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domenica 7 aprile 2013


Pauperismo

In un articolo a firma di un giornalista di cui non ricordo il nome ho letto che sono “colto, benestante, mafioso”. Sulla mia mafiosità non mi pronuncio, attendo che sia la Cassazione a farlo dopo 15 anni di processo.
Per il resto non ho dubbi, non sono né colto né benestante.
Senza bisogno di scimmiottare Socrate, chi ha un minimo di onestà intellettuale sa che ce ne vuole prima di parlare di cultura e per quanto mi riguarda, dopo tanto leggere, sono arrivato alla sconfortante conclusione che la cultura è un pozzo senza fondo al quale non si finisce mai di attingere. Quindi piano, caro il mio giornalista, con le affermazioni impegnative.
L’altra cosa di cui sono certo è che non sono benestante, anzi sono povero. Non lo dico con l’ astio di chi rinfaccia alla società la propria indigenza o con lo studiato distacco di chi la esibisce con noncuranza, vi assicuro che preferirei essere ricco piuttosto che lamentarmi o assumere atteggiamenti sussiegosi. Ripeto, sono povero e questa mia condizione mi pesa perché mi impedisce di fare tante cose che mi piacerebbe fare, ma soprattutto avvilisce il mio amor proprio. A chi si stupisce di questa mia esternazione, voglio chiarire che non mi sono svegliato improvvisamente con l’angoscia della mia povertà, ad essa mi sono abituato ormai da tempo, il fatto è che ho letto del suicidio di due coniugi che non hanno retto alla loro povertà e ho riflettuto su quante volte ho convissuto con il problema di mettere d’accordo il pranzo con la cena e quante volte la mia mente è stata attraversata da insani propositi. Pensate forse che tanti pensionati diventati poveri non vivano quotidianamente nel ricordo del loro vissuto dignitoso tramutatosi improvvisamente in un inferno popolato dai demoni delle loro necessità senza soluzione, e non abbiano pensato di farla finita? State certi che in ciascuno di essi la disperazione ha rischiato di essere cattiva consigliera. Grazie a Dio prevale l’istinto di conservazione, la forza d’animo che non la da vinta allo scoramento, la viltà che impedisce l’attuazione del gesto estremo, il rispetto nei confronti dei familiari, la fede e soprattutto la possibilità di trovare una soluzione pur che sia anche rinunciando al proprio orgoglio. Ci sono i figli, c’è la Caritas, ci sono le collanine e gli orologi liquidati per pochi spiccioli, qualche lavoretto che non ci saremmo mai sognati di fare, insomma quegli ammortizzatori che la buona sorte e il nostro ingegno ci mette a disposizione. Non vi dico a cosa ricorro io perché  non voglio assecondare il voyeurismo morboso di chi sbava sulle disgrazie altrui, ma debbo confessare che la mia condizione di povero ha dato una spallata alla mia fede di cattolico. Sulle pagine del Corriere della Sera di questi giorni il gesuita padre Gabriele Semino e il laico Piero Ostellino si sono confrontati a proposito del pauperismo e dell’impazzare dell’elogio della povertà in ossequio alle modalità pastorali inaugurate dal nuovo Pontefice. Sono emersi i due diversi approcci del cristianesimo nei confronti della vita, quello cattolico che fa della povertà il passaporto per la conquista della consolazione nell’aldilà, e quello protestante che incoraggia la ricchezza in quanto segno della benevolenza divina. Un bel rompicapo che fa vacillare la mia fede e mi fa chiedere a Dio il perché della gratuita crudeltà di una vita la cui fine percepisco più come un sollievo che come la porta d’ingresso verso la consolazione dell’aldilà. 

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