La vicenda del crollo della palazzina di Favara in cui hanno perso la vita due bambine, rende difficile ogni commento.
Come sempre, a morti avvenute, si sono scatenate le ire e le indignazioni di facciata e scoperchiate realtà di degrado sempre esistite e sempre ignorate.
Icorvi, col sinistro fruscio delle loro ali, volano bassi a cracchiare sulla tragedia di due piccole vite spezzate.
Fanno finta di stupirsi, sgranano gli occhi increduli di fronte a una Favara fatiscente e alle condizioni di vita dei suoi abitanti, stentano a raccapezzarsi ascoltando un linguaggio antico e imperscrutabile che ci parla di un mondo che non ha fatto in tempo ad agganciarsi ai tempi che corrono e di una umanità ancestrale chiusa nella sua irredimibile tribalità, balbettando risposte ipocrite e non adeguate che hanno il solo scopo di velare colpe di cui portano le responsabilità.
Quando Ricolfi dice che il Gattopardo si farà un boccone del federalismo perchè "non ha alcun interesse a cambiare uno stato di cose che gli ha permesso di vivere largamente al si sopra dei propri mezzi", parla appunto di un popolo inadeguato, di boiardi che fanno del loro ruolo il luogo della immutabilità delle cose, di una razza padrona che non ha la voglia ma neanche la capacità di cambiare, di pomposi narratori del nulla, di sbandieratori di false virtù dietro le quali si annidano mediocrità e privilegi. Sono il virus che avvelena il nostro sangue, che uccide Chiara e Marianna e condanna alla disperazione i nuovi peones del XXI Secolo.
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venerdì 29 gennaio 2010
giovedì 21 gennaio 2010
HAITI
Il terremoto di Haiti è una tragedia che ci presenta il conto di un numero impressionante di vittime e, attraverso lo sguardo smarrito dei superstiti, ci trasmette la sensazione di impotenza dell’uomo al cospetto della natura. E’ una tragedia che ci richiama alla nostra piccolezza, ad una ineluttabilità che non riusciamo a fronteggiare, alla crudeltà degli elementi naturali che rivendicano la loro primazia e impongono con furore le loro ragioni.
Gli esperti di geologia ci spiegano che la crosta della terra è suddivisa in tanti pezzi chiamati placche che si scontrano fra loro, alcune inabissandosi, altre scivolando sullo stesso piano e sviluppando, allorché si scontrano, energie che come in una pentola ribollono in attesa di esplodere laddove la crosta è spaccata dalle cosiddette faglie. Haiti ha la disgrazia di essere un vaso di coccio tra vasi di ferro, emerge dalla placca caraibica che si scontra al nord con la grande placca nordamericana e a sud con la altrettanto estesa placca sudamericana, ha nel suo seno la faglia Enriquillo - Plantain – Garden, il punto debole in cui l’energia prodotta ha potuto insinuarsi ed esplodere.
Fin qui le considerazioni tecniche, ma che dire dell’elemento umano? Potevano, nonostante tutto, essere evitate tutte queste vittime?
Si, se, conoscendo la natura del luogo, l’uomo si fosse comportato di conseguenza. Se infatti la costruzione degli edifici avesse obbedito a severi criteri antisismici, il numero delle vittime sarebbe stato di poche decine anziché di decine di migliaia.
La povertà ha impedito costi insostenibili e ha creato le premesse della tragedia!
Povertà e degrado sociale sono la realtà scoperchiata dal terremoto e le immagini delle condizioni di vita inumane in cui versano gli haitiani, dei morti che si aggiungono ai morti e degli amputati che perdono arti perché mancano le strutture che potrebbero salvare vite ed arti, sono rimbalzate come un pugno nello stomaco nelle nostre coscienze a decretare la sconfitta di noi tutti, indifferenti testimoni delle tante realtà degradate e lontane dalla nostra opulenza ma che ci riguardano e di cui, in quanto uomini, portiamo la responsabilità.
Da tutti gli angoli del pianeta, l’umanità, obbedendo alla propria natura che si realizza nella relazione con l’altro, che soffre della sofferenza altrui, che si gratifica nel donare aiuto, si è avventata sul cataclisma haitiano beandosi della propria generosità ma arrivando in ritardo.
Se le energie profuse nell’aiutare le popolazioni vittime del terremoto fossero state impiegate per tempo in una opera di impulso all’economia, di prevenzione, di contribuzione alla formazione di una identità più compiuta di quel popolo e della sua capacità di progettare e costruire un futuro degno, probabilmente non saremmo impegnati a contare tanti morti. E invece siamo qui a piangere sul latte versato, carichi delle più nobili intenzioni in attesa della prossima tragedia annunciata.
Gli esperti di geologia ci spiegano che la crosta della terra è suddivisa in tanti pezzi chiamati placche che si scontrano fra loro, alcune inabissandosi, altre scivolando sullo stesso piano e sviluppando, allorché si scontrano, energie che come in una pentola ribollono in attesa di esplodere laddove la crosta è spaccata dalle cosiddette faglie. Haiti ha la disgrazia di essere un vaso di coccio tra vasi di ferro, emerge dalla placca caraibica che si scontra al nord con la grande placca nordamericana e a sud con la altrettanto estesa placca sudamericana, ha nel suo seno la faglia Enriquillo - Plantain – Garden, il punto debole in cui l’energia prodotta ha potuto insinuarsi ed esplodere.
Fin qui le considerazioni tecniche, ma che dire dell’elemento umano? Potevano, nonostante tutto, essere evitate tutte queste vittime?
Si, se, conoscendo la natura del luogo, l’uomo si fosse comportato di conseguenza. Se infatti la costruzione degli edifici avesse obbedito a severi criteri antisismici, il numero delle vittime sarebbe stato di poche decine anziché di decine di migliaia.
La povertà ha impedito costi insostenibili e ha creato le premesse della tragedia!
Povertà e degrado sociale sono la realtà scoperchiata dal terremoto e le immagini delle condizioni di vita inumane in cui versano gli haitiani, dei morti che si aggiungono ai morti e degli amputati che perdono arti perché mancano le strutture che potrebbero salvare vite ed arti, sono rimbalzate come un pugno nello stomaco nelle nostre coscienze a decretare la sconfitta di noi tutti, indifferenti testimoni delle tante realtà degradate e lontane dalla nostra opulenza ma che ci riguardano e di cui, in quanto uomini, portiamo la responsabilità.
Da tutti gli angoli del pianeta, l’umanità, obbedendo alla propria natura che si realizza nella relazione con l’altro, che soffre della sofferenza altrui, che si gratifica nel donare aiuto, si è avventata sul cataclisma haitiano beandosi della propria generosità ma arrivando in ritardo.
Se le energie profuse nell’aiutare le popolazioni vittime del terremoto fossero state impiegate per tempo in una opera di impulso all’economia, di prevenzione, di contribuzione alla formazione di una identità più compiuta di quel popolo e della sua capacità di progettare e costruire un futuro degno, probabilmente non saremmo impegnati a contare tanti morti. E invece siamo qui a piangere sul latte versato, carichi delle più nobili intenzioni in attesa della prossima tragedia annunciata.
Craxi
Il decennale della morte di Craxi ci consegna una Italia ingessata nelle sue contraddizioni. Dico subito, a scanso di equivoci, che sono dalla parte di Craxi o, meglio, della lettura che vuole Craxi, giusto quanto ha detto il presidente del Senato, vittima sacrificale di una stagione di corruttela alla quale doveva darsi una risposta politica e alla quale invece fu data una risposta giudiziaria orientata e strumentale che aveva il compito di determinare un nuovo assetto politico deciso nelle stanze di un certo potere e che utilizzava metodi a dir poco inquietanti. E' emblematica del clima in cui si dispiegava l'attività giudiziaria all'epoca di Tangentopoli, l'affermazione di un pubblico ministero secondo cui "quello immediatamente successivo all'arresto è un momento magico", che la dice tutta sulla passione orgasmica che accompagnava l'arresto. Il tintinnio delle manette, l'intimidazione, il carcere come mezzo di estorsione esercitato, per altro in un clima da corrida mediatica, nei confronti di personaggi fragili alle prese per la prima volta con problemi giudiziari, hanno avuto i loro simboli nell'arroganza tribunizia di Di Pietro e nella mansuetudine del tremebondo e sbavante Forlani e sono sfociati in quella che presto si rivelerà come un'autentica tragedia con i suicidi di Cagliari e Gardini e la morte, lontano dalla Patria, di Craxi.
Craxi, nonostante la sua statura politica, fu stritolato dal moloc giudiziario ed egli, conoscendo dal di dentro le responsabilità delle altre parti politiche non toccate da Tangentopoli, individuando lucidamente, nel famoso discorso pronunciato alla Camera dei Deputati il 03 luglio 1992, l'etica della responsabilità rispetto alla lettura crimininale del finanziamento illecito, ritenne che gli fosse stato fatto un torto al quale rispondere con il suo diritto a sottrarvisi. Il suo orgoglio non gli faceva accettare la sorte di un comune cittadino ma egli come un comune cittadino, ignorando i doveri del suo ruolo e rifiutandosi ai rigori della legge, si diede alla latitanza cadendo nella prima contraddizione di questa vicenda. Bene o male quella magistratura che lo perseguiva rappresentava lo Stato e non si giustificava il paradosso di un uomo che, avendo fino ad allora rappresentato lo Stato ai massimi livelli e, bisogna dirlo, con onore, rinnegasse sè stesso e ciò che era stato, rinnegando lo Stato. Si imponeva che egli si offrisse all'iniziativa della magistratura sfidandola ad andare fino in fondo. Fa rabbia che un uomo simile si sia portato nella tomba il marchio di latitante e abbia messo in imbarazzo lo Stato il quale a sua volta si è avvitato in una serie di contraddizioni. Le varie iniziative di alcuni pezzi dello Stato a favore di Craxi, Milano che gli intesta una strada, il capo dello Stato il quale denuncia che "il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza eguali sulla sua persona", il presidente del Senato che lo definisce vittima sacrificale di Tangentopoli, seppure condivisibili, hanno il torto di confliggere con iniziative di segno opposto non parimenti condivisibili ma assolutamente leggittime di un altro pezzo dello Stato, quella magistratura che ha condannato Craxi, e con l'immagine di un uomo delle Istituzioni in fuga dalle Istituzioni. Peccato, perchè si è persa l'occasione per mettere sotto i riflettori le diverse responsabilità riguardo una vicenda sulla quale, non dimentichiamolo, la Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo si è pronunciata affermando che è stato violato il diritto ad un processo equo per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea. Craxi in manette sarebbe stato un monito per le nostre coscienze, avrebbe dilatato drammaticamente con lo spessore della sua figura e con il suo sacrificio l'attenzione sul problema della giustizia e accelerato la necessità della sua riforma, ma soprattutto avrebbe prevalso con il suo coraggio sulla povertà morale di un giacobinismo al soldo di giochi di potere e sulla viltà di un mondo politico che non seppe difenderlo.
Craxi, nonostante la sua statura politica, fu stritolato dal moloc giudiziario ed egli, conoscendo dal di dentro le responsabilità delle altre parti politiche non toccate da Tangentopoli, individuando lucidamente, nel famoso discorso pronunciato alla Camera dei Deputati il 03 luglio 1992, l'etica della responsabilità rispetto alla lettura crimininale del finanziamento illecito, ritenne che gli fosse stato fatto un torto al quale rispondere con il suo diritto a sottrarvisi. Il suo orgoglio non gli faceva accettare la sorte di un comune cittadino ma egli come un comune cittadino, ignorando i doveri del suo ruolo e rifiutandosi ai rigori della legge, si diede alla latitanza cadendo nella prima contraddizione di questa vicenda. Bene o male quella magistratura che lo perseguiva rappresentava lo Stato e non si giustificava il paradosso di un uomo che, avendo fino ad allora rappresentato lo Stato ai massimi livelli e, bisogna dirlo, con onore, rinnegasse sè stesso e ciò che era stato, rinnegando lo Stato. Si imponeva che egli si offrisse all'iniziativa della magistratura sfidandola ad andare fino in fondo. Fa rabbia che un uomo simile si sia portato nella tomba il marchio di latitante e abbia messo in imbarazzo lo Stato il quale a sua volta si è avvitato in una serie di contraddizioni. Le varie iniziative di alcuni pezzi dello Stato a favore di Craxi, Milano che gli intesta una strada, il capo dello Stato il quale denuncia che "il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza eguali sulla sua persona", il presidente del Senato che lo definisce vittima sacrificale di Tangentopoli, seppure condivisibili, hanno il torto di confliggere con iniziative di segno opposto non parimenti condivisibili ma assolutamente leggittime di un altro pezzo dello Stato, quella magistratura che ha condannato Craxi, e con l'immagine di un uomo delle Istituzioni in fuga dalle Istituzioni. Peccato, perchè si è persa l'occasione per mettere sotto i riflettori le diverse responsabilità riguardo una vicenda sulla quale, non dimentichiamolo, la Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo si è pronunciata affermando che è stato violato il diritto ad un processo equo per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea. Craxi in manette sarebbe stato un monito per le nostre coscienze, avrebbe dilatato drammaticamente con lo spessore della sua figura e con il suo sacrificio l'attenzione sul problema della giustizia e accelerato la necessità della sua riforma, ma soprattutto avrebbe prevalso con il suo coraggio sulla povertà morale di un giacobinismo al soldo di giochi di potere e sulla viltà di un mondo politico che non seppe difenderlo.
martedì 12 gennaio 2010
RICEVO E PUBBLICO LA LETTERA CHE MI E' PERVENUTA DAL SIGNOR LEONE BRUZZANITI:
Signori visitatori del blog,
in un paese, sedicente civile, che si indigna del fatto che un ex detenuto apra un sito nel quale possano trovare “asilo” argomenti scomodi, anch’io mi indigno!!! E dico, rivolgendomi agli indignati, che una vera democrazia non sarà mai tale fintantoché si pronunceranno giudizi unilaterali.
Il dialogo che nasce dal dissenso è la crescita delle culture che fanno conquiste.
La democrazia non sarebbe tale se il popolo non fosse stato sdoganato dalla suburra e lasciato libero di manifestare le proprie idee. Un governo senza opposizione è una dittatura mascherata!
Indignarsi senza la cognizione dei fatti e delle circostanze sui quali si fonda ogni storia, equivale a professare la fede cristiana senza le opere.
Io sono il detenuto Bruzzaniti Leone, uno dei tanti che vive nel limbo della giustizia, in attesa che questa si riveli oltre la mostruosa volontà di vendetta.
La logica che ispira l’espiazione della pena intende la detenzione quale forma risarcitoria nei confronti della società ma non prescinde da percorsi rieducativi previsti da chi ha percepito nei confronti dei “devianti” una scintilla di carità cristiana. Se non fosse che la cultura giustizialista, pascendo tutti di odio, ha annullato le buone intenzioni!
La veemenza dello Stato nel volere battere il crimine (non poi così organizzato viste le débâcles e gli abusi cui vanno incontro i criminali) si confonde con il giustizialismo della “mafia dell’antimafia” (cito Sciascia) che imperversa sulla “gente di carta” (chiamo così tutti quelli il cui identikit è stato tracciato da una certa letteratura giudiziaria sulla scorta dei rapporti di polizia).
La verità è che anche i giudici che lamentano di non volere andare soggetti a volontà politica hanno perso il senso di autonomia del loro ruolo rispondendo deliberatamente alle logiche di una parte politica. Talchè si concretizza un assoggettamento del popolo a tutto tranne che al diritto. Il pensiero non può non andare a Sciascia quando in “A futura memoria” ha predetto che la giustizia avrebbe combattuto i mafiosi con i loro stessi sistemi facendo venire meno il diritto e la democrazia. Il mio immaginario scivola tra le righe di quella “Fattoria degli animali” di Orwell in cui si disvelano i privati vizi e le pubbliche virtù dei grandi malfattori che costruiscono i Palla di Neve di turno per potere dire che i diritti, sotto l’egida del crimine, sono uguali quasi per tutti.
Un paese civile dovrebbe indirizzare le proprie forze alla prevenzione piuttosto che reprimere e volare, decennio dopo decennio, sulle ali delle leggi emergenziali.
Cari visitatori, a ciascuno la propria indignazione e poiché “fatti non fummo a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”, facciamo si che le nostre virtù e la nostra conoscenza non siano inquinate dalla verità dei vincenti che, volenti o nolenti, scrivano la storia avvelenando spesso il mondo e l’anima dei suoi abitanti.
in un paese, sedicente civile, che si indigna del fatto che un ex detenuto apra un sito nel quale possano trovare “asilo” argomenti scomodi, anch’io mi indigno!!! E dico, rivolgendomi agli indignati, che una vera democrazia non sarà mai tale fintantoché si pronunceranno giudizi unilaterali.
Il dialogo che nasce dal dissenso è la crescita delle culture che fanno conquiste.
La democrazia non sarebbe tale se il popolo non fosse stato sdoganato dalla suburra e lasciato libero di manifestare le proprie idee. Un governo senza opposizione è una dittatura mascherata!
Indignarsi senza la cognizione dei fatti e delle circostanze sui quali si fonda ogni storia, equivale a professare la fede cristiana senza le opere.
Io sono il detenuto Bruzzaniti Leone, uno dei tanti che vive nel limbo della giustizia, in attesa che questa si riveli oltre la mostruosa volontà di vendetta.
La logica che ispira l’espiazione della pena intende la detenzione quale forma risarcitoria nei confronti della società ma non prescinde da percorsi rieducativi previsti da chi ha percepito nei confronti dei “devianti” una scintilla di carità cristiana. Se non fosse che la cultura giustizialista, pascendo tutti di odio, ha annullato le buone intenzioni!
La veemenza dello Stato nel volere battere il crimine (non poi così organizzato viste le débâcles e gli abusi cui vanno incontro i criminali) si confonde con il giustizialismo della “mafia dell’antimafia” (cito Sciascia) che imperversa sulla “gente di carta” (chiamo così tutti quelli il cui identikit è stato tracciato da una certa letteratura giudiziaria sulla scorta dei rapporti di polizia).
La verità è che anche i giudici che lamentano di non volere andare soggetti a volontà politica hanno perso il senso di autonomia del loro ruolo rispondendo deliberatamente alle logiche di una parte politica. Talchè si concretizza un assoggettamento del popolo a tutto tranne che al diritto. Il pensiero non può non andare a Sciascia quando in “A futura memoria” ha predetto che la giustizia avrebbe combattuto i mafiosi con i loro stessi sistemi facendo venire meno il diritto e la democrazia. Il mio immaginario scivola tra le righe di quella “Fattoria degli animali” di Orwell in cui si disvelano i privati vizi e le pubbliche virtù dei grandi malfattori che costruiscono i Palla di Neve di turno per potere dire che i diritti, sotto l’egida del crimine, sono uguali quasi per tutti.
Un paese civile dovrebbe indirizzare le proprie forze alla prevenzione piuttosto che reprimere e volare, decennio dopo decennio, sulle ali delle leggi emergenziali.
Cari visitatori, a ciascuno la propria indignazione e poiché “fatti non fummo a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”, facciamo si che le nostre virtù e la nostra conoscenza non siano inquinate dalla verità dei vincenti che, volenti o nolenti, scrivano la storia avvelenando spesso il mondo e l’anima dei suoi abitanti.
Buon Capodanno
Mi giungono diverse lettere dalle carceri, lamenti di anime provate da esperienze che hanno stravolto intere vite.
Sono le esperienze di quanti, attraverso il delitto, hanno fatto torto alla propria umanità e avvertono il peso di un futuro senza speranza, ma sono anche le esperienze inflitte da una detenzione che ha dimenticato l’eredità dei lumi. Le condizioni inumane in carcere sono il frutto avvelenato della cultura becera di una certa classe politica, della indifferenza con cui l’opinione pubblica ignora una realtà che, voglia o non voglia, le appartiene rimuovendo clamorosi episodi di violenza, della insensibilità di chi dovrebbe scandalizzarsi e non lo fa offrendo a coloro che legiferano e applicano le leggi, l’alibi per il loro cinismo.
Noi tutti che facciamo spallucce e dimentichiamo quello che è accaduto a Cucchi e a Bianzino o facciamo finta di non sapere cosa accade ogni giorno nelle carceri, noi che non riusciamo a indignarci di fronte all’infamia del 41 bis e dell’ergastolo, rischiamo di diventare una massa informe che, abdicando alla propria identità, accetta di abdicare ai propri diritti.
Accettiamo, senza battere ciglio, che una antimafia isterica e faziosa esponga in vetrina capipopolo assetati di sangue alla ricerca di scorciatoie per carriere altrimenti impensabili,che intellettuali o presunti tali si adagino sulla comoda poltrona del politicamente corretto seguendo, anzi incoraggiando, una conveniente deriva forcaiola invece di riconoscere con Gibran che il male non sta tutto da una parte e che vale la pena intestarsi battaglie scomode, che la magistratura si impadronisca delle nostre vite senza rispondere delle proprie responsabilità e che i politici facciano fughe in avanti incalzati dalla loro viltà e dal terrore del sospetto.
Il risultato è il desolante panorama di una società dalla connotazione incerta in cui tutto può accadere, persino che detenuti che si sono macchiati dei delitti più terribili siano mondati dalla tortura del carcere e assumano il ruolo di vittime, ma anche che il ministro che ha inasprito la tortura se ne vanti, che il DAP ammetta gli errori e gli abusi commessi contro Cucchi e tuttavia gli agenti penitenziari neghino le loro responsabilità, che la pietà sia latitante e il suo posto sia usurpato dal’intransigenza e dalla intolleranza di verità precostituite e obiettivi prefissati che fanno dell’elementare rispetto per l’uomo una variabile soggetta ad arbitrio.
Si capisce allora perché una società siffatta tolleri che i suoi anziani rovistino nei bidoni dell’immondizia nella stagione della loro maggiore fragilità, che nelle livide notti di Natale e Capodanno gli emarginati sociali vivano disperatamente la loro solitudine nel frastuono di suoni e schiamazzi indifferenti, che ai familiari di Cucchi sia negato il diritto di visitare il loro congiunto che di lì a poco andrà incontro alla morte, che un bambino di 7 anni muoia in ospedale per le conseguenze di una banale ingessatura troppo stretta applicata all’arto sano ignorando i lamenti e le proteste per il dolore provocato dall’ingessatura,che scatti una vera e propria caccia all’uomo per il colore della sua pelle, che ai detenuti in regime di 41 bis sia negato il diritto di abbracciare i propri cari, che uomini abbandonati all’inferno delle loro anime si suicidino con cadenza regolare nelle nostre carceri, che nel fascicolo dei detenuti condannati all’ergastolo sia impresso il terribile epitaffio: fine pena, mai!, che agenti penitenziari alle prese con la realtà drammatica della detenzione, finiscano travolti nel destino dei detenuti e si trasformino da “carnefici” in vittime delle loro “vittime”.
Una società siffatta ha tollerato che si recidesse il legame che riconosce nell’esistenza dell’altro la propria esistenza, ha rinunciato alla propria umanità e ha segnato la propria sorte.
Nonostante tutto, buon anno!
Sono le esperienze di quanti, attraverso il delitto, hanno fatto torto alla propria umanità e avvertono il peso di un futuro senza speranza, ma sono anche le esperienze inflitte da una detenzione che ha dimenticato l’eredità dei lumi. Le condizioni inumane in carcere sono il frutto avvelenato della cultura becera di una certa classe politica, della indifferenza con cui l’opinione pubblica ignora una realtà che, voglia o non voglia, le appartiene rimuovendo clamorosi episodi di violenza, della insensibilità di chi dovrebbe scandalizzarsi e non lo fa offrendo a coloro che legiferano e applicano le leggi, l’alibi per il loro cinismo.
Noi tutti che facciamo spallucce e dimentichiamo quello che è accaduto a Cucchi e a Bianzino o facciamo finta di non sapere cosa accade ogni giorno nelle carceri, noi che non riusciamo a indignarci di fronte all’infamia del 41 bis e dell’ergastolo, rischiamo di diventare una massa informe che, abdicando alla propria identità, accetta di abdicare ai propri diritti.
Accettiamo, senza battere ciglio, che una antimafia isterica e faziosa esponga in vetrina capipopolo assetati di sangue alla ricerca di scorciatoie per carriere altrimenti impensabili,che intellettuali o presunti tali si adagino sulla comoda poltrona del politicamente corretto seguendo, anzi incoraggiando, una conveniente deriva forcaiola invece di riconoscere con Gibran che il male non sta tutto da una parte e che vale la pena intestarsi battaglie scomode, che la magistratura si impadronisca delle nostre vite senza rispondere delle proprie responsabilità e che i politici facciano fughe in avanti incalzati dalla loro viltà e dal terrore del sospetto.
Il risultato è il desolante panorama di una società dalla connotazione incerta in cui tutto può accadere, persino che detenuti che si sono macchiati dei delitti più terribili siano mondati dalla tortura del carcere e assumano il ruolo di vittime, ma anche che il ministro che ha inasprito la tortura se ne vanti, che il DAP ammetta gli errori e gli abusi commessi contro Cucchi e tuttavia gli agenti penitenziari neghino le loro responsabilità, che la pietà sia latitante e il suo posto sia usurpato dal’intransigenza e dalla intolleranza di verità precostituite e obiettivi prefissati che fanno dell’elementare rispetto per l’uomo una variabile soggetta ad arbitrio.
Si capisce allora perché una società siffatta tolleri che i suoi anziani rovistino nei bidoni dell’immondizia nella stagione della loro maggiore fragilità, che nelle livide notti di Natale e Capodanno gli emarginati sociali vivano disperatamente la loro solitudine nel frastuono di suoni e schiamazzi indifferenti, che ai familiari di Cucchi sia negato il diritto di visitare il loro congiunto che di lì a poco andrà incontro alla morte, che un bambino di 7 anni muoia in ospedale per le conseguenze di una banale ingessatura troppo stretta applicata all’arto sano ignorando i lamenti e le proteste per il dolore provocato dall’ingessatura,che scatti una vera e propria caccia all’uomo per il colore della sua pelle, che ai detenuti in regime di 41 bis sia negato il diritto di abbracciare i propri cari, che uomini abbandonati all’inferno delle loro anime si suicidino con cadenza regolare nelle nostre carceri, che nel fascicolo dei detenuti condannati all’ergastolo sia impresso il terribile epitaffio: fine pena, mai!, che agenti penitenziari alle prese con la realtà drammatica della detenzione, finiscano travolti nel destino dei detenuti e si trasformino da “carnefici” in vittime delle loro “vittime”.
Una società siffatta ha tollerato che si recidesse il legame che riconosce nell’esistenza dell’altro la propria esistenza, ha rinunciato alla propria umanità e ha segnato la propria sorte.
Nonostante tutto, buon anno!
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