Il destino del Sud
Nell'articolo apparso sul Corriere della Sera del 26 ottobre,"Classe (per nulla) dirigente", il professore Panebianco non risparmia critiche all'inefficienza della classe dirigente meridionale. Sono critiche condivisibili perché non si può non essere d'accordo con lui quando scrive che "il vero dramma del Mezzogiorno non consiste nei gravi problemi che lo attanagliano ma nel fatto che le sue classi dirigenti siano incapaci di cercare soluzioni e rimedi". Niente da obiettare, i disastri sono sotto gli occhi di tutti ed anche le colpe di noi meridionali.
E non si può non essere d'accordo anche quando egli scudiscia il nostro vittimismo: "non perdono un colpo quando si tratta di accusare Roma, lo Stato, di avere abbandonato il Sud: un'espressione che testimonia di uno stato di minorità, psicologica e culturale (sono i minori quelli che non si possono abbandonare)" e ancora quando denuncia la tendenza al ricatto di un Sud che pone sul piatto della bilancia il suo potere contrattuale di bacino di voti senza i quali non si vincono le elezioni nazionali, per bussare a cassa.
Tutto vero e lo sottoscrive un uomo del Sud come me che non vuole nascondere dietro il dito del vittimismo i vizi di un popolo e anzi rincara la dose. Il nostro “stato di minorità” si manifesta persino nel senso d’ospitalità esagerata con cui accogliamo chi viene dal Nord e che altro non è se non un inconscio complesso di inferiorità e la voglia di ingraziarsi un ospite sentito come l’illustre paradigma di ciò che vorremmo essere. Si manifesta quando, dopo pochi giorni di soggiorno a Milano o a Torino, adottiamo il dialetto del Nord riconoscendogli dignità di lingua autentica e ritenendo il grottesco scimmiottamento che ne deriva la conquista di una identità emendata del peccato della nostra appartenenza originaria. Tutto vero, siamo un popolo che non ha trovato in se gli strumenti per rivendicare il titolo di maggiorenni capaci di gestire il proprio destino. Detto questo ( non dico nulla sugli sforzi che l’Italia ha o non ha compiuto per agevolare l’emancipazione della classe dirigente meridionale, per essere tacciato di fare del vittimismo), va però aggiunto che non possiamo limitarci ad una analisi così riduttiva. Tutto parte da lontano e ci riporta a come nasce l’Italia, su che cosa essa si fonda e a quale è stato l’humus in cui sono allignati i mali del Sud. Senza giungere a condividere quanto scritto da Mancuso secondo cui “una delle condizioni perché in Italia possa sorgere una religione civile è che i cattolici mettano la loro fede al servizio del bene comune”, perché ritengo che la fede abbia uno scopo meno banale e che la religione civile si rifaccia a un Dio non solo cattolico, non c’è dubbio che la religione civile ha a che fare col senso di appartenenza comunitaria e che ha ragione Jean Jacques Rousseau quando pone a base del contratto sociale il legame che annoda gli individui con l’identità collettiva e li assoggetta alla volontà generale intesa come primato dell’interesse comune sacralizzato fino al punto da ancorarlo alla pena delle sanzioni divine in caso di sua disattenzione. Ebbene dove si è manifestata la religione civile quando si è fatta l’Italia? O non è invece avvenuto il contrario e cioè che essa è stata ignorata , anzi avversata laddove ha fatto capolino, come per esempio in quella religione laica di Mazzini che aveva come fine l’unità d’Italia in uno spirito ideale che la sentiva come una missione? Alla religione civile si è sostituita la religione politica che ha diviso gli italiani e ha prodotto quest’Italia che ci ha regalato il fascismo, la guerra civile e la guerra di posizione tra schieramenti arroccati su ideologie inconciliabili e che non finisce di farsi del male regalandoci una classe politica nazionale che fa il paio con quella meridionale e statisti come Berlusconi e Prodi, campioni di un Paese incapace di rifondare la Nazione ormai in caduta libera (in proposito l’articolo di Tullio Gregory sul Corriere di giorno 27), frutto delle tante imposture che hanno attraversato la nostra storia, non ultima quella sull’unità d’Italia.
Perché senza fare l’apologia del regno borbonico che il professore Panebianco attribuisce ai meridionali, non possiamo però neanche tessere le lodi dei Savoia sovrani che già nell’Ottocento facevano a gara di impresentabilità con i Borboni e che in futuro si sarebbero distinti, sappiamo come, nelle vicende italiane. Senza volere trattare “Cavour e Garibaldi come criminali di guerra” e “liquidare la storia d’Italia unita come il frutto di un’odiosa colonizzazione”, non possiamo ignorare ciò che è stato fatto ai contadini di Bronte fucilati come briganti (in che cosa differisce questo episodio dal trattamento riservato dalle nostre truppe d’occupazione agli insorti nelle colonie somale e libiche?), non possiamo fare finta di niente ignorando che gli interessi del Sud sono stati sacrificati a quelli del Nord ed enfatizzare l’unità d’Italia come un’epopea popolare quando invece essa fu la realizzazione di un sogno minoritario portato a compimento come uno di quei miracoli che ogni tanto la storia ci regala e che fu reso possibile, tanto per cambiare, dalla inconsistenza identitaria della popolazione meridionale che non si smentì neanche allora e non ebbe coscienza di ciò che stava avvenendo non partecipando né in un senso né nell’altro all’edificazione del proprio destino che si limitò a subire.
Nessuna autoassoluzione ma anche nessuna mistificazione.
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sabato 30 ottobre 2010
lunedì 25 ottobre 2010
Calogero
Calogero consuma i suoi giorni in carcere ormai da quindici anni, da quando è stato condannato all'ergastolo per strage mafiosa. L'ho conosciuto negli ultimi mesi della mia ultima detenzione, in uno stanzone del centro clinico di Opera dove sono stato ricoverato per la mia polimiosite e dove mi sono imbattuto in quella strana, surreale sofferenza patita con ovattata rassegnazione da chi ormai da tempo ha detto addio alla vita. Dove l'atmosfera è quella di un'esistenza non vissuta, regolata da ritmi sempre uguali e privi di contenuti in attesa della resa finale, che parla di uomini non più tali che si trascinano stancamente dialogando fra loro di un futuro che non verrà, di progetti che non si avvereranno, con l'ostinata convinzione che nasce dalla pietosa necessità dell'inganno. In quel camerone la maggior parte dei degenti erano ergastolani affetti da patologie irreversibili che non lasciavano speranze, neanche la speranza di amorevoli cure dei familiari negli ultimi giorni ancora da vivere. Calogero era fra questi ma di tutti era quello che non doveva preoccuparsi per una fine imminente perché le sue patologie erano una invenzione della sua mente andata in pappa. Quando mi vide e seppe che ero di Palermo mi si avvicinò per chiedermi notizie della nostra città, se era cambiata e come, se c'era ancora lo "stigghiularo" di Brancaccio dove egli in tempi lontani aveva consumato il rito quotidiano dello "schiticchio". E il mare, come era il mare, sempre puzzolente nel tratto della Cala dove si mangia il migliore pane con la "meusa" di Palermo? Poi cominciò a parlarmi delle sue innumerevoli malattie, di come aveva contratto un tumore al cervello che non gli lasciava molto tempo da vivere, al massimo sei mesi, del diabete che gli imponeva rinunce crudeli e lo esponeva a rischi collaterali, di anomalie cardiache che discendevano dall'affaticamento causato dalle tante patologie, ma non mi parlò del suo disgusto per la vita. Non mi parlò di come era ormai stanco di vivere e di come somatizzava tutti i mali del mondo evocandoli come reali in un onirico desiderio che essi ponessero fine ai suoi giorni. Anzi mi parlò di come aveva accettato con forza la sua sorte, non importandogli granché di nulla, neanche della sua innocenza che pure era ormai certa da quando un pentito ritenuto attendibile aveva dichiarato che lui con quella strage per la quale era stato condannato non c'entrava e si profilava l'eventualità di una revisione del processo. Respingeva con rabbia la prospettiva di un futuro più cristiano per lui, la possibilità di una riabilitazione dall'accusa di un delitto così odioso, non accettava che quindici anni di carcere venissero annullati come se nulla fosse, come se quegli anni, quei giorni, quelle ore patiti sulla sua pelle, fossero trascorsi inutilmente, cancellati con un colpo di spugna, come in un gioco alla fine del quale si dice: abbiamo scherzato, gli sembrava che a quegli anni venisse sottratta la loro drammatica dignità. Quegli anni erano il frutto di una condanna definitiva, quelli erano e non andavano discussi e sennò che li aveva patiti a fare? Del resto, aveva così poco tempo da vivere!
Calogero è un nome fittizio ma la sua storia è vera ed egli aspetta ancora che il suo processo venga revisionato.
Calogero è un nome fittizio ma la sua storia è vera ed egli aspetta ancora che il suo processo venga revisionato.
lunedì 18 ottobre 2010
I sacerdoti dell'intolleranza
L'articolo di Bolzoni "Dai pizzini al blog di Cosa nostra i messaggi che preoccupano Schifani" ha avuto una specie di effetto domino che ha fatto dilatare l'interesse per il mio blog. Ho ricevuto post civili e altri meno, da alcuni sono stato fatto addirittura oggetto di lodi per come scrivo però con l'aria scandalizzata di chi non si capacita che un "mafioso" possa scrivere in maniera così "acculturata", dai più, ahimè, sono stato bacchettato per il solo motivo che ho un blog e che su di esso scrivo di tutto. Lo stesso Bolzoni non mi perdona la presunzione di "intervenire su ogni questione" e addirittura attribuisce al mio blog la funzione di pulpito dal quale consumerei la mia "vendetta contro la politica" e lancerei "pensieri e messaggi a tutto il mondo". Andiamo signor Bolzoni, prima che lo facesse conoscere lei, il mio blog era pressochè sconosciuto e dunque a chi vuole che mandassi i miei messaggi, non è esagerato ritenerli destinati adirittura al mondo intero? Ma non mi lamento, ne ho viste di peggio. Mi lamento invece, e attribuisco la responsabilità al signor Bolzoni, della stupidità che egli ha scatenato. Perchè purtroppo la maggior parte delle reazioni che l'articolo di Bolzoni ha prodotto sono improntate alla intolleranza e alla stupidità. Quando ho deciso di aprire il mio blog non avevo certamente la pretesa di salire in cattedra e pontificare di filosofia come qualcuno mi rimprovera tacciandomi di fare della filosofia spicciola e di non essere all'altezza di Schopenhauer. Troppo onore attribuirmi la capacità di fare della filosofia seppure spicciola, figuriamoci poi scomodare Schopenhauer. Non avevo intenzione di destare tanto allarme in giro presso chi fa della dietrologia attribuendomi chissà quali reconditi fini e tanto meno rivendicare pruriti etici o suscitare la pietà di nessuno, come qualcuno ha scritto. Avevo probabilmente, questo si, il desiderio inconscio di "riprendermi disperatamente gli attimi di vita fuggiti via", come ha scritto acutamente il blogger che mi bacchetta per le mie licenze filosofiche. Ma avevo soprattutto, e l'ho scritto chiaramente nel mio post di presentazione, il desiderio ben conscio di portare avanti con i miei poveri mezzi una battaglia che la mia coscienza e la mia esperienza del carcere mi dicevano di portare avanti, quella sulle condizioni di vita in carcere e della giustizia in Italia. Poi magari mi sono lasciato prendere la mano e ho allargato le mie riflessioni su tematiche che esondavano dal progetto originario, ma è un peccato veniale che si può perdonare ad un uomo che è stato in carcere e lì ha avuto tempo per leggere, studiare, riflettere e accumulare tante sensazioni da raccontare, un uomo che sta vivendo l'indegna gazzarra che lo indica come mafioso nonostante egli non sia ancora titolare di alcuna sentenza di condanna definitiva, anzi abbia incassato due assoluzioni con formula piena ed abbia dunque il diritto ad essere considerato innocente. Un uomo che continua ad essere indicato come "reggente" della famiglia mafiosa di Villabate nonostante il giudice che lo ha rinviato a giudizio e la stessa procura non gli abbiano contestato l'imputazione di capo promotore. Un uomo provato dalla sofferenza di una vicenda che non coinvolge solo lui ma avvelena la vita dei suoi cari e mette a dura prova la solidità dei suoi rapporti familiari, che vive chiedendosi quando verrà sferrato il prossimo colpo dallo sciacallo di turno, alla mercé di una stampa impetosa e non sempre onesta, logorato dalla tentazione della resa e dallo sforzo per ribellarsi ad essa. Ha motivo un simile uomo di essere in collera ed esprimere la propria rabbia senza che le prefiche possedute da furori moralistici si strappino le vesti non tollerando che egli osi pensare, avere un blog e su di esso scrivere quello che gli passa per la mente? O deve essere quest'uomo confinato in una riserva a meditare sulla propria arroganza? Invito quanti giocano al massacro, alcuni coperti dall'anonimato, a un minimo di onestà, a non addossarmi colpe che non ho, a non lasciarsi prendere dalla fregola del mostro a tutti i costi, a verificare quello che c'è dietro le apparenze, ad entrare nel merito di quello che scrivo criticandolo anche duramente e mettendo in discussione il valore di esso ma evitando di attribuirmi quello che non scrivo. Col tempo la mafia sarà sconfitta e il mondo si libererà dei blogger-mafiosi che tanto indignano un mio irridente critico, il problema è che non ci libereremo mai degli stupidi e saremo costretti a sorbirci a vita i blogger-spazzatura.
martedì 12 ottobre 2010
Giovanni
L’ho incontrato mentre, con l’aria di un pugile suonato che ne ha prese tante, uscivo dall’aula dove il Procuratore Generale aveva appena concluso la sua requisitoria invocando una pena severa contro di me.
L’ho visto venirmi incontro interamente bianco, appesantito e imbolsito, gli occhi socchiusi in una fessura rassegnata che non aveva più vita e stentai a riconoscere Giovanni, il vecchio compagno arrestato con me nel 1998.
Lui invece mi riconobbe subito e mi abbracciò stringendomi convulsamente, tremando di pianto, scosso da singhiozzi che non riusciva a frenare, biascicando di se e del suo calvario d’imputato di mafia che si trascinava ormai da 12 anni, che l’aveva ridotto sul lastrico, gli aveva rubato un pezzo di vita e gli offriva la prospettiva, a 75 anni, di scontare altri 5 anni di carcere in caso di conferma della sentenza di primo grado.
Me lo ricordavo importante imprenditore dalle cui fortune derivavano possibilità di lavoro per quanti, ed erano tanti, ogni mattina si presentavano ai cancelli dei suoi cantieri. Me lo ricordavo imponente e sicuro di se, piacione e generoso, pieno di se e della consapevolezza della sua forza. Mi ha fatto impressione vederlo adesso svuotato di ogni energia, quasi una marionetta senza fili che invocava pietà, lui un tempo così orgoglioso. Piangeva soprattutto la morte della moglie rubatagli dallo stress che ha accompagnato la sua vicenda giudiziaria crudele in se ma ancora più crudele per lo stillicidio che giorno dopo giorno per dodici lunghi anni gli aveva rubato l’onore, ne aveva sfregiato l’immagine, lo aveva privato dell’affetto e della considerazione degli amici di un tempo che adesso lo guardavano con sospetto e ne prendevano le distanze. Non riusciva a darsi pace Giovanni per la perdita della compagna di una vita e mi chiedeva che diritto aveva la società di espropriarlo di quell’affetto oltre che dei suoi beni materiali, di amputarlo di una vita che si era radicata in lui, di svuotarlo dell’unico motivo che ancora gli rendeva accettabile l’esistenza. Mi chiedeva che cosa avrebbe fatto della sua vita. Me lo chiedeva con la speranza accesa negli occhi improvvisamente colorati d’attesa e mi sono sentito un inutile impotente stupido quando, allargando le braccia, non fui capace di rispondere alla sua richiesta d’aiuto e con gli occhi lucidi farfugliai l’invito a reagire, a riprendere in mano la propria vita a un uomo che della propria vita ormai non disponeva più. Ma faccio mia la domanda di Giovanni e chiedo a mia volta a chi voglia rispondermi, in base a quale principio giuridico è lecito allo Stato impadronirsi della vita di un suo cittadino e tenerla in ostaggio per anni in attesa di decidere se quel cittadino è colpevole o innocente e intanto sottoporlo ad anni di carcere che potrebbero non essere dovuti, infliggergli la pena della gogna, della emarginazione sociale, del sospetto che spesso nella pancia di una opinione pubblica, incapace di indignarsi ed anzi avida di giustizialismo, si traduce in certezza della colpevolezza perché, come ha detto qualcuno, il sospetto è l’anticamera della verità. Che diritto ha lo Stato di dividere i cittadini in buoni e cattivi, catalogare tra questi ultimi gli imputati in attesa di giudizio e negar loro l’elementare diritto alla presunzione d’innocenza facendone carne da macello in obbedienza ad orgasmi forcaioli che risiedono in prurigini etiche con cui si pretende di venare il compito della giustizia? Ma lo Stato ha forse il compito di amministrare la giustizia facendo del diritto uno strumento sociale, etico, in definitiva ideologico o applicando la legge al riparo da qualsiasi condizionamento? Ricordo che un compianto Giudice mi diceva che non gli bastava essere convinto della colpevolezza di un imputato se questa convinzione non era sufficientemente supportata da prove. Ai sacerdoti della morale che pretendono di salvare il mondo usando la legge, consiglio di ispirarsi a lui e di dedicare un poco del loro tempo alla lettura di Kelsen.
L’ho visto venirmi incontro interamente bianco, appesantito e imbolsito, gli occhi socchiusi in una fessura rassegnata che non aveva più vita e stentai a riconoscere Giovanni, il vecchio compagno arrestato con me nel 1998.
Lui invece mi riconobbe subito e mi abbracciò stringendomi convulsamente, tremando di pianto, scosso da singhiozzi che non riusciva a frenare, biascicando di se e del suo calvario d’imputato di mafia che si trascinava ormai da 12 anni, che l’aveva ridotto sul lastrico, gli aveva rubato un pezzo di vita e gli offriva la prospettiva, a 75 anni, di scontare altri 5 anni di carcere in caso di conferma della sentenza di primo grado.
Me lo ricordavo importante imprenditore dalle cui fortune derivavano possibilità di lavoro per quanti, ed erano tanti, ogni mattina si presentavano ai cancelli dei suoi cantieri. Me lo ricordavo imponente e sicuro di se, piacione e generoso, pieno di se e della consapevolezza della sua forza. Mi ha fatto impressione vederlo adesso svuotato di ogni energia, quasi una marionetta senza fili che invocava pietà, lui un tempo così orgoglioso. Piangeva soprattutto la morte della moglie rubatagli dallo stress che ha accompagnato la sua vicenda giudiziaria crudele in se ma ancora più crudele per lo stillicidio che giorno dopo giorno per dodici lunghi anni gli aveva rubato l’onore, ne aveva sfregiato l’immagine, lo aveva privato dell’affetto e della considerazione degli amici di un tempo che adesso lo guardavano con sospetto e ne prendevano le distanze. Non riusciva a darsi pace Giovanni per la perdita della compagna di una vita e mi chiedeva che diritto aveva la società di espropriarlo di quell’affetto oltre che dei suoi beni materiali, di amputarlo di una vita che si era radicata in lui, di svuotarlo dell’unico motivo che ancora gli rendeva accettabile l’esistenza. Mi chiedeva che cosa avrebbe fatto della sua vita. Me lo chiedeva con la speranza accesa negli occhi improvvisamente colorati d’attesa e mi sono sentito un inutile impotente stupido quando, allargando le braccia, non fui capace di rispondere alla sua richiesta d’aiuto e con gli occhi lucidi farfugliai l’invito a reagire, a riprendere in mano la propria vita a un uomo che della propria vita ormai non disponeva più. Ma faccio mia la domanda di Giovanni e chiedo a mia volta a chi voglia rispondermi, in base a quale principio giuridico è lecito allo Stato impadronirsi della vita di un suo cittadino e tenerla in ostaggio per anni in attesa di decidere se quel cittadino è colpevole o innocente e intanto sottoporlo ad anni di carcere che potrebbero non essere dovuti, infliggergli la pena della gogna, della emarginazione sociale, del sospetto che spesso nella pancia di una opinione pubblica, incapace di indignarsi ed anzi avida di giustizialismo, si traduce in certezza della colpevolezza perché, come ha detto qualcuno, il sospetto è l’anticamera della verità. Che diritto ha lo Stato di dividere i cittadini in buoni e cattivi, catalogare tra questi ultimi gli imputati in attesa di giudizio e negar loro l’elementare diritto alla presunzione d’innocenza facendone carne da macello in obbedienza ad orgasmi forcaioli che risiedono in prurigini etiche con cui si pretende di venare il compito della giustizia? Ma lo Stato ha forse il compito di amministrare la giustizia facendo del diritto uno strumento sociale, etico, in definitiva ideologico o applicando la legge al riparo da qualsiasi condizionamento? Ricordo che un compianto Giudice mi diceva che non gli bastava essere convinto della colpevolezza di un imputato se questa convinzione non era sufficientemente supportata da prove. Ai sacerdoti della morale che pretendono di salvare il mondo usando la legge, consiglio di ispirarsi a lui e di dedicare un poco del loro tempo alla lettura di Kelsen.
mercoledì 6 ottobre 2010
I dietrologi a buon mercato
Non voglio deludere l’egregio Bolzoni che chiude un suo articolo su di me prefigurando una mia replica. Se voleva provocarmi c’è riuscito e gli rispondo a tempo di record che egli è un buontempone che fa della dietrologia a buon mercato senza tanti riguardi per la verità e la vita del prossimo. Cominciamo col precisare che non sono io a dire d’essere stato amico e socio del sen. Schifani, lo dicono un video in cui il presidente del senato appare al mio matrimonio e gli atti della Sicula Brokers da cui risulta che siamo stati soci in quell’azienda. Andiamo ai presunti messaggi in codice che, secondo Bolzoni, io lancerei al sen. Schifani “tormentato dal mio blog”. Tutto perché ho pubblicato un articolo intitolato “Le anime belle” in cui ironicamente faccio le pulci a un certo costume dell’usa e getta praticato dalla politica italiana. Ma quell’articolo, caro il mio Bolzoni, si riferiva alla vicenda dell’on. Cuffaro per anni amico e compagno di partito dell’on. Casini, da questi liquidato con l’epiteto di personaggio scomodo. Il principe che “dai palazzi dorati romani ha suonato il flauto” è l’on. Casini e “l’uomo accorto che ha fatto dell’astuzia la bussola con cui navigare nelle infide acque della politica siciliana” e tuttavia “ si è fatto colonizzare e cannibalizzare” è l’on. Cuffaro facilmente individuabile per l’esortazione rivoltagli a “scegliere con più attenzione chi vasare”e per le “maratone vasatorie” cui faccio cenno nell’articolo.
Se dunque il mio articolo ha come protagonista l’on. Cuffaro, come appare evidente, che c’entra il presidente del senato e quali messaggi cifrati gli starei mandando? Sono io che mi domando (una volta tanto anche io voglio fare della dietrologia) dove vuole andare a parare il sig. Bolzoni. A quale scopo egli vuole montare una vicenda torbida parlando di “dispacci , segnali e messaggi in codice “ riferiti ad un articolo innocente che si occupa di altri personaggi ma non certo del presidente del senato? Potremmo dire che è affar suo se egli non coinvolgesse con il suo pressappochismo un’alta carica dello Stato e un povero diavolo come me che vuole vivere il crepuscolo della sua vita dicendo innocentemente la sua senza avere la pretesa di “mandare pensieri e messaggi al mondo intero”, ma anche senza doversi preoccupare di essere intercettato da menti raffinate che travisano quello che scrivo e censurano il fatto che “intervengo su ogni questione”.
Invece di censurarmi, il sig. Bolzoni entri nel merito di quello che scrivo e su di esso confrontiamoci pure. Ma per favore eviti di incorrere nei soliti luoghi comuni sulle inquietanti astuzie del solito mafioso e se ha un minimo di onestà racconti come stanno le cose, racconti che, se è vero che sono stato condannato in primo grado a 8 anni per associazione mafiosa, non vuol dire che sono mafioso perché ancora non c’è una sentenza definitiva, che sono stato anche assolto in due altri processi con formula piena, che sono sulla graticola di una vicenda giudiziaria, che solo quest’anno è giunta al grado d’appello, da ben 12 anni durante i quali ho scontato 6 anni di carcere
preventivo che potrebbero rivelarsi una terribile crudeltà se fossi assolto, che ho dovuto subire l’assalto di una stampa appiattita acriticamente sulle posizione della pubblica accusa e mi ha sottoposto ad un’autentica gogna consegnandomi alla categoria degli uomini abietti, nonostante mi spetti la presunzione d’innocenza. Non pretendo di essere un novello Jean Calas nè mi aspetto che il sig. Bolzoni abbia la levatura di un Voltaire, mi aspetto, ripeto, che almeno dica come stanno le cose invece di rammaricarsi perchè sono a piede libero.
Come molti suoi colleghi egli procede per stereotipi e quando scopre che dietro l’icona mafiosa costruita dalla stampa c’è un uomo diverso da quello preconfezionato, invece di prenderne atto, ironizza sulla voglia che quest’uomo ha di offrire al mondo l’unica immagine di se che gli appartiene attraverso il solo strumento di cui dispone, la parola, e lo irride scrivendo che “sta consumando la sua vendetta mandando pensieri e messaggi al mondo intero, è particolarmente loquace e parla e chiacchera come non usa in quell’ambiente”. Come usa in quell’ambiente, sig. Bolzoni? Me lo dica lei perché io non lo so.
Da una giornalista con la quale ho avuto un colloquio mi sono sentito dire che è opinione diffusa che se in una famiglia (intendo famiglia di sangue) c’è un mafioso, sono mafiosi anche i restanti componenti della famiglia. Siamo, come si vede, alla logica tribale che vuole che le responsabilità del singolo siano estese a tutti i membri della tribù, e nel mio caso vuole che, per una sorta di riflesso condizionato, il nome di mio figlio sia una specie di campanello che fa venire l’acquolina in bocca al cane di Pavlov, che le sue responsabilità siano le mie, che, se mio figlio è mafioso, lo sono anche io e se egli ha compiuto dei reati, io non potevo non sapere o addirittura condividere.
Insomma io sarei oltre che il padre di mio figlio anche il padre delle sue condotte perché, come dicono i pentiti che mi accusano, è normale che sia così. Voglio ricordare infine al sig. Bolzoni che, se è vero quanto egli sostiene, e cioè che i Pubblici Ministeri sono convinti “che sia io a comandare ai confini orientali di Palermo”, questa è l’opinione dell’accusa non la verità, anche se io sono convinto che i Pubblici Ministeri sanno che vita conduco e che sono alle prese con il problema di arrivare, come tutti i pensionati, alla fine del mese, altro che gestire grossi affari di mafia!
Chiudo constatando con amarezza la pervicacia con la quale si continua ad alimentare il mito dell’icona mafiosa da dare in pasto all’opinione pubblica definendomi “personaggio chiave di tutta l’indagine di mafia” e pretendendo di attribuirmi ruoli che non ho e segreti che non custodisco.
Mi dispiace deludere le aspettative del sig. Bolzoni ma sono veramente quello che appaio e se lui vuole dare corpo alle sue fantasie deve rivolgersi altrove.
Se dunque il mio articolo ha come protagonista l’on. Cuffaro, come appare evidente, che c’entra il presidente del senato e quali messaggi cifrati gli starei mandando? Sono io che mi domando (una volta tanto anche io voglio fare della dietrologia) dove vuole andare a parare il sig. Bolzoni. A quale scopo egli vuole montare una vicenda torbida parlando di “dispacci , segnali e messaggi in codice “ riferiti ad un articolo innocente che si occupa di altri personaggi ma non certo del presidente del senato? Potremmo dire che è affar suo se egli non coinvolgesse con il suo pressappochismo un’alta carica dello Stato e un povero diavolo come me che vuole vivere il crepuscolo della sua vita dicendo innocentemente la sua senza avere la pretesa di “mandare pensieri e messaggi al mondo intero”, ma anche senza doversi preoccupare di essere intercettato da menti raffinate che travisano quello che scrivo e censurano il fatto che “intervengo su ogni questione”.
Invece di censurarmi, il sig. Bolzoni entri nel merito di quello che scrivo e su di esso confrontiamoci pure. Ma per favore eviti di incorrere nei soliti luoghi comuni sulle inquietanti astuzie del solito mafioso e se ha un minimo di onestà racconti come stanno le cose, racconti che, se è vero che sono stato condannato in primo grado a 8 anni per associazione mafiosa, non vuol dire che sono mafioso perché ancora non c’è una sentenza definitiva, che sono stato anche assolto in due altri processi con formula piena, che sono sulla graticola di una vicenda giudiziaria, che solo quest’anno è giunta al grado d’appello, da ben 12 anni durante i quali ho scontato 6 anni di carcere
preventivo che potrebbero rivelarsi una terribile crudeltà se fossi assolto, che ho dovuto subire l’assalto di una stampa appiattita acriticamente sulle posizione della pubblica accusa e mi ha sottoposto ad un’autentica gogna consegnandomi alla categoria degli uomini abietti, nonostante mi spetti la presunzione d’innocenza. Non pretendo di essere un novello Jean Calas nè mi aspetto che il sig. Bolzoni abbia la levatura di un Voltaire, mi aspetto, ripeto, che almeno dica come stanno le cose invece di rammaricarsi perchè sono a piede libero.
Come molti suoi colleghi egli procede per stereotipi e quando scopre che dietro l’icona mafiosa costruita dalla stampa c’è un uomo diverso da quello preconfezionato, invece di prenderne atto, ironizza sulla voglia che quest’uomo ha di offrire al mondo l’unica immagine di se che gli appartiene attraverso il solo strumento di cui dispone, la parola, e lo irride scrivendo che “sta consumando la sua vendetta mandando pensieri e messaggi al mondo intero, è particolarmente loquace e parla e chiacchera come non usa in quell’ambiente”. Come usa in quell’ambiente, sig. Bolzoni? Me lo dica lei perché io non lo so.
Da una giornalista con la quale ho avuto un colloquio mi sono sentito dire che è opinione diffusa che se in una famiglia (intendo famiglia di sangue) c’è un mafioso, sono mafiosi anche i restanti componenti della famiglia. Siamo, come si vede, alla logica tribale che vuole che le responsabilità del singolo siano estese a tutti i membri della tribù, e nel mio caso vuole che, per una sorta di riflesso condizionato, il nome di mio figlio sia una specie di campanello che fa venire l’acquolina in bocca al cane di Pavlov, che le sue responsabilità siano le mie, che, se mio figlio è mafioso, lo sono anche io e se egli ha compiuto dei reati, io non potevo non sapere o addirittura condividere.
Insomma io sarei oltre che il padre di mio figlio anche il padre delle sue condotte perché, come dicono i pentiti che mi accusano, è normale che sia così. Voglio ricordare infine al sig. Bolzoni che, se è vero quanto egli sostiene, e cioè che i Pubblici Ministeri sono convinti “che sia io a comandare ai confini orientali di Palermo”, questa è l’opinione dell’accusa non la verità, anche se io sono convinto che i Pubblici Ministeri sanno che vita conduco e che sono alle prese con il problema di arrivare, come tutti i pensionati, alla fine del mese, altro che gestire grossi affari di mafia!
Chiudo constatando con amarezza la pervicacia con la quale si continua ad alimentare il mito dell’icona mafiosa da dare in pasto all’opinione pubblica definendomi “personaggio chiave di tutta l’indagine di mafia” e pretendendo di attribuirmi ruoli che non ho e segreti che non custodisco.
Mi dispiace deludere le aspettative del sig. Bolzoni ma sono veramente quello che appaio e se lui vuole dare corpo alle sue fantasie deve rivolgersi altrove.
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