L’Italia è ormai un Paese che
appartiene a quanti riescono ad appropriarsene approfittando del vuoto di potere e realizzando con l’arbitrio
il proprio privilegio. Sapendo che non c’è una sovranità certa in difesa
dell’interesse generale, ognuno arraffa la fetta di potere di cui è capace e la
piega agli interessi che rappresenta. Convinti che non siamo più una nazione,
ciascuno si arrangia come può, sapendo di potere contare ormai solo su se stesso e di non
dovere rispondere ad una autorità sovrana ma esclusivamente all’imperativo del
proprio “particulare”. È così che si è innescata una corsa alle scorciatoie più
o meno lecite, declinate nelle forme più o meno invasive a seconda della
elasticità delle coscienze, e si è determinata una disuguaglianza che non nasce
dalla diversità dei doni fornitici da madre natura ma dalla spregiudicatezza
che ciascuno mette in campo senza tanti scrupoli. Si è accentuata in questo
modo la distanza tra le classi sociali che assegna ai furbi e ai potenti le zone
franche del privilegio e dell’impunità e confina gli onesti e i deboli nelle
retrovie della lotta per la sopravvivenza. In queste contrade l’espediente la
fa da padrone , chi non trova lavoro si dedica al lavoro nero o a all’attività
illecita, chi non ha casa occupa quella degli altri, chi non ha nulla da
offrire alla propria famiglia taccheggia al supermercato. Nelle atmosfere
rarefatte del privilegio, al contrario, caste e lobby si dividono le parti più
nobili dell’animale lasciando ai paria le frattaglie, tutto nell’indifferenza
di uno Stato che non c’è. Il Paese va in pezzi fisicamente come dimostra
l’incuria con cui vengono trattati la natura e i nostri beni culturali, e va in
pezzi la fiducia nello Stato di quanti ormai non si fanno più illusioni e si
abbandonano al fatalismo che li degrada o all’illecito che li degrada ancora di
più o li gratifica a seconda dei punti di vista. Non c’è un potere forte che
sappia abbattere i costi che alimentano il debito pubblico e l’avidità dei
privilegiati a guardia di rendite di posizione che, garantendo lo status quo,
frenano la ripresa, che sappia liberare gli spiriti animali di una economia
che, unica in Europa, continua recedere, che sappia sconfiggere l’inedia di una
classe dirigente incapace di osare perché ripiegata su se stessa e priva di idee
e di sogni. Tempi lunghi, lacci e laccioli, nequizie consolidate, energie
sciupate, risorse inutilizzate, sono i protagonisti negativi di un Paese senza
guida. Per non parlare dello stato di salute della giustizia. Il buon mugnaio
tedesco ci aveva illusi che ci fosse un giudice a Berlino ma abbiamo appreso a
nostre spese che in Italia nessun giudice difende nessun mugnaio. Le decine di
condanne smentite da assoluzioni successive e le altre che, seppur scritte nella evidenza del reato, non possono
essere emesse grazie a complicità corporative o a processi andati fuori tempo
massimo, testimoniano di una giustizia schizofrenica che consente impunità allo
stesso modo in cui incoraggia impianti accusatori costruiti sul vuoto
probatorio dall’intransigenza di taluni magistrati che hanno sostituito il
libero convincimento con il libero arbitrio. Succede se nessuno paga e si fa
strada la convinzione dell’onnipotenza con l’alibi dell’indipendenza, unita
alla insipienza di un sistema giudiziario allo sbando, debole con i forti e
forte con i deboli. E a proposito di deboli, un capitolo a parte è quello che
riguarda la giustizia che colpisce i mafiosi. A scanso di equivoci e prevedendo
le solite sortite in malafede dei “pasionari” del giustizialismo, dico che la
giustizia deve essere severa nei confronti di un fenomeno che va combattuto senza
tentennamenti, ma dico altresì che il rispetto delle regole deve valere anche per
i mafiosi. Accuse generiche che si
fondano sul pregiudizio e colpiscono comportamenti ritenuti moralmente discutibili
ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in azioni illecite, non possono
avere patria in un sistema che poggi autenticamente sulla certezza del diritto.
Processare la reputazione anziché il reato, significa processare il fumus, e di
fumus il diritto muore. Siamo sempre là, tutto può avvenire perché non c’è uno
Stato autentico che vigili ed eviti che mafia e antimafia regolino i loro conti
come in una sfida personale. Ho raccolto
lo sfogo di un condannato per mafia che, dopo avere scontato la sua pena,
attende di essere assegnato alle misure di prevenzione. Affinché le misure
vengano adottate, occorre che il magistrato disponga di una relazione delle
forze dell’ordine sulla condotta
dell’indagato, sulle sue frequentazioni, sui suoi contatti. I carabinieri
incaricati di fare la relazione non hanno riscontrato nulla di illecito nel
comportamento di costui, ma non si sono arresi di fronte all’apparenza di
quella vita anonima e piatta, e hanno approfondito le indagini, scoprendo che il
tizio … non lavorava. I solerti carabinieri,
ai quali, come è noto, non la si fa, hanno subodorato che qualcosa non quadrava,
sicuramente c’era sotto qualcosa di illecito, e sennò come faceva questo
signore a mantenersi non lavorando? E si sono precipitati a segnalare
l’anomalia al magistrato. Peccato che il tizio abbia 75 anni, è pensionato e
vive, seppure stentatamente, con la sua pensione e quella di sua moglie. Non
solo ma, giusto per aggiungere carne al fuoco, nel fascicolo di questo signore
è spuntata come per incanto una condanna che egli non ha mai riportato. Evidentemente
la verità è una discriminante che vale in un modo o nell’altro a seconda che
riguardi l’un cittadino o l’altro e, come si vede, in questo caso il nostro mafioso
si è dovuto accontentare della verità apparecchiata con lo scopo di raggiungere
l’obiettivo prefissato. Tanto chi volete che prenda le difese di un mafioso? Certo
può accadere di più e di peggio, può accadere che un giovane entri in carcere e
ne esca cadavere dopo avere subito una bella ripassata. La colpa viene
accertata, i colpevoli no. I familiari strepitano ma sono destinati a farsene
una ragione, in definitiva quel giovane se l’è cercata, non poteva che finire
così uno che ha condotto una vita dissoluta, secondo la felice uscita di un
funzionario dello Stato.
A questo punto la domanda è
lecita: c’è qualcuno che sanzioni la disinvoltura dell’apparato investigativo
con i suoi discutibili, conseguenti provvedimenti, che paghi per la morte di un
ragazzo preso in consegna dallo Stato, che risponda delle speranze tradite di
quanti si sono arresi alla rassegnazione e dell’innocenza perduta di quanti si
sono ribellati rivolgendosi al crimine e
dedicandosi alla prepotenza di grande e piccolo cabotaggio, che si contrapponga
all’arroganza dei potenti che si sono sostituiti allo Stato e scoraggiano ogni
riforma, che sappia semplicemente guidare il Paese? Dove è il giudice a
Berlino, dove è lo Stato autentico?
A questo Stato può accadere persino
il paradosso di farsi bacchettare da un condannato per mafia. È il segno dei tempi!
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