Bernard-Henri Lévy, voce autorevole
dell’élite intellettuale francese, non manca mai l’appuntamento
con la provocazione. L’ultima è che la missione degli ebrei è di
capire, non di credere. In un estratto del suo libro che sta vedendo
la luce in questi giorni, L’esprit du judaisme, ci racconta come
nasce il libro e ci fornisce alcune anticipazioni su come va
declinata la fede degli ebrei, o, meglio, su come non va declinata.
Scrive infatti: “….se il Talmud è proprio quel getto di
scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto
il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonata e riattivata
a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevoli, di
sensi costruiti o decostruiti, di enunciati ben articolati o
bruscamente aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei
sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per
adorare, ma per comprendere; e significa che il più alto compito al
quale li convocano i libri santi non è di ardere d’amore, né di
estasiarsi davanti all’infinito, ma di sapere e di insegnare”. Al
netto della sua prosa per iniziati, il nostro in buona sostanza ci
dice che “il pensiero ebraico è ostile al mistero, al sacro, alla
mistica della presenza, alla religiosità”, e ammonisce contro “il
grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la
precedenza sugli obblighi verso gli altri, all’indiscrezione nei
confronti del divino la precedenza alla sollecitudine verso il
prossimo”. Quale campione di sollecitudine verso il prossimo, cita
Giona, il suo profeta di riferimento, che parla al popolo più
lontano, il più ostile, che predica agli abitanti di Ninive
ammonendoli sul pericolo della punizione divina, che mette
sull’avviso i nemici e li salva. Ma, ci chiediamo, forse che Giona,
pur col suo carattere inquieto che lo tenta alla ribellione nei
confronti di Dio, non si arrende alla fine e predica a Ninive
obbedendo al comando divino e dunque compiendo un atto di fede?
Ancora il nostro filosofo ricorre ad una citazione scomodando
Maimonide per affermare che la conoscenza è il primo dei
comandamenti, rimandando “per questa storia del credere ad un’altra
storia, quella della fede che salva, tipica dei cristiani”. Ma, ci
chiediamo ancora, forse che Abramo non si accinge a sacrificare il
figlio Isacco perché glielo chiede Dio, senza cercare di capire, e
Mosè non accetta le tavole della legge solo perché dettate da Dio,
anche lui senza domandarsi se sono giuste? E lo stesso Bernard-Henri
Levy che ha mosso i suoi primi passi nel mondo dell’esistenzialismo
il quale con Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche ha rinunciato
alla ragione quale cuore della realtà e l’ha sostituita con
qualcosa di misterioso, con l’irrazionalismo che parla di fede, di
volontà di vivere e di volontà di potenza, come mai, proprio lui,
ci parla di capire anziché di credere? Come si fa a capire il
mistero se non credendo ciecamente col “terribile cadere nelle mani
di Dio vivente laddove l’acqua ha la profondità di settantamila
piedi” ( Kierkegaard )? Non ha forse ragione Jean Luc Marion quando
afferma che la ragione si deve arrestare sulla soglia del mistero,
zona nella quale l’unico modo per capire è credere?
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