La decisione del Ministro di Grazia e Giustizia di
invitare Sofri a partecipare ai lavori
dei “18 tavoli tematici per gli Stati Generali sull’esecuzione penale”, è stata
travolta da una valanga di reazioni indignate che hanno costretto sia il
Ministro sia Sofri a fare marcia indietro. Sofri è colpevole perché è stato ritenuto
il mandante dell’omicidio del commissario Calabrese da una sentenza definitiva
e lui stesso, pur negando un qualsiasi suo ruolo in quell’omicidio, riconosce
di essere stato un cattivo maestro. Non ci sono perciò dubbi sulle sue responsabilità,
penali o morali che siano, mentre ci sono molti dubbi sulla natura e
l’opportunità delle reazioni scatenatesi alla notizia dell’incarico
affidatogli. Forse che la sua colpevolezza mette in discussione la sua
competenza in fatto di carceri? Ha saldato il suo conto con la giustizia
scontando una lunga detenzione che gli ha fatto maturare una discreta
esperienza su come vanno le cose in carcere, il suo contributo quindi può essere
prezioso e non si presta a sospetti di
connivenza con interessi di parte, perché egli non ha mai dato l’impressione di
condividere certe mentalità malavitose diffuse in carcere. In carcere anzi è
stato sempre distante da certi contesti, non ha dato mai confidenze che non
andavano date, anche perché era impegnato in tutt’altre e ben più appaganti
frequentazioni intellettuali, dunque non può essere sospettato di favorire i
compari rimasti in carcere. E allora qual è Il problema? E’ forse che egli è
ritenuto indegno di collaborare con lo Stato, che è definitivamente un
appestato che sporca tutto ciò che tocca? Oppure che un uomo simile urta la
sensibilità di qualche anima bella che ipocritamente inorridisce di fronte a
tanto scandalo? Il dolore dei familiari del commissario Calabresi è sacrosanto
e comprensibili sono le loro proteste. E’ comprensibile che un dolore così cocente
abbia la meglio sul perdono e, senza volere scomodare i sentimenti, abbia la
meglio sulla ragionevolezza. Chi può dunque criticare le parole di dissenso,
peraltro espresse in maniera composta, dalla moglie e dal figlio della vittima?
Nei confronti dei familiari perciò il massimo rispetto, nei confronti di quanti
invece approfittano dell’occasione
impropriamente e senza avvertire il senso della decenza, per straparlare, tutte
le riserve di questo mondo. Salvini che fa dell’ironia confondendo Sofri con
Schettino dovrebbe una buona volta imparare a coniugare la sobrietà con le sue
ambizioni di statista. Per quanto riguarda poi i sindacati di polizia
penitenziaria che vanno oltre l’ironia di Salvini trascendendo in un sarcasmo
di pessimo gusto quando dicono: “ Meno
male che ci hanno risparmiato Totò Riina, che magari avrebbe potuto parlare di
una revisione del regime penitenziario duro del 41 bis”, che dire. Comprendiamo
che da secondini i quali sfogano le loro frustrazioni gestendo in maniera
disumana la vita dei detenuti, non ci si può aspettare di meglio, ma il troppo
è troppo e questi signori, ai quali ricordiamo che il loro compito non è quello
di comportarsi da aguzzini ma da uomini impiegati dallo Stato per tenere al
sicuro chi ha sbagliato ma anche per favorirne il recupero, dovrebbero evitare
cadute di stile nei confronti di un autentico dramma quale è quello della
carcerazione. Un dramma reso ancora più pesante dalle inaccettabili condizioni
in cui viene vissuto e la cui causa, alla luce di certi sprezzanti
atteggiamenti, è facilmente individuabile.
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venerdì 26 giugno 2015
domenica 21 giugno 2015
A proposito di solidarietà
Il noto filosofo francese Bernard Henri
Levy, rappresentante della nouvelle philosophie e paladino dei
diritti umani sparsi per il mondo e Papa Francesco sono, uno in
chiave laica, l’altro in chiave religiosa, la più eloquente
testimonianza di come molto spesso la nobiltà d’animo incespichi
su se stessa. Pochi giorni fa il Pontefice ha chiesto perdono a Dio
per coloro che non accolgono i migranti e Salvini gli ha fatto pronta
eco affermando risentito che non ha bisogno di essere perdonato. Tra
i due non c’è partita. E’ scontato dissentire da Salvini che è
visto come il becero intestatario di una battaglia di retroguardia
contro i migranti, mentre va da sé schierarsi a fianco del Pontefice
per il peso morale che egli ha e perché parla di carità, un tema
che non si può non condividere. Quando però si parla di Salvini,
bisogna rifuggire dai toni sprezzantemente liquidatori, perché egli
intercetta pur sempre lo stato d’animo di una parte dell’opinione
pubblica rispettabile sia per le sue dimensioni che per le opinioni
che esprime. E’ gente che si oppone all’accoglienza dei migranti
perché è spaventata dal nuovo e dal diverso, che è preoccupata dal
timore che venga portata una nuova competizione alla propria miseria
e si aggiunga criminalità a criminalità, che ha bisogno di essere
capita e guidata e non merita di essere strumentalizzata da Salvini,
né tanto meno demonizzata dai partigiani dell’accoglienza. La
cultura dell’accoglienza obbedisce ai migliori istinti dell’uomo,
ma quando essa è praticata senza se e senza ma, può produrre delle
conseguenze che vanno al di là delle buone intenzioni. L’amore
cristiano per il prossimo che ciascuno avverte dentro di sé rischia
di diventare un mero esercizio moralisteggiante quando non ha
soluzioni concrete, e l’innocente solidarietà dei puri fatta di
dedizione gratuita a servizio di chi ha bisogno, di cui l’Italia
ha lo straordinario primato, rischia di trasformarsi in un guscio
vuoto quando è cavalcata dalla demagogia di quanti fanno roboanti
professioni di principio agitando impraticabili proclami disancorati
dalla realtà. Il problema di una migrazione epocale, le cui
conseguenze stiamo vivendo sulla nostra pelle tutti noi e in misura
ancora maggiore i migranti, merita una riflessione più meditata
rispetto ai toni accesi o al facile solidarismo che mette a posto la
nostra coscienza. Nessuno, di fronte ad un problema così complesso,
può ritenere di avere la ricetta giusta e tutte le parti in causa
devono avere la necessaria umiltà per affrontarlo senza pregiudizi,
senza l’inganno di una promessa di accoglienza che, se non è
adeguatamente regolamentata e gestita, non possiamo permetterci (nel
nostro interesse e in quello degli ospiti) e senza arroganti
arroccamenti, avendo presenti pochi ineludibili capisaldi, la difesa
della dignità delle persone ospitate e il rispetto dell’ identità,
delle leggi e degli equilibri del Paese che ospita. E’ questo lo
spirito con cui va affrontato il problema e nessuno, tanto meno
Salvini, ha il diritto di cavalcare la protesta della gente
strumentalizzando un dramma di queste dimensioni, invece di indicare
soluzioni costruttive, come nessuno ha il diritto di invocare facili
scorciatoie solidali. E’ in quest’ottica che il Papa dovrebbe, a
mio avviso, mitigare la passione che il Suo spirito evangelico gli
suggerisce e risparmiarci moniti, sacrosanti in linea di principio ma
che si scontrano con enormi difficoltà di attuazione. Eviterebbe di
farci sentire più colpevoli di quanto già non siamo.
Quanto a Bernard Henri Levy, le conseguenze delle sue imprese sono
sotto gli occhi di tutti. Egli imperversa in ogni angolo del mondo in
cui c’è bisogno di issare la bandiera dei diritti civili. Il suo
capolavoro lo ha compiuto in Libia dove si è intestata la crociata
per l’affrancamento del popolo libico dai ceppi del tiranno
Gheddafi, e i risultati si sono visti. I profughi che fuggono
dall’inferno esploso in quella zona, bussano alle porte della
Francia e ne sono respinti senza che il bardo dei diritti levi un
cenno di protesta. In Libia non c’era certo bisogno di apprendisti
stregoni ma di maggior pragmatismo e in Ucraina, un’altra contrada
bazzicata dal nostro profeta, bisognava compiere meno errori. Alla
Francia dobbiamo molto ma non tanto da dover pagare il conto salato
della saccenteria del signor Henri Levy.
sabato 13 giugno 2015
Le sentenze che si rispettano
Quando si parla di Cuffaro si tende a
dimenticare che egli sta saldando il suo debito con la giustizia
rispettando la sentenza che lo ha condannato definitivamente e
scontando la pena in maniera esemplare. Agli sciacalli in agguato,
sempre pronti a banchettare con le spoglie dei cadaveri, tutto questo
non basta. Su Cuffaro si accaniscono come se si sentissero truffati
dal fatto che egli continui a vivere e lo faccia tenendo un
comportamento forte e onorevole nel momento più drammatico della sua
vita. Per i giacobini con la bava alla bocca chi ha sbagliato non ha
possibilità di redenzione e deve essere accompagnato fino alla fine
dei suoi giorni dalla gogna. Non paghi delle sentenze di condanna
vomitano un livore mai sazio e sempre assetato di sangue. A qualcuno
sfugge che le sentenze della magistratura non pronunciano verità
assolute. Esse sono definitive per le pene che producono ma per il
resto hanno un valore relativo perché sono il frutto del
convincimento del giudice il quale ha sicuramente gli elementi per
emettere una sentenza equa e lo fa nella maggior parte dei casi, ma
può anche sbagliare in perfetta buona fede e, in alcuni casi,
persino in malafede, come succede quando egli traduce il libero
convincimento in arbitrio, obbedendo a pregiudizi e a un malinteso
senso della sua funzione. In presenza di una sentenza che ci appare
ingiusta e che per questo motivo non condividiamo, possiamo essere
indotti a non rispettarla cedendo ad una tentazione che però non
possiamo permetterci, perché le sentenze, qualunque sia la
percezione che nutriamo nei loro confronti, sono le pronunce di uno
Stato che ci siamo scelti e vanno rispettate. Fermo restando ciò,
deve essere però altrettanto chiaro che le sentenze non possono e
non debbono essere il viatico per la demonizzazione del reo. A parte
il dubbio nei confronti di una verità di cui non si ha certezza
assoluta ma che produce danni assoluti per la vita di un uomo, si
impone la pietà dovuta a chi cade e, quando egli imbocca la via del
riscatto, anche l’onore delle armi. I moralisti in servizio perenne
che non si rassegnano alle sentenze dei giudici e pretendono di
andare oltre allestendo tribunali speciali nelle piazze e facendo
giustizia sommaria, commettono una mostruosità, perpetuando una pena
che vanifica il già accidentato cammino della redenzione. A questi
miserabili va tutto il disprezzo dovuto a chi fa mercato delle vite
umane.
venerdì 5 giugno 2015
Gli impresentabili
La questione morale usurpata dalla
consorteria dei puri e trasformata in giustizialismo, ha fatto ancora
una volta le sue vittime. La lista di proscrizione redatta dall’on.
Bindi e presentata nella imminenza delle elezioni, ha probabilmente
condizionato il risultato delle urne ed è sicuramente entrata a
gamba tesa sul principio della presunzione di innocenza. Non si può
mettere all’indice un cittadino sulla base di una presunzione di
colpevolezza che nasce da una vicenda giudiziaria non ancora
conclusasi. Dando patenti di impresentabilità, la commissione
parlamentare Antimafia ha recitato un ruolo che evoca epoche sinistre
dell’integralismo religioso ed ha sconfinato dalla sua competenza
agitando il pericolo di reati che non hanno connotazioni mafiose.
Anche perché dell’opacità di chi si candida a ricoprire ruoli
nella pubblica amministrazione, c’è già chi si occupa. Se ne
occupa la legge Severino che spinge la propria intransigenza fino a
sanzionare un reato che, all’epoca della sua consumazione, non era
reato (Berlusconi ne sa qualcosa) e colpisce reati che, come ha
scritto qualcuno, hanno lo stesso valore di una infrazione stradale
punibile con una multa. E’ una legge discutibile quanto si vuole (e
in effetti andrebbe ridiscussa) ma è la legge e va rispettata
sempre, non secondo calcoli di convenienza. Essa stabilisce quali
sono i requisiti che un candidato deve avere per esercitare il
mandato conferitogli dagli elettori e per il candidato eletto in
mancanza dei requisiti, prevede la sospensione. Amen! Di che cosa
dovremmo preoccuparci e perché dovremmo ricorrere alla damnatio
dell’antimafia? Certo qualche pasticcio (vedi Campania) è stato
fatto e sono curioso di vedere come il Presidente del Consiglio
riuscirà a venirne a capo sfidando quella stessa legge con cui il
suo partito ha estromesso Berlusconi dal Parlamento. Ma questo è un
problema di Renzi, non del diritto che rimane salvo. Per quanto
riguarda poi la morale, i partiti si sono dati un codice di
autoregolamentazione che è stato votato all’unanimità. Secondo
questo codice è compito dei partiti (anche se qualche partito ha
fatto il tifo per l’iniziativa della Bindi) fare uno screening
valutando, nel momento in cui scelgono i candidati, la dignità e la
moralità (articoli 48 e 54 della Costituzione) di chi è destinato a
ricoprire un ufficio pubblico elettivo. Se il candidato, pur avendo
superato l’esame dei partiti, non supera l’esame dell’elettore,
potrà essere da questi bocciato. Come si vede dunque, la legge, la
buona politica e l’elettore esercitano un controllo ferreo a
presidio del rispetto della norma e della moralità. Non si sente
certo il bisogno che la commissione parlamentare Antimafia si appalti
la competenza su una materia già sufficientemente monitorata, con il
rischio, come fa giustamente notare Michele Ainis, che la questione
morale si trasformi in questione strumentale. Purtroppo una certa
politica ha equivocato sul senso della sua funzione, ha reagito
all’invasione di campo della giustizia competendo con essa in una
gara a chi è più intransigente, e ha brandito allo scopo l’arma
dell’uso giudiziario della politica. E’ una competizione che non
ha niente a che vedere con la dialettica democratica e che, al
contrario, nuoce alla democrazia.
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