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domenica 7 febbraio 2016

Bernard-Henri Lévy

Bernard-Henri Lévy, voce autorevole dell’élite intellettuale francese, non manca mai l’appuntamento con la provocazione. L’ultima è che la missione degli ebrei è di capire, non di credere. In un estratto del suo libro che sta vedendo la luce in questi giorni, L’esprit du judaisme, ci racconta come nasce il libro e ci fornisce alcune anticipazioni su come va declinata la fede degli ebrei, o, meglio, su come non va declinata. Scrive infatti: “….se il Talmud è proprio quel getto di scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonata e riattivata a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevoli, di sensi costruiti o decostruiti, di enunciati ben articolati o bruscamente aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per adorare, ma per comprendere; e significa che il più alto compito al quale li convocano i libri santi non è di ardere d’amore, né di estasiarsi davanti all’infinito, ma di sapere e di insegnare”. Al netto della sua prosa per iniziati, il nostro in buona sostanza ci dice che “il pensiero ebraico è ostile al mistero, al sacro, alla mistica della presenza, alla religiosità”, e ammonisce contro “il grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la precedenza sugli obblighi verso gli altri, all’indiscrezione nei confronti del divino la precedenza alla sollecitudine verso il prossimo”. Quale campione di sollecitudine verso il prossimo, cita Giona, il suo profeta di riferimento, che parla al popolo più lontano, il più ostile, che predica agli abitanti di Ninive ammonendoli sul pericolo della punizione divina, che mette sull’avviso i nemici e li salva. Ma, ci chiediamo, forse che Giona, pur col suo carattere inquieto che lo tenta alla ribellione nei confronti di Dio, non si arrende alla fine e predica a Ninive obbedendo al comando divino e dunque compiendo un atto di fede? Ancora il nostro filosofo ricorre ad una citazione scomodando Maimonide per affermare che la conoscenza è il primo dei comandamenti, rimandando “per questa storia del credere ad un’altra storia, quella della fede che salva, tipica dei cristiani”. Ma, ci chiediamo ancora, forse che Abramo non si accinge a sacrificare il figlio Isacco perché glielo chiede Dio, senza cercare di capire, e Mosè non accetta le tavole della legge solo perché dettate da Dio, anche lui senza domandarsi se sono giuste? E lo stesso Bernard-Henri Levy che ha mosso i suoi primi passi nel mondo dell’esistenzialismo il quale con Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche ha rinunciato alla ragione quale cuore della realtà e l’ha sostituita con qualcosa di misterioso, con l’irrazionalismo che parla di fede, di volontà di vivere e di volontà di potenza, come mai, proprio lui, ci parla di capire anziché di credere? Come si fa a capire il mistero se non credendo ciecamente col “terribile cadere nelle mani di Dio vivente laddove l’acqua ha la profondità di settantamila piedi” ( Kierkegaard )? Non ha forse ragione Jean Luc Marion quando afferma che la ragione si deve arrestare sulla soglia del mistero, zona nella quale l’unico modo per capire è credere?   

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