articolo a firma di un giornalista di cui non ricordo
il nome ho letto che sono “colto, benestante, mafioso”. Sulla mia mafiosità non
mi pronuncio, attendo che sia la
Cassazione a farlo dopo 15 anni di processo.
Per il resto non ho dubbi, non sono né colto né benestante.
Senza bisogno di scimmiottare Socrate, chi ha un minimo di
onestà intellettuale sa che ce ne vuole prima di parlare di cultura e per
quanto mi riguarda, dopo tanto leggere, sono arrivato alla sconfortante
conclusione che la cultura è un pozzo senza fondo al quale non si finisce mai
di attingere. Quindi piano, caro il mio giornalista, con le affermazioni
impegnative.
L’altra cosa di cui sono certo è che non sono benestante,
anzi sono povero. Non lo dico con l’ astio di chi rinfaccia alla società la
propria indigenza o con lo studiato distacco di chi la esibisce con noncuranza,
vi assicuro che preferirei essere ricco piuttosto che lamentarmi o assumere
atteggiamenti sussiegosi. Ripeto, sono povero e questa mia condizione mi pesa
perché mi impedisce di fare tante cose che mi piacerebbe fare, ma soprattutto
avvilisce il mio amor proprio. A chi si stupisce di questa mia esternazione,
voglio chiarire che non mi sono svegliato improvvisamente con l’angoscia della
mia povertà, ad essa mi sono abituato ormai da tempo, il fatto è che ho letto
del suicidio di due coniugi che non hanno retto alla loro povertà e ho
riflettuto su quante volte ho convissuto con il problema di mettere d’accordo
il pranzo con la cena e quante volte la mia mente è stata attraversata da
insani propositi. Pensate forse che tanti pensionati diventati poveri non
vivano quotidianamente nel ricordo del loro vissuto dignitoso tramutatosi
improvvisamente in un inferno popolato dai demoni delle loro necessità senza
soluzione, e non abbiano pensato di farla finita? State certi che in ciascuno
di essi la disperazione ha rischiato di essere cattiva consigliera. Grazie a
Dio prevale l’istinto di conservazione, la forza d’animo che non la da vinta
allo scoramento, la viltà che impedisce l’attuazione del gesto estremo, il
rispetto nei confronti dei familiari, la fede e soprattutto la possibilità di
trovare una soluzione pur che sia anche rinunciando al proprio orgoglio. Ci
sono i figli, c’è la Caritas ,
ci sono le collanine e gli orologi liquidati per pochi spiccioli, qualche
lavoretto che non ci saremmo mai sognati di fare, insomma quegli ammortizzatori
che la buona sorte e il nostro ingegno ci mette a disposizione. Non vi dico a
cosa ricorro io perché non voglio
assecondare il voyeurismo morboso di chi sbava sulle disgrazie altrui, ma debbo
confessare che la mia condizione di povero ha dato una spallata alla mia fede
di cattolico. Sulle pagine del Corriere della Sera di questi giorni il gesuita
padre Gabriele Semino e il laico Piero Ostellino si sono confrontati a
proposito del pauperismo e dell’impazzare dell’elogio della povertà in ossequio
alle modalità pastorali inaugurate dal nuovo Pontefice. Sono emersi i due
diversi approcci del cristianesimo nei confronti della vita, quello cattolico
che fa della povertà il passaporto per la conquista della consolazione
nell’aldilà, e quello protestante che incoraggia la ricchezza in quanto segno
della benevolenza divina. Un bel rompicapo che fa vacillare la mia fede e mi fa
chiedere a Dio il perché della gratuita crudeltà di una vita la cui fine
percepisco più come un sollievo che come la porta d’ingresso verso la
consolazione dell’aldilà.
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