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mercoledì 17 febbraio 2016

Il paradiso perduto

Quando Dio cacciò l’uomo dal Paradiso e rifletté sui castighi ai quali destinarlo, sicuramente decise che uno di essi dovesse essere l’inferno delle nostre strade lastricate di relitti umani. Non è infatti altro che un inferno la realtà con cui si misurano i volontari che fanno la ronda nei vari Bronx insediati nel cuore della nostra civiltà, dove vite alla deriva si trascinano senza più voglia di niente altro che non sia la fine della loro esistenza. E’ la condizione infame nella quale versa una fetta della nostra umanità, una condizione che è un atto d’accusa contro la società patinata dei bravi cittadini i quali, al riparo della loro indifferenza, si girano dall’altra parte infastiditi dallo squallore che li sfiora e sordi ai timidi vagiti della loro coscienza. Proviamo a proporre a queste coscienze schizzinose la galleria degli orrori che lambiscono le nostre isole del benessere.
Angelo. Fino a pochi mesi fa era un dignitoso piccolo borghese appartenente alla schiera di quanti stentano ad arrivare a fine mese, uno dei tanti, uno di noi ai confini della povertà che stringono i denti e la cinghia e non si possono permettere il rischio dell’inciampo. Purtroppo per lui, Angelo è inciampato, ha perduto il lavoro, ha superato il confine che lo separava dalla povertà ed è caduto senza alcun paracadute nell’abisso. Assieme al lavoro ha perduto l’affetto dei familiari che non gli hanno perdonato il fallimento, ha perduto un tetto sotto il quale dormire, ma soprattutto ha perduto la voglia di lottare. All’inizio si, all’inizio ha tentato di resistere, poi è scivolato sempre di più nel vuoto della sua volontà. Avvolto in una coperta di fortuna su un giaciglio all’addiaccio nei pressi della Stazione Centrale, la barba candida che contrasta con il nero degli occhi baluginanti, Angelo rifiuta di farsi aiutare e attende paziente che giunga la fine.
Cristina e Giorgio. Li puoi trovare sui gradini della chiesa di San Michele, abbracciati teneramente, con un sorriso perenne errante sulle bocche sdentate, a dispetto della loro condizione. Loro no, loro non hanno perduto la speranza e il decoro, si amano e tanto basta, si tengono mano nella mano guardandosi negli occhi con tenerezza, non c’è acredine nei loro volti distesi. Sorreggendosi a vicenda, scattano in piedi dai materassi matrimoniali che hanno acconciato sotto le stelle, accolgono i volontari con gentilezza, come si fa con degli amici in visita, ricevono i doni che ricambiano con la gratitudine dipinta negli occhi, ringraziano compunti e cerimoniosi, scambiano un abbraccio con i loto benefattori, rimandano al prossimo appuntamento. In piedi salutano gli amici, poi tornano al loro giaciglio perdendosi l’uno nello sguardo dell’altra.
Sergio. Dorme in macchina. Sbuca fuori dal suo appartamento mobile all’arrivo dei volontari e stupisce col suo parlare forbito. Ha trentadue anni Sergio e potresti scambiarlo per tuo figlio, uno dei tanti figli che Palermo ha ripudiato e che, non disponendo di ammortizzatori familiari né di un lavoro, né del coraggio per cercare altrove opportunità di vita, si è abbandonato alla precarietà di una esistenza che si è arresa prima ancora di dispiegarsi. Ha studiato, si è laureato, così dice, in filosofia, si vanta di vivere come Diogene in una botte pur di non abbandonare l’amata Palermo. L’amata Palermo, la matrigna, lo ha invece abbandonato e lo ha lasciato alla mercé di espedienti con cui sopravvive per il tempo necessario a ricevere l’aiuto della prossima ronda.
Selvaggia. Selvaggia di nome e di fatto, ha vissuto la sua precarietà con la residua rabbia degli ultimi, combattendo la sua battaglia contro la sfrontatezza dello Stato oltre che contro la miseria. Ha resistito fino a quando ha potuto contro il tentativo di sfratto dall’automobile in cui viveva e che le solerti forze dell’ordine hanno sequestrato, poi si è arresa. Lo si è capito quando è mancata all’appuntamento con i volontari. La legge ha trionfato!
Omar. Lo si può trovare nei pressi di Piazzale Ungheria accampato a terra in compagnia della sua frustrazione. Da vent’anni in Italia, narra della moglie e della figlia partiti per la Germania inseguendo il diritto ad un dignitoso rifugio che in Italia non sono riusciti ad ottenere. Omar, tunisino, li seguirà quando potrà, quando avrà raccolto le elemosine che gli consentiranno di pagarsi il viaggio in Germania e patirà il secondo dolore del distacco dal suo nuovo Paese che ha imparato ad amare. Perché Omar ama l’Italia e gli italiani e, con gli occhi colmi di gratitudine, ci dice quanto deve a questo popolo generoso , capace di slanci che non si trovano altrove, quale sarà il suo dolore quando dovrà lasciare i suoi amici di strada, i suoi fratelli. Non riesce a trattenere le lacrime con cui piange sulla propria sorte e sulla nostra inadeguatezza.
Cristina e Giorgio. Giungono al dormitorio comunale reduci dalla messa pomeridiana cui hanno assistito nella vicina chiesa di Santa Lucia. Mischiati alla moltitudine dei fedeli domenicali, con i loro abiti decorosi, non li immagineresti mai mendicanti della solidarietà altrui. Anche perché hanno ancora una loro fierezza con cui dissimulano il loro stato e si ostinano a sentirsi parte di una comunità di cittadini che non debbono chiedere nulla ma che sono stati costretti ad abbandonare poche settimane fa. Dialogano con i confratelli come nulla fosse, si intrattengono con loro parlando con disinvoltura del più e del meno, forse chissà delle vacanze che stanno progettando o dei figli con i quali sono stati a pranzo. Si accomiatano con la compitezza che non hanno ancora perduto, sostano un po’ in attesa che la folla si diradi, si guardano attorno furtivi, poi si avvicinano guardinghi al furgone dei volontari, incassano il pasto serale e si rifugiano nel dormitorio.

Il resto alla prossima puntata, e comunque chi vuol mettersi in gioco può andare di notte in giro per la città, basta avere lo stomaco forte. Avrà pane per i suoi denti.

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