I nuovi arrivati ai vertici del potere, in preda ad una
insopprimibile sindrome di hybris, ci
ossessionano con il mantra della legittimazione elettorale: secondo questi
signori, i soli che meritano di essere presi in considerazione sono gli eletti
anche se inetti. Issati a bordo del potere a furor di un popolo con la bava
alla bocca che ha come unico scopo quello di farla pagare a chi li ha li ha
lasciati eredi del disastro attuale, questi miracolati non hanno saputo
cogliere l’occasione offerta dalla loro buona stella e trasformarla in
opportunità. Nella presunzione che il suffragio li esima dalla competenza, non
hanno avvertito il senso del ruolo insperatamente conquistato e non si sono
sforzati di realizzare il bene dei cittadini con l’arte del possibile ma, al
contrario, si sono prodotti in una vera e propria eterogenesi dei fini proponendo
rimedi che rischiano di peggiorare anziché migliorare le condizioni di salute
dell’ammalato. Si scagliano contro la democrazia rappresentativa che affida il
compito di governare alle élite selezionate attraverso un lungo percorso
formativo, pretendendo di realizzare la cosiddetta democrazia diretta che manda
al potere i campioni di un velleitarismo e di un pressappochismo il cui
indirizzo all’azione politica è dettato dal gradimento di una base fanatica che
trasmette veleni anziché saggezza. Il coraggio della solitudine degli uomini di
Stato che sanno andare controcorrente pur di fare il bene comune, è un
ingrediente che non appartiene agli attuali governanti i quali sanno solo perseguire l’obiettivo
contingente del consenso ad ogni costo, anche a costo di sfasciare la macchina
dello Stato. Evocano pericoli esterni, si scagliano contro fantomatici poteri
forti e contro l’Europa matrigna (che ha tanto da farsi perdonare per avere tradito
la sua vocazione solidale adottando una politica restrittiva che ha scoraggiato
la crescita, fatto diminuire il PIL, aumentare il debito e ha contribuito a innescare
rigurgiti “sovranisti”, ma alla quale
non c’è alternativa che non sia l’isolamento con conseguenze facilmente immaginabili), quando
invece l’unico vero pericolo arriva dai mercati, giudici inflessibili che non cedono
alla suggestione dei proclami. I numeri, veri indicatori del nostro stato di
salute, dicono che lo spread ha superato quota 300, che il nostro debito
pubblico è il più elevato d’Europa, dopo quello greco, che lo spettro del piano
B è ancora dietro l’angolo nonostante le rassicurazioni, che l’aumento del
deficit rispetto al PIL serve solo alla spesa corrente e ad alimentare un
assistenzialismo improduttivo e non una crescita che nelle proiezioni degli analisti è
addirittura dato sempre più in coda al
treno europeo, che prima o poi si porrà mano alla falcidia dei risparmi
privati, che i proclamati investimenti pubblici e le ventilate riforme
strutturali sono smentiti dalla tentazione di abbandonare alla incompiutezza
opere straordinarie e strategiche per il futuro del Paese, con enormi ricadute
in termini di occupazione e sviluppo, quali la Tav, la Tap, il tunnel del
Brennero scavato già per 90 chilometri e costato 1,8 miliardi,etc., e di
imbarcare nel carrozzone pubblico aziende decotte come l’Alitalia. Questo
scenario da ultima spiaggia è sotto gli occhi dei mercati i quali traggono le
loro conclusioni con spietata coerenza. Cercare altrove responsabilità è
strumentale e disonesto.
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venerdì 26 ottobre 2018
sabato 13 ottobre 2018
Travaglio
Durante un duello televisivo con Severgnini, Marco Travaglio
ha sentenziato: “Due istituzioni, FMI e Bankitalia non sono elettivi e non
possono permettersi di dire ai governi quali leggi devono fare, quali devono
mantenere, quali non possono cambiare e quali possono cambiare. Avrebbero
semmai potuto dire che le stime di crescita del governo sono troppo
ottimistiche e questo è quello che hanno detto agli altri governi. Invece con
questo governo hanno fatto qualcosa di più, hanno detto che cosa non si può
toccare. Io capisco che a tanti non importa che la maggioranza degli elettori
chieda che siano riformati il iobs Act e la legge Fornero e sia introdotto il
reddito di cittadinanza ma, purtroppo, fino a quando nella Costituzione ci sarà
scritto che la sovranità appartiene al popolo, la sovranità apparterrà al
popolo e non a Bankitalia o al FMI. Quando il popolo si pronuncia e premia due
forze che vogliono riformare delle leggi queste ultime vanno riformate. Si può
criticare quelle forze che non trovano le coperture ma non gli si può dire che
cosa possono o non possono fare, perché quelle scelte riguardano la politica”.
In un suo editoriale apparso sul Corriere dell’altro ieri il prof. Cassese
sostiene esattamente il contrario. Egli infatti, commentando la dichiarazione
dell’on. Di Maio che invita Bankitalia a candidarsi alle prossime elezioni
affermando che solo ricevendo il mandato dalla volontà popolare essa può
sindacare l’azione del governo, scrive: “Per il vicepresidente del Consiglio tutto
il potere discende dal popolo ed è sempre il popolo che, mediante le elezioni,
deve pronunciarsi. La democrazia è ridotta ad elezioni e anche i vertici della
Banca d’Italia debbono presentarsi all’elettorato o sottostare alla volontà del
governo. Questa è una versione romanzata della democrazia che, invece, ha al
suo interno poteri e contropoteri, non tutti con una investitura popolare
diretta. Le corti giudiziarie, la Corte costituzionale, le autorità
indipendenti, le università, sono corpi autonomi, alcuni garantiti come tali
dalla Costituzione.” E procede spiegando che cosa è il pluralismo in
democrazia, come si impedisce la tirannide della maggioranza e si garantiscono
i diritti individuali nei confronti dell’opinione e dei sentimenti prevalenti
grazie ai pesi e contrappesi che servono a equilibrare i poteri dello Stato,
come ci hanno insegnato pensatori quali Alexis de Tocqueville e Stuart Mill le
cui idee sono state alla base della democrazia moderna. La lezione del prof.
Cassese dovrebbe servire a far capire a Travaglio che la sovranità popolare non
può tutto e va esercitata solo entro i confini posti dal dettato costituzionale
il quale peraltro attribuisce ad altri poteri altrettanta sovranità non
condizionabile. Che è vero che agli eletti dal popolo non si può dire quello
che debbono fare ma è altrettanto vero che gli si può benissimo dire quello che
non possono fare. E una cosa che non
possono fare, neanche in omaggio alla volontà del popolo, è sfasciare lo Stato.
Ci sono gli anticorpi costituzionali che l’impediscono e dovrebbe esserci anche
il buonsenso degli stessi eletti i quali debbono sapere esercitare il loro
ruolo di guida e discernere ciò che la dura realtà consente di fare,
contrastando l’assalto all’albero della cuccagna dei loro stessi elettori e scoraggiando
istanze che, ahinoi, appartengono al libro dei sogni. E’ nobile tentare di
correggere una realtà che tutti riconosciamo ingiusta e fanno bene i nuovi
governanti a tentare di farlo purché non si lascino prendere la mano dalle loro
buone intenzioni e non ci raccontino la favola dell’abolizione della povertà. Di
buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno tanto per citare il buon Marx
e non è il caso di buttare con l’acqua sporca anche il bambino. E tanto per
essere chiari, come fa giustamente notare il prof. Cassese, 16 milioni di
votanti che hanno premiato i due partiti di governo, non sono la maggioranza
degli italiani aventi diritto di voto.
venerdì 12 ottobre 2018
Saviano
Da cronista impegnato a inseguire per i vicoli di Scampia notizie
sui fatti di sangue della camorra, a icona della galleria delle patacche
allestita dai sacerdoti del politicamente corretto, Saviano ne ha fatta di
strada. Star tra le più ambite nei
salotti che contano, al punto da essere stato ricevuto all’Eliseo e avere
vissuto una serata da protagonista a casa di Bernard-Henry-Lévy, idolo dei talk
show che se lo contendono trattandolo come un oracolo, egli è l’esempio di come
dal nulla nasce un mito. La fulminea escalation del guaglione rampante si inquadra
nella necessità della nomenklatura intellettuale imperante di sostituire vecchi
arnesi, contrabbandati per anni quali paladini dei diritti fondamentali e nel
frattempo andati in pezzi, con nuovi campioni
improbabili ma utili ad alimentare il mito di un déjà-vu caduto in disgrazia. E’
una necessità che non riguarda solo la galassia italiana tanto è che l’inossidabile Bernard Henry-Levy, cui non fa
certo difetto la faccia tosta e che è stato uno degli artefici della crociata
contro Gheddafi millantando la difesa dei diritti umani, con i risultati che
sono sotto gli occhi di tutti, non pago del suo capolavoro, si è lanciato nella
nuova titanica impresa di portare sugli scudi nientemeno che Saviano
difficilmente individuabile quale titolare di meriti che giustifichino la sua accoglienza
come ospite d’onore in uno dei salotti più esclusivi dell’intellighenzia francese.
Pur di issare uno straccio di vessillo ideologico lo spocchioso Henry-Levy è
disposto ad accontentarsi di un tribuno che ha saputo dargliela a bere, senza
star lì a fare troppo lo schizzinoso. D’altronde in fatto di patacche la
Francia non è seconda a nessuno, avendo essa ospitato nientemeno che nelle
vesti di rifugiati politici, fior di galantuomini come Toni Negri e Cesare
Batisti, fatte naturalmente le debite differenze. I nostri intellettuali dal
loro canto, a corto di argomenti e di eroi, sconfitti in tutti i campi in cui
si sono cimentati e dove hanno lasciato solo macerie, hanno eletto a loro campione Saviano il quale
non si è fatto pregare e, investito del ruolo, non ha esitato a proclamarsi la
coscienza più autentica di una Italia virtuosa. Ispirandosi a categorie
manichee egli stabilisce cosa è giusto o cosa non lo è, chi è santo e chi è
diavolo, se condannare Salvini che, essendo un diavolo non può non avere violato
la legge, e assolvere Mimmo Lucano che ha, si, violato la legge ma con i panni
del santo. Niente di nuovo in un universo che da sempre procede per dogmi, in
cui si fa valere il principio di due pesi e due misure a seconda della
categoria di appartenenza, ma non lamentiamoci poi se i barbari sono alle
porte. Nessuno disconosce i meriti e il coraggio di Saviano dimostrati nella
sua denuncia dei misfatti della camorra e l’idea di privarlo della scorta è
insensata, ma è altrettanto insensato fare di lui il re travicello che decide
che cosa è giusto e cosa non lo è. Il signor Saviano costruisca pure sulla sua
vicenda una fruttuosa rendita di posizione ma per carità non pretenda di
colonizzare le nostre coscienze raccontandoci che la sua coscienza è più
consapevole e candida della nostra.
mercoledì 3 ottobre 2018
Di Maio
Se fossimo un popolo che ha a cuore il proprio destino
dovremmo sentire il puzzo di carne marcia che esala dal nostro organismo in
putrefazione. Siamo un Paese allo
sfascio e la finanza allegra alla quale si dedicano i grillini ricorda l’anima
spensierata dei governanti che li hanno preceduti e lasciati eredi di vizi
antichi. Questi strani personaggi piombati sulla scena politica e il loro capo,
l’on. Di Maio, più che a politici somigliano ad un allegra brigata di fanciulli
che si baloccano con un giocattolo più grande di loro trotterellando sul
cavallo a dondolo della decrescita felice.
L’on. Di Maio ha nel volto glabro di bambino mai cresciuto le fattezze
di un pierino capriccioso che scambia le favole con la realtà e fa le bizze se
non viene accontentato. Calca la scena nazionale e internazionale come fosse il
cortile di casa e gioca le partite dei grandi dove sono in ballo le sorti delle
nazioni come una partita a tresette nel circolo di quartiere. Il guaio è che egli è solo la punta dell’iceberg
di una massa informe, incapace di pensare, sedotta dagli spin doctor che manipolano
le menti e drogano la rete inserendo in essa veleni che incitano alla rivolta e
producono refrains demenziali. Siamo alla dissennatezza in libera uscita e Di
Maio ne è l’interprete più autentico. Vedere all’opera il nostro vice
presidente del Consiglio fa tremare i polsi. Poiché è stato eletto dal popolo l’on.
Di Maio ritiene di potersi permettere tutto, anche di infischiarsi della
Costituzione e di ribaltare prassi collaudate, piegare uomini e regole ai suoi
capricci, chiedere avventatamente l’impeachment contro il Capo dello Stato,
fare la guerra alle autorità indipendenti accusandole di essere nemiche del
popolo, fuggire dalle proprie responsabilità ed evocare fantomatici congiurati che
tramano nell’ombra, condurre battaglie che appaiono generose ma che sono velleitarie. La battaglia in difesa dei più deboli di cui
pretende di farsi unico interprete l’on. Di Maio, è sacrosanta e non è certo
lui che ce lo deve ricordare perché essa rientra tra i compiti fondamentali della
politica, ma è altrettanto saggio non fare correre nel nome di questa battaglia rischi
mortali al Paese con ricette suicide. Ed
è sacrosanta anche la battaglia contro la finanza globale che ha ormai preso il
sopravvento sulla politica, una battaglia che però deve sapere recuperare
anziché demonizzare la politica, l’unico strumento, se utilizzato in maniera
virtuosa, di cui disponiamo a sostegno della
stessa sopravvivenza della democrazia e della lotta a favore dei più deboli. Gli
avversari politici infine non sono nemici da mettere all’indice solo perché osano
opporsi al dogma del pensiero unico predicato dal nostro, essi al contrario hanno
il merito di dare un contributo di idee che possono essere condivise o no ma
che sono legittime e utili al dibattito politico. Issato dal popolo ai vertici
dello Stato, preso di sé e della presunzione di operare miracoli come
nientemeno quello di abolire la povertà, l’on. Di Maio svolge diligentemente e
più o meno consapevolmente il ruolo di utile idiota al servizio del famigerato
piano B di cui si è infatuato probabilmente perché non ha ben ponderato la
portata delle conseguenze che ne deriverebbero. Quando da piccoli giocavamo a
mosca cieca capitava spesso di dovere fare i conti con bizzosi compagnetti che
non accettavano le regole del gioco e pretendevano di imporre quelle che gli
suggeriva l’educazione al soddisfacimento del loro ego impartita da genitori
inadeguati. I progenitori di Di Maio, purtroppo per noi, non sono inadeguati ma
perfidamente capaci di confezionare il pupo che interpreta fedelmente la parte
che gli è stata assegnata. Ci sorge però un dubbio, forse non abbiamo capito un
bel nulla, forse non abbiamo capito che il nostro Richelieu pensa con la
propria testa e ha una propria strategia, quella cioè di andare ai materassi
(lo ha scritto a suo tempo Grillo), cavalcare l’ira della gente perpetuando un
clima di conflitto in cui agitare la solita bandiera populista che colmi il
vuoto nel quale volteggia la sua distopia e, anche grazie alla concessione di
mance assistenziali, continuare a incassare dividendi elettorali. Un’altra
spiegazione potrebbe essere la voglia di rivincita di chi, baciato dalla
fortuna, si è ubriacato del suo nuovo stato, ha perso il senso della misura e,
come tutti i nuovi arricchiti, si prende la sua brava rivincita abusando del potere
conquistato e illudendosi così di riscattare il suo passato di travet. E l’interesse del popolo? Quella è un’altra
storia che non ha niente a che vedere con la battaglia dell’on. Di Maio.
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