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venerdì 21 novembre 2014

La bella Italia

L’Italia è ormai un Paese che appartiene a quanti riescono ad appropriarsene approfittando del vuoto di potere e realizzando con l’arbitrio il proprio privilegio. Sapendo che non c’è una sovranità certa in difesa dell’interesse generale, ognuno arraffa la fetta di potere di cui è capace e la piega agli interessi che rappresenta. Convinti che non siamo più una nazione, ciascuno si arrangia come può, sapendo di potere  contare ormai solo su se stesso e di non dovere rispondere ad una autorità sovrana ma esclusivamente all’imperativo del proprio “particulare”. È così che si è innescata una corsa alle scorciatoie più o meno lecite, declinate nelle forme più o meno invasive a seconda della elasticità delle coscienze, e si è determinata una disuguaglianza che non nasce dalla diversità dei doni fornitici da madre natura ma dalla spregiudicatezza che ciascuno mette in campo senza tanti scrupoli. Si è accentuata in questo modo la distanza tra le classi sociali che assegna ai furbi e ai potenti le zone franche del privilegio e dell’impunità e confina gli onesti e i deboli nelle retrovie della lotta per la sopravvivenza. In queste contrade l’espediente la fa da padrone , chi non trova lavoro si dedica al lavoro nero o a all’attività illecita, chi non ha casa occupa quella degli altri, chi non ha nulla da offrire alla propria famiglia taccheggia al supermercato. Nelle atmosfere rarefatte del privilegio, al contrario, caste e lobby si dividono le parti più nobili dell’animale lasciando ai paria le frattaglie, tutto nell’indifferenza di uno Stato che non c’è. Il Paese va in pezzi fisicamente come dimostra l’incuria con cui vengono trattati la natura e i nostri beni culturali, e va in pezzi la fiducia nello Stato di quanti ormai non si fanno più illusioni e si abbandonano al fatalismo che li degrada o all’illecito che li degrada ancora di più o li gratifica a seconda dei punti di vista. Non c’è un potere forte che sappia abbattere i costi che alimentano il debito pubblico e l’avidità dei privilegiati a guardia di rendite di posizione che, garantendo lo status quo, frenano la ripresa, che sappia liberare gli spiriti animali di una economia che, unica in Europa, continua recedere, che sappia sconfiggere l’inedia di una classe dirigente incapace di osare perché ripiegata su se stessa e priva di idee e di sogni. Tempi lunghi, lacci e laccioli, nequizie consolidate, energie sciupate, risorse inutilizzate, sono i protagonisti negativi di un Paese senza guida. Per non parlare dello stato di salute della giustizia. Il buon mugnaio tedesco ci aveva illusi che ci fosse un giudice a Berlino ma abbiamo appreso a nostre spese che in Italia nessun giudice difende nessun mugnaio. Le decine di condanne smentite da assoluzioni successive e le altre che, seppur  scritte nella evidenza del reato, non possono essere emesse grazie a complicità corporative o a processi andati fuori tempo massimo, testimoniano di una giustizia schizofrenica che consente impunità allo stesso modo in cui incoraggia impianti accusatori costruiti sul vuoto probatorio dall’intransigenza di taluni magistrati che hanno sostituito il libero convincimento con il libero arbitrio. Succede se nessuno paga e si fa strada la convinzione dell’onnipotenza con l’alibi dell’indipendenza, unita alla insipienza di un sistema giudiziario allo sbando, debole con i forti e forte con i deboli. E a proposito di deboli, un capitolo a parte è quello che riguarda la giustizia che colpisce i mafiosi. A scanso di equivoci e prevedendo le solite sortite in malafede dei “pasionari” del giustizialismo, dico che la giustizia deve essere severa nei confronti di un fenomeno che va combattuto senza tentennamenti, ma dico altresì che il rispetto delle regole deve valere anche per i mafiosi.  Accuse generiche che si fondano sul pregiudizio e colpiscono  comportamenti ritenuti moralmente discutibili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in azioni illecite, non possono avere patria in un sistema che poggi autenticamente sulla certezza del diritto. Processare la reputazione anziché il reato, significa processare il fumus, e di fumus il diritto muore. Siamo sempre là, tutto può avvenire perché non c’è uno Stato autentico che vigili ed eviti che mafia e antimafia regolino i loro conti come in una sfida personale.  Ho raccolto lo sfogo di un condannato per mafia che, dopo avere scontato la sua pena, attende di essere assegnato alle misure di prevenzione. Affinché le misure vengano adottate, occorre che il magistrato disponga di una relazione delle forze dell’ordine  sulla condotta dell’indagato, sulle sue frequentazioni, sui suoi contatti. I carabinieri incaricati di fare la relazione non hanno riscontrato nulla di illecito nel comportamento di costui, ma non si sono arresi di fronte all’apparenza di quella vita anonima e piatta, e hanno approfondito le indagini, scoprendo che il tizio … non lavorava. I solerti  carabinieri, ai quali, come è noto, non la si fa, hanno subodorato che qualcosa non quadrava, sicuramente c’era sotto qualcosa di illecito, e sennò come faceva questo signore a mantenersi non lavorando? E si sono precipitati a segnalare l’anomalia al magistrato. Peccato che il tizio abbia 75 anni, è pensionato e vive, seppure stentatamente, con la sua pensione e quella di sua moglie. Non solo ma, giusto per aggiungere carne al fuoco, nel fascicolo di questo signore è spuntata come per incanto una condanna che egli non ha mai riportato. Evidentemente la verità è una discriminante che vale in un modo o nell’altro a seconda che riguardi l’un cittadino o l’altro e, come si vede, in questo caso il nostro mafioso si è dovuto accontentare della verità apparecchiata con lo scopo di raggiungere l’obiettivo prefissato. Tanto chi volete che prenda le difese di un mafioso? Certo può accadere di più e di peggio, può accadere che un giovane entri in carcere e ne esca cadavere dopo avere subito una bella ripassata. La colpa viene accertata, i colpevoli no. I familiari strepitano ma sono destinati a farsene una ragione, in definitiva quel giovane se l’è cercata, non poteva che finire così uno che ha condotto una vita dissoluta, secondo la felice uscita di un funzionario dello Stato.
A questo punto la domanda è lecita: c’è qualcuno che sanzioni la disinvoltura dell’apparato investigativo con i suoi discutibili, conseguenti provvedimenti, che paghi per la morte di un ragazzo preso in consegna dallo Stato, che risponda delle speranze tradite di quanti si sono arresi alla rassegnazione e dell’innocenza perduta di quanti si sono ribellati rivolgendosi  al crimine e dedicandosi alla prepotenza di grande e piccolo cabotaggio, che si contrapponga all’arroganza dei potenti che si sono sostituiti allo Stato e scoraggiano ogni riforma, che sappia semplicemente guidare il Paese? Dove è il giudice a Berlino, dove è lo Stato autentico?
A questo Stato può accadere persino il paradosso di farsi bacchettare da un condannato per mafia. È  il segno dei tempi!

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