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mercoledì 17 luglio 2013

Il caso kazako

Non credo che Alfano meriti di essere crocifisso più di tanto per il pasticcio kazako. Come dice D’Alema, egli non può essere colpevole di non sapere. “Se non glielo dicono, non sa, e questo non è una colpa”. Intendiamoci, egli non sapeva del rimpatrio forzato dei familiari di Ablyazov, ma sapeva che l’ambasciatore del Kazakistan l’aveva cercato tanto da averlo indirizzato al suo capo di gabinetto Procaccini ed essere stato da questi informato dell’avvenuto colloquio e che l’ambasciatore era stato dirottato al prefetto Valeri. Non c’è motivo di ritenere che Procaccini menta e male ha fatto Alfano a negare in Parlamento la circostanza. Così come male ha fatto a incaricare Procaccini di ricevere l’ambasciatore. In quanto tale, il diplomatico andava invitato a rivolgersi al ministero degli esteri e Procaccini, informato dall’ambasciatore che era interessato alla cattura di un latitante kazako colpevole di reati comuni, avrebbe dovuto invitarlo a seguire le normali procedure, a rivolgersi alle autorità competenti. Gli ha invece riservato una corsia preferenziale affidandolo alle cure di Valeri, capo della segreteria del Dipartimento di pubblica sicurezza, e lanciando un messaggio inequivocabile. Da questo momento infatti i kazaki si sono potuti permettere un vero e proprio pressing nei confronti dei funzionari di polizia italiani che a loro volta hanno dimostrato una inusuale accondiscendenza nei confronti di richieste a dir poco anomale, sicuramente sulla base dell’accreditamento che i kazaki avevano avuto dalla presentazione di Procaccini. Insomma una storia di ordinaria raccomandazione che ha avuto conseguenze gravi di cui però non può essere ritenuto responsabile il ministro e tanto meno Procaccini. Quest’ultimo era fermo all’informazione avuta da Valeri e passata ad Alfano, che era stata effettuata una operazione di polizia che si era conclusa senza l’arresto del latitante, ma non che fosse stata avviata una procedura di rimpatrio. Di questa iniziativa sia Alfano che Procaccini non erano al corrente.
Tutto parte dalla raccomandazione, è vero, ma quello che è seguito ricade esclusivamente nella responsabilità delle forze di polizia. Doveva insospettire che un ambasciatore si scomodasse per un delinquente comune, doveva destare allarme la inconsueta attenzione riservata ai familiari di quello che veniva indicato come un delinquente comune, al punto da mettere a disposizione per l’espatrio un jet privato. Tutto questo avrebbe dovuto indurre ad una maggiore attenzione, ad approfondire le indagini sulla reale identità di madre e figlia destinati al rimpatrio, soprattutto ad informare il ministro. E invece niente, anzi i funzionari di polizia hanno dimostrato uno zelo particolare adottando la decisione del rimpatrio in tempi record e procedendo, secondo quanto afferma l’avvocato della signora Shalabayeva, ad una irruzione brutale nella villa di Casal Palocco.
La morale della favola è che siamo alle solite, siamo all’assenza della politica quando la politica serve come in questo caso in cui sono a rischio diritti umani, e lascia un vuoto che i burocrati si affrettano a riempire assumendo decisioni che non sono di loro competenza. Pochi giorni fa ho scritto dei gran commis, della casta autoreferenziale che ritiene di non dover dar conto del suo operato alla politica, di una consorteria che, in difesa di interessi consolidati e unita da legami comuni, decide in piena autonomia e senza controlli su materie nelle quali è la sola a raccapezzarsi. I fatti purtroppo si incaricano di confermare che nel fare come nel disfare questi signori fanno il bello e il cattivo tempo e costituiscono un vulnus per la democrazia nella misura in cui si sostituiscono alle decisione della politica e alla volontà popolare da essa rappresentata, avocando a sé un ruolo usurpato.

Alfano non ha colpa nello specifico ma, in quanto rappresentante del mondo politico, è responsabile della latitanza della politica e della deriva autoritaria della burocrazia.

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