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martedì 29 settembre 2015

Il Papa

Il Papa ha spopolato in America proponendo quel suo modo semplice di declinare temi forti che scuotono le coscienze. La finanza selvaggia che soffoca i più deboli, i profughi visti come vittime delle colpe dei grandi della terra che non hanno saputo disinnescare le cause dell’esodo, il traffico d’armi, la pena di morte, la povertà, sono tutti temi su cui il Papa si è pronunciato con toni accorati sollecitando soluzioni. Purtroppo le esortazioni del Santo Padre, a parte quella sull’abolizione della pena di morte, sono destinate a restare lettera morta, ci sono mali antichi come l’uomo che neanche il sacrificio di Cristo è riuscito a sconfiggere. E tuttavia il Papa non può rinunciare alla sua missione profetica che gli deriva dall’essere l’erede di Cristo e non può arrestarsi dentro i confini imposti dalla limitatezza umana, gli è proprio “un grado superiore di saggezza” che si ostina a predicare misericordia anche dove la misericordia troverà difficilmente proseliti. E’ la logica della sua missione che ha bisogno di allargare continuamente i suoi orizzonti e che però non sempre riesce a stare al passo con sofferenze nuove che si affacciano alla soglia della sua misericordia e del suo spirito evangelico. Su questo riflettevo mentre leggevo l’ultima lettera di mio figlio detenuto in regime di 41 bis in cui mi descrive la sua vita in carcere. Ho già scritto su come la penso a proposito della stupidità e gratuita cattiveria della carcerazione dura e su come l’amministrazione penitenziaria ne esasperi ancora di più le condizioni andando oltre le regole già di per sé dure, come fa quando perpetra abusi giungendo persino a non rispettare le sentenze della magistratura o rispettandole dopo che le conseguenze dell’abuso si sono consumate. In proposito ho cercato di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica lanciando appelli che, ahimè, sono caduti nel vuoto. Ne ho ricavato soltanto improperi e sarcasmo. Stavolta mi rivolgo al Papa e gli chiedo se conosce la realtà di questi suoi figli alla mercé di uno sceriffo con la stella della legge appuntata sul petto che ha sempre la meglio nel duello contro l’ avversario munito di un’arma scarica. Se conosce la realtà di un universo in cui si consuma la violazione dei diritti fondamentali senza che nulla trapeli all’esterno, in un clima di omertà che coinvolge le istituzioni e la cosiddetta società civile, pronta a indignarsi sull’abbandono dei cani ma non altrettanto pronta a indignarsi sulla vergogna di una enclave di inciviltà incuneata nel bel mezzo della nostra civilissima Italia. Come è possibile che accada tutto questo senza che nessuno, e tanto meno il Papa, levi una qualsiasi protesta? Forse perché i detenuti in regime di 41 bis sono lontani dai cuori di chi si esercita alla pietà su soliti drammi scontati, forse perché creano imbarazzo con le loro storie truci e sono rimossi dall’ipocrisia di chi fiuta l’impopolarità di una battaglia lontana dal conformismo ideologico, forse perché sono mafiosi e, secondo l’anatema del Papa, scomunicati e dunque fuori dal perimetro della Chiesa, forse perché sono gli ultimi tra gli ultimi e non meritano neanche il perdono di Cristo? Come diceva Flaubert, il buon Dio è nei dettagli e il Papa, impegnato in giro per il pianeta a condividere la sorte degli “scarti” disseminati nel mondo, dovrebbe trovare il tempo e la voglia di condividere anche la sorte degli “scarti” vessati nella Guantanamo di casa nostra.

venerdì 18 settembre 2015

Il mio romanzo

www.spazioculturalibri.it
“La vita di un uomo”, il romanzo che ho concepito in carcere, ha visto finalmente la luce. E’ stato un parto travagliato perché trovare un editore che non si ritraesse scandalizzato al cospetto di un condannato per mafia, non è stato facile. Nicola Macaione, l’editore che ha accettato di pubblicarlo, pur con la comprensibilissima cautela nei confronti della mia vicenda giudiziaria, non si è fatto condizionare dal pregiudizio, non mi ha respinto come hanno fatto i tanti attestati sulla certezza di ciò che appariva, ha creduto nel valore del romanzo e, pur mettendo nel conto il rischio delle indignazioni strumentali che avrebbe suscitato, non ha esitato ad offrire al lettore un’opera della quale, a suo avviso, non bisognava privarlo. Non solo, ma, oltre che al lettore, ha offerto una chance anche a me e di ciò non gli sarò mai abbastanza riconoscente. Grazie a lui sto incassando con gli interessi il risarcimento per i colpi che il destino mi ha inferto, grazie a lui ho l’opportunità di offrire uno spaccato che scompagina le consuete e abusate categorie criminali con le quali sono stato sbrigativamente liquidato. Come ha scritto su di me Roberto Puglisi con la sua abituale onestà: “Vale la pena di ricamare un pensiero sui pensieri, senza che si sappia se provengono da un demonio o da una persona? Forse si ma è un rischio grave, con l’abisso a un centimetro”. Ecco, se il mio romanzo susciterà dei dubbi sugli irriducibili, se farà chiedere a qualcuno: “Ma chi è veramente Nino Mandalà?”, ma, soprattutto, se riuscirà a commuovere, avrà raggiunto il suo scopo. Senza contare poi l’emozione dell’autore che vede battezzata la propria creatura in un contesto che, per una volta, non lo mette sul banco dell’imputato ma gli fa vivere la sensazione di un riscatto, e l’ebbrezza ubriacante della facile euforia che, con i suoi inganni, gli fa credere di avere conquistato la gloria letteraria. Da qui in avanti nulla sarà più come prima.“

lunedì 7 settembre 2015

La pietà

L’immagine del bambino curdo raccolto dalle mani pietose di un soldato turco è un emblema di cui faremmo volentieri a meno. C’è bisogno di tanto strazio perché turchi e curdi si stringano nell’abbraccio che la foto ci consegna in tutto il suo enorme valore simbolico e la coscienza dell’Europa si svegli ritrovando i valori che fanno parte del suo bagaglio storico ma che sembra avere dimenticato? La signora Merkel che avevamo definito “massaia dedita al bilancio familiare”, ha avuto un sussulto e ha finalmente tirato fuori dal marsupio delle sue potenzialità di eterna promessa, la sua statura di statista. Chapeau a frau Merkel! Siamo convinti che la cancelliera di ferro abbia obbedito, oltre che agli impulsi del cuore, alla sua vocazione di donna capace di volare alto, oltre i miopi confini del contingente, per realizzare costruzioni ardite. Il nuovo approccio della signora Merkel a proposito dell’immigrazione (che è indubbiamente generoso ma soddisfa anche le esigenze dell’economia tedesca a corto di lavoratori) è però un primo passo cui devono seguirne altri in una ottica universale che riproduca in Europa una rinascita delle coscienze oltre che dell’economia. Se parliamo di Europa intesa quale soggetto politico che si propone di superare gli egoismi di parte, intendiamo una unica Nazione che si faccia carico di una problematica complessa che va armonizzata senza diseguaglianze tra cittadini di serie A e B. Se il Nord d’Europa virtuoso fa valere i suoi conti in ordine per rifiutarsi di soccorrere le economie meno virtuose del Sud d’Europa, ciò vuol dire che la costruzione europea ha fallito e non si può parlare di una unica Nazione. Chi si mette assieme per costruire una casa comune e firma un patto, assume l’impegno di andare oltre gli errori commessi da altri non mancando al dovere della solidarietà e non fuggendo, davanti alle prime difficoltà, dalle responsabilità che il patto comporta. In una Nazione ci sono identità diverse che sono altrettante peculiarità tutte utili alla casa comune. Se, prendendo ad esempio l’Italia, la situazione economica italiana fa arricciare il naso ai tedeschi o agli olandesi, non è certamente con atteggiamenti di spocchiosa intransigenza che si risolve il problema. L’Italia, oltre ai conti malconci, porta in dote il suo patrimonio artistico e naturale, le sue bellezze, il suo talento, seppure disordinato, tutte risorse che appartengono all’Europa e che essa deve avere la sapienza di sapere utilizzare. E’ in quest’ottica che, per parafrasare Massimo D’Azeglio, costruita l’Europa, bisogna costruire gli europei. Coltivare le diverse identità bilanciando aspetti positivi e negativi, porre rimedio alle carenze di chi segna il passo valorizzandone allo stesso tempo le opportunità, è la strada maestra da percorrere. Pare che la signora Merkel l’abbia capito e tutti ci aspettiamo che si impegni sui diversi fronti di una sfida che appare epocale. C’è il problema di una maggiore flessibilità rispetto al rigore delle regole in campo economico e finanziario, c’è il problema di un’Europa orientale che sembra non avere superato i postumi del rancore per i torti subiti nel suo sventurato passato e ha tutta l’aria di volerli far pagare ai nuovi sventurati, dimenticando l’esodo dei suoi profughi che fuggivano dalle angherie sovietiche e trovavano rifugio nel resto d’Europa. E c’è il problema enorme dei diritti umani spesso disattesi in alcuni angoli d’Europa. Quando ci commuoviamo per la tragedia degli esuli e davanti allo spettacolo terribile del cadavere di un bambino riverso su una spiaggia mentre viene lambito dalla risacca del mare, o dei migranti inghiottiti dal Mediterraneo, dovremmo ricordare che tragedie altrettanto terribili si verificano nelle contrade della civilissima Europa. Sempre per restare in Italia, in che cosa differisce la visione del cadavere del bambino curdo dalle immagini del corpo di Stefano Cucchi devastato dalle percosse? E gli sventurati ammassati nelle carrette del mare o costretti a viaggiare in tir che spesso si tramutano nella loro tomba, non evocano forse la condizione di alcuni nostri detenuti murati vivi nelle carceri a regime speciale, devastati nel fisico e nella psiche e ridotti ad uno stato vegetale che molto spesso è l’anticamera del suicidio? E allora ben venga la signora Merkel e, con buona pace del nostro Renzi il quale protesta che non intende farsi dettare l’agenda da Bruxelles, detti le regole della convivenza civile in Europa richiamandola alla sua tradizione e al rispetto dei diritti di ciascuno, dia un’anima all’Europa, costruisca una Nazione e formi i cittadini europei.  

venerdì 4 settembre 2015

Il pubblico ministero

Ai termini dell’art. 358 del cod. di proc. pen. Il pubblico ministero ha il dovere dell’ imparzialità esattamente come il magistrato giudicante. Egli ha infatti l’obbligo di svolgere accertamenti anche su fatti e circostanze a favore delle persone sottoposte a indagini, concetto che è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con sentenza nr. 106 del 26 febbraio 1999. In buona sostanza il pubblico ministero ha il compito di accertare la verità, anche se la verità è a favore dell’imputato. Nei fatti è così? L’argomento torna d’attualità tutte le volte che si dibatte su separazione delle carriere si, separazione delle carriere no, e chi sostiene che non è opportuno separare le carriere, lo fa affermando che col sistema attuale si ha una maggiore tutela dei diritti degli imputati oltre che naturalmente delle parti offese. Il pubblico ministero infatti, proprio perché è un magistrato imparziale e ha l’obbligo di sostenere l’innocenza dell’imputato quando accerta elementi a sua discolpa, è una risorsa in più a garanzia del buon funzionamento della giustizia, risorsa che viene meno nel momento in cui il P.M. veste i panni del magistrato di parte che così diventa un vero e proprio avvocato dell’accusa con la funzione di limitarsi a cercare elementi a carico dell’imputato. Ricordo che in tal senso si sono espressi l’on. Fassino quando era ministro di grazia e giustizia e più recentemente il dottore Spataro, procuratore della Repubblica di Torino. Purtroppo quella che teoricamente è una bella favola è smentita dal modo in cui certi pubblici ministeri la interpretano. Lo dico a ragion veduta perché sono stato vittima di qualche “svista” durante i miei processi. Un pubblico ministero per esempio, sicuramente per distrazione e in perfetta buona fede, dimenticò di acquisire agli atti le dichiarazioni che un collaboratore di giustizia aveva rilasciato a mio favore. E, ne sono convinto, sempre per distrazione, in altra occasione, una intercettazione dalla quale appariva evidente la mia estraneità ai reati dei quali venivo accusato, non approdò in aula se non dopo che l’episodio venne alla luce grazie alla rivelazione di un pentito e il pubblico ministero fu invitato dal presidente della corte a produrre il testo dell’intercettazione. Distrazioni, sicuramente, ma guarda caso sempre a danno dell’imputato che dovrebbe essere garantito dall’imparzialità del pubblico ministero. Viene il sospetto che il magistrato inquirente che ha il compito di costruire l’impianto accusatorio, si affezioni alla sua creatura e la difenda anche sfidando i richiami della sua coscienza e le prescrizioni del codice. O che si senta investito del compito di redimere la società e obbedisca all’impulso del giustiziere manipolando la verità invece di accertarla. La natura umana, come si sa, ha le sue debolezze e forse è il caso di darle una mano assegnandole compiti chiari che non la sottopongano a tentazioni.