E se invece il regime non ha fallito e ha interrotto i collegamenti, che senso ha inasprirlo?
In verità esso è solo la testimonianza del fallimento dello Stato incapace di controllare le maglie della detenzione ordinaria e di garantire assieme alla sicurezza la tutela della dignità dell’individuo e l’impedimento di inutili angherie. Ai disinvolti liquidatori delle vite altrui raccomandiamo questa lettura terribile ma istruttiva della lettera di un detenuto in regime di 41bis:”Dopo i primi quindici minuti consentiti il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me, incontrò il vetro e battè le mani contro di esso credendo in un gioco, sorrise ancora e ancora battè le mani, poi il sorriso si tramutò in un singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere sempre più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi occhioni spalancati e sgomenti”. Questa lettera merita di essere iscritta nel cippo che un giorno verrà eretto alla memoria del 41bis, come dell’ergastolo, altro prodotto della stupidità umana. L’ergastolo è la condanna ad una finzione di vita che parla solo a se stessa, monca, innaturale, senza connessioni col resto del mondo, è il destino di uomini che hanno nello sguardo una rassegnata disperazione e fanno della finzione una realtà vissuta tenacemente progettando i loro sogni, coltivando le loro speranze, sbirciando fuori dalla loro emarginazione e aspettando un segnale di interesse per la loro sorte, di percepire che a qualcuno importi della loro vita, che qualcuno li consideri e per ciò stesso, perché sono considerati, esistono. Ed esistono e impongono la loro esistenza rivendicando il diritto alle loro intelligenze urticanti e provocatorie contro la beceraggine di quanti vogliono seppellire i loro sogni revocando indubbio l’autenticità del loro sentire e infliggendo loro, assieme ad un futuro negato, l’astio perché osano. Non susciti scandalo l’accostamento della condizione dell’ergastolano a quella vissuta per diciassette anni dall’innocente Emanuela Englaro. Veltroni ha descritto “il corpo di quella ragazza che il dolore, l’assenza di relazione vitale, che un tempo trascorso senza la gioia di sentire il rumore dei propri passi e di quelli degli altri, avrà reso irriconoscibile”. Ebbene gli ergastolani sono ciascuno una storia di sofferenza che, dopo decenni, ricordano appena le proprie origini, sono solo gli avanzi dolenti e confusi dell’antico contesto, ossessionati piuttosto che confortati dal rumore dei propri passi, anch’essi privi di relazioni vitali, anch’essi ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta inutile. “Cercare l’originalità della vendetta è un impresa vana nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, possiamo dire che è maturata una tragedia senza inizio e senza fine”. (La nausea della vendetta di Renè Girard).
L’ergastolo, come la vendetta è una tragedia senza fine in cui l’agostiniano tempo è assente nell'anima di uomini senza più passato, presente e futuro, in cui si dimentica che vittima e carnefice sono i fili intrecciati di un'unica fune, che “insieme sono intessuti il filo bianco e il filo nero e, se il filo nero si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio”. (Gibran)
Nino Mandalà
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