Sono Nino Mandalà appena uscito dal carcere e deciso a dare testimonianza di un mondo sconosciuto ai più, testimonianza nata dalle interminabili discussioni dei “peripatetici” dei cortili carcerari che hanno passeggiato per chilometri e per anni con l’angoscia annidata nel cuore. I fantasmi di questi uomini affollano le mie notti e ad essi va il mio pensiero commosso, con essi mi sento ancora compagno, assieme ad essi continuerò a percepirmi detenuto e come tale mi proporrò nelle mie testimonianze.
Affiderò a questo sito riflessioni maturate in carcere ed altre che via via maturerò a contatto con quella libertà infida che attende al varco noi ex-detenuti con le sue trappole e i suoi pregiudizi duri a morire. Darò voce a uomini murati vivi oltre che dalle barriere fisiche anche dalla crudeltà e dall’indifferenza che, grazie a quella straordinaria “agorà” che è la rete,varcheranno le mura della prigione e riconquisteranno un po’ della perduta libertà. Scriverò di carceri e di giustizia ma affronterò anche tematiche sulle quali l’uomo si è sempre interrogato. Lotterò, urlerò la rabbia di tanti disgraziati e la mia che ho accumulato in lunghi anni di detenzione e che continuerò ad accumulare grazie ad uno Stato stupido e vendicativo.
Dall’introduzione alle “Ragioni della tolleranza” di Salvatore Parlagreco traggo e sottoscrivo: “ La democrazia può degenerare in forme di dispotismo quando eventi contingenti richiedono una sospensione parziale o temporanea dei diritti dei cittadini. Qualche volta lo Stato si trova a dover scegliere fra la libertà e la sicurezza. Il cittadino paga la sicurezza in termini di libertà. È lecito sospettare, ogni volta che ciò accade, un interesse, una manipolazione del consenso, una inefficienza degli organi incaricati di proteggere i cittadini e lo Stato dai criminali, dai mafiosi e dai terroristi […]. Sia i regimi democratici che i regimi dispostici si sono serviti dell’allarme sociale per giustificare la violenza legale e le regole illiberali […]. I luoghi della giustizia esercitano talora l’ingiustizia”.
“ Quello immediatamente successivo all’arresto è un momento magico” è la terribile affermazione attribuita da Bruno Vespa al procuratore di Torino, Marcello Maddalena, ai tempi di Tangentopoli ed essa, se vera, è la cifra dell’impietoso atteggiamento di certi magistrati che non hanno nelle loro corde l’ammonimento sine ira et studio con cui Tacito negli Annali invita alla sobrietà nell’amministrazione della giustizia. Il giudice che non è capace di riservare in un angolo del suo cuore la pietà per la sorte del reo e che anzi gode della sua malasorte, ha annidata in sé l’animosità che presidierà ad una sentenza ingiusta e ispirerà l’applicazione di una detenzione crudele.
È in questo clima di rancore che lo Stato italiano ha “esercitato l’ingiustizia nei luoghi della giustizia” ed è venuto meno al suo compito di mitigare la necessità della detenzione che anzi ha reso più dura infliggendo condizioni di vita intollerabili. È questo lo Stato con cui dobbiamo fare i conti e non solo, perché l’arbitrio e il pregiudizio assumono anche le sembianze di forcaioli a caccia di prede che promuovono condanne evocando “il giudice che abita assieme a noi e che ci chiama sul banco degli imputati mostrandoci robuste catene e solide prigioni in un processo che si trasferisce nella nostra coscienza e scopre colpe di cui non immaginavamo l’esistenza” (Parlagreco dal commento al “Processo” di Kafka). A questi sacerdoti dell’intolleranza che ci “infliggono la più raffinata delle torture che si può infliggere ad un essere umano, quella di dimostrare momento dopo momento la propria innocenza” (Parlagreco), non concederò sconti.
A quanti infine tenteranno di manipolare il mio pensiero accusandomi di simpatie per la mafia, dico che il mio garantismo non prevede indulgenze nei confronti dei rei le cui responsabilità, se accertate, è giusto che siano punite (ci mancherebbe), ma ho ferma l’idea che sia altrettanto giusto garantire il rispetto delle regole nei confronti dei rei, persino nei confronti del peggiore di essi.
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lunedì 28 settembre 2009
Intimidazione mafiosa
Gasparri, contro la lettera aperta di Vendola al PM Desirèe Digeronimo, tuona: “E’ una intimidazione mafiosa! “. Bisogna che il battagliero capogruppo del PDL al Senato aggiorni il suo lessico quando parla di intimidazioni. Oggi, se vogliamo rendere giustizia all’Universale aristotelico che individua il genere e dunque dare pieno significato alla parola “intimidazione”, non dobbiamo ricorrere all’inflazionata e spuntata qualificazione mafiosa bensì al ben più efficace e inquietante termine giacobino con cui si identifica la casta degli intoccabili depositari della morale pubblica che vantano il monopolio della verità e sono legittimati dal loro moralismo alla menzogna.
Del 41 bis e dell’ergastolo
Il pacchetto sicurezza, approvato recentemente dal governo Berlusconi, prevede, fra le altre misure, l’inasprimento del regime del 41 bis. La spietatezza di questo inasprimento non risiede, come si può pensare, nella esigenza di maggiore sicurezza ma nella cattiva coscienza degli intransigenti dell’ultima ora impegnati a misurarsi in fughe in avanti ostentando una innocente e sdegnata intolleranza e murando vivi i mafiosi, i soli colpevoli da offrire alla bulimia dell’opinione pubblica. A nessuno come a questi signori si adattano le parole di Kahlil Gibran a proposito del delitto e del castigo: >. Lo Stato ha dimenticato di essere pianta e ha risposto con furore vendicativo alla stagione di follia mafiosa, scivolando nella deriva di una crudeltà gratuita e abdicando a un ruolo equilibratamente severo. Con questo spirito Esso ha istituito, e ancora di più ne chiede l’inasprimento, il 41 bis, misura disumana che contraddice tutti gli standard solennemente proclamati dalla Costituzione italiana e dalla Dichiarazione internazionale sui diritti dell’uomo, e incongruente sul piano logico. Se infatti in regime di 41bis il detenuto ha continuato a mantenere rapporti con la criminalità organizzata, che senso ha il mantenimento di un regime che ha fallito?
E se invece il regime non ha fallito e ha interrotto i collegamenti, che senso ha inasprirlo?
In verità esso è solo la testimonianza del fallimento dello Stato incapace di controllare le maglie della detenzione ordinaria e di garantire assieme alla sicurezza la tutela della dignità dell’individuo e l’impedimento di inutili angherie. Ai disinvolti liquidatori delle vite altrui raccomandiamo questa lettura terribile ma istruttiva della lettera di un detenuto in regime di 41bis:”Dopo i primi quindici minuti consentiti il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me, incontrò il vetro e battè le mani contro di esso credendo in un gioco, sorrise ancora e ancora battè le mani, poi il sorriso si tramutò in un singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere sempre più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi occhioni spalancati e sgomenti”. Questa lettera merita di essere iscritta nel cippo che un giorno verrà eretto alla memoria del 41bis, come dell’ergastolo, altro prodotto della stupidità umana. L’ergastolo è la condanna ad una finzione di vita che parla solo a se stessa, monca, innaturale, senza connessioni col resto del mondo, è il destino di uomini che hanno nello sguardo una rassegnata disperazione e fanno della finzione una realtà vissuta tenacemente progettando i loro sogni, coltivando le loro speranze, sbirciando fuori dalla loro emarginazione e aspettando un segnale di interesse per la loro sorte, di percepire che a qualcuno importi della loro vita, che qualcuno li consideri e per ciò stesso, perché sono considerati, esistono. Ed esistono e impongono la loro esistenza rivendicando il diritto alle loro intelligenze urticanti e provocatorie contro la beceraggine di quanti vogliono seppellire i loro sogni revocando indubbio l’autenticità del loro sentire e infliggendo loro, assieme ad un futuro negato, l’astio perché osano. Non susciti scandalo l’accostamento della condizione dell’ergastolano a quella vissuta per diciassette anni dall’innocente Emanuela Englaro. Veltroni ha descritto “il corpo di quella ragazza che il dolore, l’assenza di relazione vitale, che un tempo trascorso senza la gioia di sentire il rumore dei propri passi e di quelli degli altri, avrà reso irriconoscibile”. Ebbene gli ergastolani sono ciascuno una storia di sofferenza che, dopo decenni, ricordano appena le proprie origini, sono solo gli avanzi dolenti e confusi dell’antico contesto, ossessionati piuttosto che confortati dal rumore dei propri passi, anch’essi privi di relazioni vitali, anch’essi ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta inutile. “Cercare l’originalità della vendetta è un impresa vana nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, possiamo dire che è maturata una tragedia senza inizio e senza fine”. (La nausea della vendetta di Renè Girard).
L’ergastolo, come la vendetta è una tragedia senza fine in cui l’agostiniano tempo è assente nell'anima di uomini senza più passato, presente e futuro, in cui si dimentica che vittima e carnefice sono i fili intrecciati di un'unica fune, che “insieme sono intessuti il filo bianco e il filo nero e, se il filo nero si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio”. (Gibran)
Nino Mandalà
E se invece il regime non ha fallito e ha interrotto i collegamenti, che senso ha inasprirlo?
In verità esso è solo la testimonianza del fallimento dello Stato incapace di controllare le maglie della detenzione ordinaria e di garantire assieme alla sicurezza la tutela della dignità dell’individuo e l’impedimento di inutili angherie. Ai disinvolti liquidatori delle vite altrui raccomandiamo questa lettura terribile ma istruttiva della lettera di un detenuto in regime di 41bis:”Dopo i primi quindici minuti consentiti il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me, incontrò il vetro e battè le mani contro di esso credendo in un gioco, sorrise ancora e ancora battè le mani, poi il sorriso si tramutò in un singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere sempre più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi occhioni spalancati e sgomenti”. Questa lettera merita di essere iscritta nel cippo che un giorno verrà eretto alla memoria del 41bis, come dell’ergastolo, altro prodotto della stupidità umana. L’ergastolo è la condanna ad una finzione di vita che parla solo a se stessa, monca, innaturale, senza connessioni col resto del mondo, è il destino di uomini che hanno nello sguardo una rassegnata disperazione e fanno della finzione una realtà vissuta tenacemente progettando i loro sogni, coltivando le loro speranze, sbirciando fuori dalla loro emarginazione e aspettando un segnale di interesse per la loro sorte, di percepire che a qualcuno importi della loro vita, che qualcuno li consideri e per ciò stesso, perché sono considerati, esistono. Ed esistono e impongono la loro esistenza rivendicando il diritto alle loro intelligenze urticanti e provocatorie contro la beceraggine di quanti vogliono seppellire i loro sogni revocando indubbio l’autenticità del loro sentire e infliggendo loro, assieme ad un futuro negato, l’astio perché osano. Non susciti scandalo l’accostamento della condizione dell’ergastolano a quella vissuta per diciassette anni dall’innocente Emanuela Englaro. Veltroni ha descritto “il corpo di quella ragazza che il dolore, l’assenza di relazione vitale, che un tempo trascorso senza la gioia di sentire il rumore dei propri passi e di quelli degli altri, avrà reso irriconoscibile”. Ebbene gli ergastolani sono ciascuno una storia di sofferenza che, dopo decenni, ricordano appena le proprie origini, sono solo gli avanzi dolenti e confusi dell’antico contesto, ossessionati piuttosto che confortati dal rumore dei propri passi, anch’essi privi di relazioni vitali, anch’essi ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta inutile. “Cercare l’originalità della vendetta è un impresa vana nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, possiamo dire che è maturata una tragedia senza inizio e senza fine”. (La nausea della vendetta di Renè Girard).
L’ergastolo, come la vendetta è una tragedia senza fine in cui l’agostiniano tempo è assente nell'anima di uomini senza più passato, presente e futuro, in cui si dimentica che vittima e carnefice sono i fili intrecciati di un'unica fune, che “insieme sono intessuti il filo bianco e il filo nero e, se il filo nero si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio”. (Gibran)
Nino Mandalà
Della giustizia in Italia
Le vicende giudiziarie fanno emergere tratti comuni ai buoni come ai cattivi, la stupidità e la cattiveria, frutti avvelenati della consuetudine con il male.
Passi per i cattivi che del male hanno fatto una scelta di vita, ma i buoni?
Ebbene anche essi, i giudici che hanno scelto di combattere il male, a causa della loro familiarità con il mondo del crimine, hanno concepito un pessimismo intransigente dal quale si lasciano guidare nella loro azione giudiziaria. In conseguenza di ciò esercitano la loro funzione con una severità priva di pietas, con una incapacità di capire che episodi, contesti e quant’altro possono nascondere un colpevole ma anche un innocente, con una intolleranza che li induce a comportamenti sacerdotali da cui fanno discendere assiomi non sfiorati da dubbio alcuno. Tutto ciò porta a risultati devastanti non solo per la vita di tanti uomini ma per la stessa credibilità della giustizia amministrata con la stessa disinvolta crudeltà della criminalità che combatte.
Gli uomini dello Stato, assieme a sacrosante battaglie contro, non hanno saputo combattere battaglie altrettanto sacrosante per, ad esempio in difesa della dignità della persona ed anzi si sono macchiati di offese contro di essa. E’ difficile che sia compresa da parte di chi non ha vissuto esperienze giudiziarie nel nostro Paese, la disperazione di chi ha subito vicende kafkiane senza che siano state rispettate le regole ed anzi essendo state truccate le carte. E’ difficile immaginare la scarsa considerazione in cui è tenuto il destino di presunti innocenti da parte di alcuni magistrati convinti che è loro compito redimere la società piuttosto che amministrare la giustizia non curandosi se sull’altare della loro “missione” debba essere sacrificata qualche vita. Fassino, all’epoca del suo incarico al dicastero di grazia e giustizia, a proposito della separazione delle carriere dei magistrati, ebbe a dire che la separazione avrebbe danneggiato l’imputato perché, mutando la veste del P.M., sarebbe stato sottratto un contributo in più all’accertamento della eventuale innocenza dell’imputato cui la pubblica accusa è per legge tenuta. L’ingenuità e la buona fede di Fassino cozzano contro i quotidiani episodi di cui sono protagonisti i P.M. che sottraggono all’esame del giudice elementi a favore dell’imputato.
E non è tollerabile che ad un quadro così drammatico, in cui è a rischio il diritto di tutti, faccia da cornice la pavidità dell’ordine forense e il silenzio osceno di una stampa bacchettona e vile che non sa intestarsi, salvo rare eccezioni, battaglie scomode, limitandosi a diffondere le veline che le vengono passate dal Palazzo. Platone nel 1° libro di Repubblica fa dire a Trasimaco “La giustizia non è nient’altro che l’interesse del più forte.” Credo che, nonostante lo sforzo di Socrate di capovolgere la tesi di Trasimaco, questa rimanga purtroppo una verità amara e ancora oggi attuale.
Passi per i cattivi che del male hanno fatto una scelta di vita, ma i buoni?
Ebbene anche essi, i giudici che hanno scelto di combattere il male, a causa della loro familiarità con il mondo del crimine, hanno concepito un pessimismo intransigente dal quale si lasciano guidare nella loro azione giudiziaria. In conseguenza di ciò esercitano la loro funzione con una severità priva di pietas, con una incapacità di capire che episodi, contesti e quant’altro possono nascondere un colpevole ma anche un innocente, con una intolleranza che li induce a comportamenti sacerdotali da cui fanno discendere assiomi non sfiorati da dubbio alcuno. Tutto ciò porta a risultati devastanti non solo per la vita di tanti uomini ma per la stessa credibilità della giustizia amministrata con la stessa disinvolta crudeltà della criminalità che combatte.
Gli uomini dello Stato, assieme a sacrosante battaglie contro, non hanno saputo combattere battaglie altrettanto sacrosante per, ad esempio in difesa della dignità della persona ed anzi si sono macchiati di offese contro di essa. E’ difficile che sia compresa da parte di chi non ha vissuto esperienze giudiziarie nel nostro Paese, la disperazione di chi ha subito vicende kafkiane senza che siano state rispettate le regole ed anzi essendo state truccate le carte. E’ difficile immaginare la scarsa considerazione in cui è tenuto il destino di presunti innocenti da parte di alcuni magistrati convinti che è loro compito redimere la società piuttosto che amministrare la giustizia non curandosi se sull’altare della loro “missione” debba essere sacrificata qualche vita. Fassino, all’epoca del suo incarico al dicastero di grazia e giustizia, a proposito della separazione delle carriere dei magistrati, ebbe a dire che la separazione avrebbe danneggiato l’imputato perché, mutando la veste del P.M., sarebbe stato sottratto un contributo in più all’accertamento della eventuale innocenza dell’imputato cui la pubblica accusa è per legge tenuta. L’ingenuità e la buona fede di Fassino cozzano contro i quotidiani episodi di cui sono protagonisti i P.M. che sottraggono all’esame del giudice elementi a favore dell’imputato.
E non è tollerabile che ad un quadro così drammatico, in cui è a rischio il diritto di tutti, faccia da cornice la pavidità dell’ordine forense e il silenzio osceno di una stampa bacchettona e vile che non sa intestarsi, salvo rare eccezioni, battaglie scomode, limitandosi a diffondere le veline che le vengono passate dal Palazzo. Platone nel 1° libro di Repubblica fa dire a Trasimaco “La giustizia non è nient’altro che l’interesse del più forte.” Credo che, nonostante lo sforzo di Socrate di capovolgere la tesi di Trasimaco, questa rimanga purtroppo una verità amara e ancora oggi attuale.
sabato 5 settembre 2009
Dell’Italia democratica
“Rispetto ed obbedienza ai magistrati anche se sono contraffatti”.
Dalle “Cattedre della virtù” Nietzsche ci ammonisce al rispetto per i magistrati anche per quelli “contraffatti” e tale rispetto a maggior ragione si deve ad un magistrato solitamente misurato quale il dottor Pietro Grasso. Senonchè, in occasione della presentazione del suo libro “Per non morire di mafia”, il procuratore nazionale antimafia ha abbandonato la sua consueta misura dichiarando che in Italia non c’è piena democrazia e che “bisogna bloccare chi vuole controllare giornalisti e magistrati”.
Stupisce che un alto rappresentante delle istituzioni democratiche disconosca la legittimità delle Istituzioni che rappresenta al punto da suggerire di “bloccare” le iniziative da queste poste in essere. Quasi che, rappresentando egli il bene, pretenda di stabilire ciò che è giusto e ingiusto e si arroghi il diritto di relegare nella sentina del male ciò che ha bollato come ingiusto solo perché non è gradito alla magistratura. Ma il bavaglio lamentato dal superprocuratore è arbitrario o è frutto di una legittima attività parlamentare e questa attività finisce di essere democratica solo perché lambisce certi santuari?
La magistratura è fatta di uomini che possono svolgere la loro funzione in maniera impeccabile ma possono, anche se in buona fede, lasciare il segno di una decisione ingiusta nella vita di altri uomini.
Nel rivendicare la propria autonomia essa non può ritenersi legibus soluta e deve dare prova di meritare questa autonomia vigilando, grazie all’opera di controllo partorita dal proprio seno, che uomini i quali dipendono dall’enorme potere di questa autonomia, non siano in balia dell’arbitrio.
Quando, come nel mio caso, un magistrato ha deciso di sequestrare l’unico bene di cui dispongo, due appartamenti donatimi da mia madre nel 1969, giustificando il provvedimento con la motivazione che questi appartamenti provengono da miei illeciti guadagni, quando, dopo tre anni di carcere e di conseguente tracollo finanziario, mi viene impedito di vendere questi beni, palesemente leciti, per far fronte alle emergenze causate dalla mia detenzione, quando osservo il volto smarrito dei miei cari i quali non riescono a farsi una ragione di tutto questo, allora io dico che è giusto “non morire di mafia” ma che è altrettanto giusto “non morire di antimafia” e che è vero quanto afferma il procuratore Grasso, cioè che in Italia non c’è piena democrazia.
Dalle “Cattedre della virtù” Nietzsche ci ammonisce al rispetto per i magistrati anche per quelli “contraffatti” e tale rispetto a maggior ragione si deve ad un magistrato solitamente misurato quale il dottor Pietro Grasso. Senonchè, in occasione della presentazione del suo libro “Per non morire di mafia”, il procuratore nazionale antimafia ha abbandonato la sua consueta misura dichiarando che in Italia non c’è piena democrazia e che “bisogna bloccare chi vuole controllare giornalisti e magistrati”.
Stupisce che un alto rappresentante delle istituzioni democratiche disconosca la legittimità delle Istituzioni che rappresenta al punto da suggerire di “bloccare” le iniziative da queste poste in essere. Quasi che, rappresentando egli il bene, pretenda di stabilire ciò che è giusto e ingiusto e si arroghi il diritto di relegare nella sentina del male ciò che ha bollato come ingiusto solo perché non è gradito alla magistratura. Ma il bavaglio lamentato dal superprocuratore è arbitrario o è frutto di una legittima attività parlamentare e questa attività finisce di essere democratica solo perché lambisce certi santuari?
La magistratura è fatta di uomini che possono svolgere la loro funzione in maniera impeccabile ma possono, anche se in buona fede, lasciare il segno di una decisione ingiusta nella vita di altri uomini.
Nel rivendicare la propria autonomia essa non può ritenersi legibus soluta e deve dare prova di meritare questa autonomia vigilando, grazie all’opera di controllo partorita dal proprio seno, che uomini i quali dipendono dall’enorme potere di questa autonomia, non siano in balia dell’arbitrio.
Quando, come nel mio caso, un magistrato ha deciso di sequestrare l’unico bene di cui dispongo, due appartamenti donatimi da mia madre nel 1969, giustificando il provvedimento con la motivazione che questi appartamenti provengono da miei illeciti guadagni, quando, dopo tre anni di carcere e di conseguente tracollo finanziario, mi viene impedito di vendere questi beni, palesemente leciti, per far fronte alle emergenze causate dalla mia detenzione, quando osservo il volto smarrito dei miei cari i quali non riescono a farsi una ragione di tutto questo, allora io dico che è giusto “non morire di mafia” ma che è altrettanto giusto “non morire di antimafia” e che è vero quanto afferma il procuratore Grasso, cioè che in Italia non c’è piena democrazia.
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