L’intervista rilasciata da Salvo
Riina a Bruno Vespa e mandata in onda su “Porta a Porta”, si è
tradotta nel più classico degli autogol per questo giovane che ha
tentato una improbabile operazione di make up mancando l’obiettivo.
Uno come Salvo Riina, nel momento in cui si prestava ad accettare
un’intervista destinata a ruotare fatalmente attorno al fenomeno
mafioso e al nome di cotante padre, doveva sapere che non avrebbe
potuto limitarsi a rivendicare i diritti del suo vincolo parentale
smarcandosi da un giudizio sulla mafia e sulla figura del padre. A
nessuno, credo, interessi più di tanto apprendere che egli ama suo
padre, ma a tutti interessa apprendere se egli, senza rinnegare il
suo affetto filiale, prenda le distanze da un uomo indicato come il
capo assoluto di un autentico impero del male. Se ha accettato di
esporsi in una intervista che doveva immaginare pena d’insidie,
doveva accettare anche di mettersi in gioco fino in fondo ed evitare
di fare il pesce in barile. Detto questo, dobbiamo purtroppo
registrare il solito balletto ipocrita messo in scena da chi lamenta
che la Rai non doveva concedere una platea così vasta al figlio del
boss dei boss. Tanto per cambiare cadiamo nella solita intolleranza
degli ottusi paladini della censura ad oltranza che non vanno oltre
il loro naso. Mandando in onda l’intervista a Salvo Riina, la Rai
ci ha fatto conoscere attraverso la fissità dello sguardo e i tratti
marmorei del viso dell’intervistato l’ineluttabilità della
condizione di cui questi è prigioniero e l’inesorabilità di una
logica demenziale declinata inespressivamente, col vuoto negli occhi,
da un giovane che, come ha detto Felice Cavallaro, sembrava sbarcato
da Marte, l’unico pianeta che ha avuto in sorte di conoscere.
L’intervista descrive come meglio non poteva la spietatezza di
questa condizione e ci fa toccare con mano magistralmente
l’insensatezza del mondo da cui essa proviene e i limiti
imbarazzanti dell’intervistato. Dove è dunque il rischio insito in
essa, chi può prendere in seria considerazione le affermazioni di
Salvo Riina quando egli sostiene che lo Stato ha avuto la colpa di
averlo privato del padre, più tutta una serie di amenità di cui è
infarcita l’intervista? Altro che favore fatto a Salvo Riina e alla
mafia, questa intervista è, ripeto, un autogol. E invece si è
gridato al lupo secondo il vizietto caro ai perbenisti in servizio
permanente che, più che combattere la mafia, danno la stura al loro
isterismo sterile. A un certo punto della trasmissione l’avvocato
Li Gotti e Felice Cavallaro hanno lamentato che una certa antimafia
di facciata è servita a procacciare carriere e prebende, suscitando
le proteste di Dario Riccobono di Addio Pizzo il quale ha rivendicato
i meriti di un’antimafia senza macchia che non va demonizzata.
Nessuno nega i meriti dell’antimafia ma questo non deve impedire
che essa guardi al proprio interno e monitori il marcio che vi si può
annidare. Un esempio di intransigenza auto assolutoria persino in
presenza di segnali inquietanti che giungevano dal mondo
dell’antimafia, si è avuto allorché l’on. Rosy Bindi ha
bacchettato sdegnata il prefetto Caruso colpevole di avere avanzato
dei dubbi sull’operato della Sezione per le misure di prevenzione
del tribunale di Palermo. Abbiamo visto come è andata a finire ed è
il caso di dire che la presunzione di una purezza che non va mai
messa in discussione pena l’accusa del delitto di lesa maestà, non
rende un buon servizio alla lotta contro la mafia. La cronaca degli
ultimi tempi costellata di episodi che narrano di marioli assisi sul
cadregino dell’antimafia intenti a fare i loro comodi, ci informa
su come funziona una certa antimafia al riparo dalle doverose
censure. Ma il problema non sono solo i marioli, un problema ancora
maggiore sono i professionisti dell’antimafia di cui parlava
Sciascia, i maitres à penser che indirizzano l’opinione pubblica
verso teoremi assoluti, abili nell’arte della manipolazione. Quanti
salgono sugli scudi e stigmatizzano la messa in onda dell’intervista
a Riina, giustamente lamentando il fatto che questi non mostri alcun
segno di ravvedimento, ci debbono spiegare perché non insorgono con
la stessa veemenza e non difendono questi segnali quando essi
emergono e vanno incoraggiati invece di essere soffocati
dall’ostracismo ( vedi il caso della nipote di Totò Riina presa di
mira dalla questura di Trapani e licenziata dall’azienda dove
lavorava nonostante una fedina penale immacolata e un curriculum
lavorativo irreprensibile ) e dalle congiure del silenzio che
ricacciano nelle viscere del degrado la voglia di riscatto. Questi
calvinisti a buon mercato sono distratti o in malafede? Nell’un
caso come nell’altro, anche essi non rendono un buon servizio alla
lotta contro la mafia.
Nessun commento:
Posta un commento