La sparatoria a Palazzo Chigi
La sparatoria davanti a Palazzo Chigi ha innescato la solita
ridda di dichiarazioni sulla matrice e il significato dell’episodio.
C’è chi ha parlato di attentato allo Stato, chi si è
schierato dalla parte di Luigi Preiti definendolo vittima delle ingiustizie
dello Stato, chi ha approfittato per strumentalizzare la sparatoria
considerandola frutto del clima avvelenato prodotto dal populismo grillino,
senza contare il solito delirio in rete.
Qualcuno si è spinto fino a proporre un paragone con la
violenza negli Stati Uniti dove fatti di sangue gravi e isolati si ripetono con
frequenza inquietante, temendo una “americanizzazione” della nostra società. Il
malessere di una società malata e contraddittoria si starebbe impadronendo anche
da noi di menti labili e desterebbe motivi di preoccupazione. In verità il
succedersi anche in Italia di episodi di violenza gratuita e spettacolare
giustificherebbe questa preoccupazione se non fosse che la diversa
strutturazione della società italiana e di quella statunitense rende
improponibile il confronto.
Rimane il mistero di una sparatoria enigmatica motivata
dall’autore con la disperazione di una condizione economica e sociale di cui
sarebbe vittima a causa della recessione. E rimane il balletto di dichiarazioni
a ruota libera di commentatori e politici. Ho l’impressione che la vera
protagonista delle dichiarazioni che si
avventurano nella interpretazione del gesto di Preiti, sia la mistificazione. La
voglia di approfittare di un episodio tutto sommato banale quale è ogni male
gratuito, per salire in cattedra e pontificare con analisi improbabili, è una
tentazione alla quale la vanità non riesce a sottrarsi. La giustificazione del
disagio sociale accampata dall’attentatore, la pretesa di fare della sparatoria
addirittura un attentato allo Stato e quella di attribuire al gesto di Preiti
connotazioni che rimandano da una parte a motivazioni di disagio sociale quasi
a giustificarlo, dall’altra parte al clima avvelenato quasi a volere indicare
dei mandanti, attribuiscono all’episodio una dimensione che non gli appartiene.
Credo si possa dire molto più realisticamente che ci
troviamo di fronte al gesto di uno fuori di testa che ha nella mancanza della ragione
la sua ragione o, al più, di fronte all’espediente più o meno consapevole di un
uomo dedito al gioco, vittima di se stesso piuttosto che della società, il quale,
al contrario di quanti ogni giorno si misurano con le difficoltà della vita e
si ingegnano di superarle in maniera normale, non ha saputo trovare altra
soluzione se non il gesto eclatante che lo proiettasse sul palcoscenico della
commiserazione, incurante del sangue versato e, guarda caso, provvidenzialmente
sprovvisto della pallottola destinata al suo suicidio. Ma siamo sempre nel
campo della follia.