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lunedì 4 luglio 2011

Il garantismo in Italia

Siamo alla solita sceneggiata delle prefiche che si strappano le vesti perché in Italia la difesa nei processi penali non ha le stesse garanzie dell’accusa. E’ la scoperta dell’acqua calda strillata con candore ipocrita da quanti, facendo il paragone con l’amministrazione della giustizia negli USA in occasione della vicenda Strauss-Kahn, lamentano che da noi, al contrario che negli Stati Uniti, i diritti della difesa non sono adeguatamente tutelati. Negli Stati Uniti, esattamente come succede in Italia, Strauss-Kahn è stato sottoposto ad un gogna mediatica spietata. E’ vivo il ricordo dell’uomo potente che ha dovuto esporsi alla mortificazione della passerella in manette, un tributo al calvinismo ringhiante della società americana alimentato dalla solita stampa che non si è fatta scappare l’occasione per cavalcare il mostro. Né più e né meno che da noi, ma contrariamente che da noi, appena sono affiorati dubbi sulla solidità dell’impianto accusatorio, l’accusa ha riconosciuto i propri errori e a Strauss- Kahn è stata restituita la libertà. Non propriamente come da noi! Ancora non c’è la certezza dell’innocenza dell’imputato ma è esemplare che il primo a riconoscere la debolezza dell’impianto accusatorio sia stato proprio il procuratore Vance e che si sia giunti a un risultato prossimo ad essere definitivo nel giro di poche settimane. Tutti ricordiamo la vicenda Tortora e sappiamo che la pubblica accusa ha potuto costruire l’impianto accusatorio con colpevole approssimazione, negando l’evidenza di contraddizioni, confidando nelle accuse improbabili di pentiti che narravano di scellerate complicità con Tortora, pur essendo evidente che non avevano la statura morale per relazionarsi con lui, perseverando anche quando l’impianto accusatorio è apparso chiaramente compromesso, non mostrando alcun ravvedimento, non rendendo l’onore delle armi ad un uomo ingiustamente accusato non per un errore di valutazione ma per fedeltà ad un teorema al quale l’orgoglio impediva di rinunciare. Tortora per quella vicenda ci morì, non risulta che i magistrati che hanno commesso l’errore ne abbiano risentito nella costruzione delle loro carriere. Purtroppo vicende che riguardano nomi noti suscitano emozioni, code polemiche, proclami scandalizzati fini a se stessi e per un Tortora che riguadagna l’onore grazie alla sua notorietà, vi sono innumerevoli Carneade di cui è disseminata la mala giustizia, che rimangono marchiati a vita. Agli indignati a orologeria che si svegliano solo quando deflagrano vicende clamorose, voglio chiedere di essere meno tonitruanti, di usare maggiore sobrietà e di coltivare il loro amore per la giustizia indagando sulle storture che si annidano nei percorsi del processo penale in Italia. Scopriranno che non esiste il tanto strombazzato giusto processo, che i diritti della pubblica accusa e della difesa non sono uguali, che la pubblica accusa può contare su una potente macchina da guerra per condurre le indagini, su tempi e strumenti utilizzati in largo anticipo rispetto alla difesa e che in questa fase può manipolare circostanze secondo i suoi interessi e indirizzare l’indagine a suo piacimento, mentre la difesa nella maggior parte dei casi dispone di poveri mezzi e, anche quando dispone di mezzi adeguati, può utilizzare i risultati ottenuti tra mille difficoltà in un clima che l’espone al sospetto di voler fare dell’ostruzione e della strumentalizzazione per danneggiare il sacro lavoro dell’accusa. Scopriranno che nel nostro sistema giudiziario gli avvocati vengono mortificati dallo strapotere dei Pubblici Ministeri e alcuni di essi si muovono con cautela non osando andare oltre il confine che la consuetudine ha loro imposto, che le vicende giudiziarie possono senza scandalo durare una buona parte della vita di un uomo e distruggerne la reputazione senza indennizzi che bastino a risarcire, perché non tutto è risarcibile, che l’indegna vergogna della detenzione preventiva colpisce uomini che possono risultare innocenti, che la detenzione in carcere è invivibile, che le vite sono spezzate da quella che Ostellino chiama “voglia di macelleria” della stampa, che ci si muove, e si può immaginare come, in una realtà consolidata da anni di consorteria corporativa tra magistrati giudicanti e requirenti che provengono dallo stesso ambito, continuano frequentare lo stesso ambito, si sposano tra di loro, transitano indisturbati dalla funzione requirente alla funzione giudicante portandosene appiccicata addosso la cultura, che il libero convincimento del giudice non supportato da prove certe può tranquillamente essere esercitato e non sempre confutato da un coraggioso giudice a Berlino che lo smentisca, che il pregiudizio ha la prevalenza sul giudizio, che all’imputato si impone di piegarsi alla verità dell’accusa in un clima e in una condizione che ne indebolisce le capacità di resistenza, e, mi scuso per l’autocitazione fatta non per amore di esibizione ma a scopo esemplificativo, che anche un vecchio in disarmo come me è sottoposto a misure cautelari che gli impongono di dimorare esclusivamente entro il perimetro della città, corre il rischio che, a 72 anni, possa ancora tornare in carcere, ha già scontato lunghi anni di detenzione preventiva pur non essendo stato ancora, dopo tredici di processo, dichiarato colpevole e da tutti è considerato tale perché questo è il messaggio che ha trasmesso una certa letteratura che si occupa di mafia e la vulgata innescata dal lungo itinerario processuale. Quanti strillano allo scandalo solo in occasione di vicende come quelle di Strauss e Tortora, si incazzino veramente per l’anomalia tutta italiana della nostra malandata giustizia, siano la coscienza del Paese, gli “uomini d’oro” di platoniana memoria, si trasformino in pungoli intransigenti e brandiscano la loro statura morale contro i tentativi dello Stato di tradire il patto sociale, si ricordino dei paria delle nostre carceri che in carcere ci muoiono suicidi perché non ne tollerano le condizioni o vengono “suicidati”, fissino nel cuore l’immagine di relitti perduti nei loro deliri onirici, abbiano il coraggio di gridare che non è tollerabile che il 60% dei detenuti in Italia è costituito da imputati in attesa di giudizio, sappiano opporsi all’arroganza di magistrati che si ritengono unti dal Signore allo stesso modo in cui riconoscono i meriti dei magistrati che fanno il loro lavoro improbo con sobrietà, spirito di sacrificio, coscienza e in silenzio, soprattutto diano sulla voce a certi forcaioli che ritengono che gli imputati di mafia, in virtù del loro marchio d’infamia, debbano finire i loro giorni in un gulag, come auguratomi da un coraggioso blogger protetto da nickname, o non abbiano diritto a garanzie e possono essere lasciati morire per sempre e poveri in carcere, e pazienza se hanno già scontato la pena per i delitti commessi, come auspicato da un noto ( più o meno ) parlamentare che, guarda caso, si è imbattuto in qualcuno più puro di lui che ne ha chiesto l’incriminazione. Combattano questa battaglia con caparbietà, stanando e incalzando gli altarini, scrivendo di loro senza complici genuflessioni, denunciando ogni giorno che Dio manda in terra i torti perpetrati dallo Stato con la stessa puntualità con cui denunciano i torti perpetrati dai comuni cittadini, urlando la loro rabbia di uomini giusti. Il panorama di macerie della nostra giustizia che ci fa regredire allo stato pre-civile, in cui i diritti appartengono solo a chi ha santi in paradiso e non ai figli di un dio minore privati del loro status di cittadini, deve essere lo sprone che li induca a combattere una violenza che nel momento in cui è consumata nei confronti della parte più debole della società, è consumata nei confronti del diritto e quindi nei confronti di ciascuno di noi.

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