Il decennale della morte di Craxi ci consegna una Italia ingessata nelle sue contraddizioni. Dico subito, a scanso di equivoci, che sono dalla parte di Craxi o, meglio, della lettura che vuole Craxi, giusto quanto ha detto il presidente del Senato, vittima sacrificale di una stagione di corruttela alla quale doveva darsi una risposta politica e alla quale invece fu data una risposta giudiziaria orientata e strumentale che aveva il compito di determinare un nuovo assetto politico deciso nelle stanze di un certo potere e che utilizzava metodi a dir poco inquietanti. E' emblematica del clima in cui si dispiegava l'attività giudiziaria all'epoca di Tangentopoli, l'affermazione di un pubblico ministero secondo cui "quello immediatamente successivo all'arresto è un momento magico", che la dice tutta sulla passione orgasmica che accompagnava l'arresto. Il tintinnio delle manette, l'intimidazione, il carcere come mezzo di estorsione esercitato, per altro in un clima da corrida mediatica, nei confronti di personaggi fragili alle prese per la prima volta con problemi giudiziari, hanno avuto i loro simboli nell'arroganza tribunizia di Di Pietro e nella mansuetudine del tremebondo e sbavante Forlani e sono sfociati in quella che presto si rivelerà come un'autentica tragedia con i suicidi di Cagliari e Gardini e la morte, lontano dalla Patria, di Craxi.
Craxi, nonostante la sua statura politica, fu stritolato dal moloc giudiziario ed egli, conoscendo dal di dentro le responsabilità delle altre parti politiche non toccate da Tangentopoli, individuando lucidamente, nel famoso discorso pronunciato alla Camera dei Deputati il 03 luglio 1992, l'etica della responsabilità rispetto alla lettura crimininale del finanziamento illecito, ritenne che gli fosse stato fatto un torto al quale rispondere con il suo diritto a sottrarvisi. Il suo orgoglio non gli faceva accettare la sorte di un comune cittadino ma egli come un comune cittadino, ignorando i doveri del suo ruolo e rifiutandosi ai rigori della legge, si diede alla latitanza cadendo nella prima contraddizione di questa vicenda. Bene o male quella magistratura che lo perseguiva rappresentava lo Stato e non si giustificava il paradosso di un uomo che, avendo fino ad allora rappresentato lo Stato ai massimi livelli e, bisogna dirlo, con onore, rinnegasse sè stesso e ciò che era stato, rinnegando lo Stato. Si imponeva che egli si offrisse all'iniziativa della magistratura sfidandola ad andare fino in fondo. Fa rabbia che un uomo simile si sia portato nella tomba il marchio di latitante e abbia messo in imbarazzo lo Stato il quale a sua volta si è avvitato in una serie di contraddizioni. Le varie iniziative di alcuni pezzi dello Stato a favore di Craxi, Milano che gli intesta una strada, il capo dello Stato il quale denuncia che "il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza eguali sulla sua persona", il presidente del Senato che lo definisce vittima sacrificale di Tangentopoli, seppure condivisibili, hanno il torto di confliggere con iniziative di segno opposto non parimenti condivisibili ma assolutamente leggittime di un altro pezzo dello Stato, quella magistratura che ha condannato Craxi, e con l'immagine di un uomo delle Istituzioni in fuga dalle Istituzioni. Peccato, perchè si è persa l'occasione per mettere sotto i riflettori le diverse responsabilità riguardo una vicenda sulla quale, non dimentichiamolo, la Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo si è pronunciata affermando che è stato violato il diritto ad un processo equo per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea. Craxi in manette sarebbe stato un monito per le nostre coscienze, avrebbe dilatato drammaticamente con lo spessore della sua figura e con il suo sacrificio l'attenzione sul problema della giustizia e accelerato la necessità della sua riforma, ma soprattutto avrebbe prevalso con il suo coraggio sulla povertà morale di un giacobinismo al soldo di giochi di potere e sulla viltà di un mondo politico che non seppe difenderlo.
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