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sabato 9 aprile 2016

L’intervista a Salvo Riina

L’intervista rilasciata da Salvo Riina a Bruno Vespa e mandata in onda su “Porta a Porta”, si è tradotta nel più classico degli autogol per questo giovane che ha tentato una improbabile operazione di make up mancando l’obiettivo. Uno come Salvo Riina, nel momento in cui si prestava ad accettare un’intervista destinata a ruotare fatalmente attorno al fenomeno mafioso e al nome di cotante padre, doveva sapere che non avrebbe potuto limitarsi a rivendicare i diritti del suo vincolo parentale smarcandosi da un giudizio sulla mafia e sulla figura del padre. A nessuno, credo, interessi più di tanto apprendere che egli ama suo padre, ma a tutti interessa apprendere se egli, senza rinnegare il suo affetto filiale, prenda le distanze da un uomo indicato come il capo assoluto di un autentico impero del male. Se ha accettato di esporsi in una intervista che doveva immaginare pena d’insidie, doveva accettare anche di mettersi in gioco fino in fondo ed evitare di fare il pesce in barile. Detto questo, dobbiamo purtroppo registrare il solito balletto ipocrita messo in scena da chi lamenta che la Rai non doveva concedere una platea così vasta al figlio del boss dei boss. Tanto per cambiare cadiamo nella solita intolleranza degli ottusi paladini della censura ad oltranza che non vanno oltre il loro naso. Mandando in onda l’intervista a Salvo Riina, la Rai ci ha fatto conoscere attraverso la fissità dello sguardo e i tratti marmorei del viso dell’intervistato l’ineluttabilità della condizione di cui questi è prigioniero e l’inesorabilità di una logica demenziale declinata inespressivamente, col vuoto negli occhi, da un giovane che, come ha detto Felice Cavallaro, sembrava sbarcato da Marte, l’unico pianeta che ha avuto in sorte di conoscere. L’intervista descrive come meglio non poteva la spietatezza di questa condizione e ci fa toccare con mano magistralmente l’insensatezza del mondo da cui essa proviene e i limiti imbarazzanti dell’intervistato. Dove è dunque il rischio insito in essa, chi può prendere in seria considerazione le affermazioni di Salvo Riina quando egli sostiene che lo Stato ha avuto la colpa di averlo privato del padre, più tutta una serie di amenità di cui è infarcita l’intervista? Altro che favore fatto a Salvo Riina e alla mafia, questa intervista è, ripeto, un autogol. E invece si è gridato al lupo secondo il vizietto caro ai perbenisti in servizio permanente che, più che combattere la mafia, danno la stura al loro isterismo sterile. A un certo punto della trasmissione l’avvocato Li Gotti e Felice Cavallaro hanno lamentato che una certa antimafia di facciata è servita a procacciare carriere e prebende, suscitando le proteste di Dario Riccobono di Addio Pizzo il quale ha rivendicato i meriti di un’antimafia senza macchia che non va demonizzata. Nessuno nega i meriti dell’antimafia ma questo non deve impedire che essa guardi al proprio interno e monitori il marcio che vi si può annidare. Un esempio di intransigenza auto assolutoria persino in presenza di segnali inquietanti che giungevano dal mondo dell’antimafia, si è avuto allorché l’on. Rosy Bindi ha bacchettato sdegnata il prefetto Caruso colpevole di avere avanzato dei dubbi sull’operato della Sezione per le misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Abbiamo visto come è andata a finire ed è il caso di dire che la presunzione di una purezza che non va mai messa in discussione pena l’accusa del delitto di lesa maestà, non rende un buon servizio alla lotta contro la mafia. La cronaca degli ultimi tempi costellata di episodi che narrano di marioli assisi sul cadregino dell’antimafia intenti a fare i loro comodi, ci informa su come funziona una certa antimafia al riparo dalle doverose censure. Ma il problema non sono solo i marioli, un problema ancora maggiore sono i professionisti dell’antimafia di cui parlava Sciascia, i maitres à penser che indirizzano l’opinione pubblica verso teoremi assoluti, abili nell’arte della manipolazione. Quanti salgono sugli scudi e stigmatizzano la messa in onda dell’intervista a Riina, giustamente lamentando il fatto che questi non mostri alcun segno di ravvedimento, ci debbono spiegare perché non insorgono con la stessa veemenza e non difendono questi segnali quando essi emergono e vanno incoraggiati invece di essere soffocati dall’ostracismo ( vedi il caso della nipote di Totò Riina presa di mira dalla questura di Trapani e licenziata dall’azienda dove lavorava nonostante una fedina penale immacolata e un curriculum lavorativo irreprensibile ) e dalle congiure del silenzio che ricacciano nelle viscere del degrado la voglia di riscatto. Questi calvinisti a buon mercato sono distratti o in malafede? Nell’un caso come nell’altro, anche essi non rendono un buon servizio alla lotta contro la mafia.

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