L’Unione Europea ha condannato l’Italia per il sovraffollamento
nelle sue carceri. C’era da aspettarselo, anzi ci si stupisce come mai la
condanna si limiti al sovraffollamento e non investa altri aspetti del sistema
giudiziario italiano che ha fatto man bassa del diritto. La detenzione
preventiva, per esempio, che fa scontare in anticipo una condanna che potrebbe
non essere emessa, la tortura di certe detenzioni speciali che confliggono con
il rispetto dei diritti fondamentali, la lunghezza dei processi, la confisca
delle vite di uomini che, dopo avere pagato con il carcere, sono costretti a
pagare un conto aggiuntivo, quello delle misure di prevenzione decise in
maniera dogmatica.
Pannella, come al solito senza mezzi termini, ha definito l’Italia“tecnicamente
criminale”. Non si può non essere d’accordo con lui, perché di questo Stato che
fa vivere la carcerazione ai suoi cittadini come dei polli in batteria, che
causa suicidi in carcere con cadenza quasi giornaliera, che infligge tempi
giudiziari biblici, che ha barato procurando l’ergastolo a sette innocenti
condannati per la strage di via D’Amelio, che depista, occulta, falsifica,
omette, sperpera vite umane, non si può esser fieri e non lo si può ritenere meritevole
di svolgere le funzioni istituzionali di rappresentanza e di garanzia. Che
razza di Stato è quello nel quale il Parlamento boccia un disegno di legge del
ministro di Grazia e Giustizia sulle misure alternative che, oltre a sfoltire
le presenze in carcere, abbassano dal 70% al 19,8% la recidiva, o nel quale un
imputato, come nel mio caso, è relegato per quindici anni fra i cittadini
indegni a causa del ritardo nella emissione di una sentenza definitiva che ancora,
dopo quindici anni, aspetta di essere pronunciata?
Uno che se ne intendeva, Cesare Beccaria, raccomandava che
una sentenza, perché fosse giusta, dovesse avere il requisito della
immediatezza, affinché appaia evidente il rapporto di causa ed effetto fra
reato e pena, e affinché non appaia ingiusta una pena inflitta dopo tanti anni
ad un uomo che, trascorso tutto quel tempo, non è più lo stesso uomo, non è più
l’originario autore del reato. Recentemente Umberto Veronesi, intervenendo a
favore dell’abolizione dell’ergastolo, ha ribadito con considerazioni scientifiche
il concetto di Beccaria. Ha scritto Veronesi: “Fino a pochi anni fa pensavamo
che con il tempo aumentassero le sinapsi, i collegamenti fra neuroni. Oggi
abbiamo scoperto invece che il cervello è dotato di cellule staminali proprie,
e dunque si rigenera. Quindi automaticamente il nostro cervello può rinnovarsi.
In effetti ognuno di noi può sperimentare come il suo modo di pensare e sentire
non sia lo stesso di 10 anni prima; ma il ragionamento ha ben più forti
implicazioni a livello della giustizia, perché il detenuto non è la stessa
persona condannata 20 anni prima…..”. Un processo che si prolunga per 15 anni,
finisce per essere scippato del suo imputato, sulla scena del delitto rimane
solo un fantasma e la sentenza, se di condanna, colpisce un innocente.
Uno Stato del genere non merita il rispetto dovuto alla
Patria di tutti noi, e non condivido le dichiarazioni di compostezza professate
da alcuni condannati nell’accettare le sentenze della magistratura. La
compostezza si imporrebbe se le leggi fossero giuste, se la magistratura fosse
messa nelle condizioni di offrire garanzie di imparzialità, di essere equidistante,
indipendente, atarassica custode della legge e ai condannati fosse consentito
di scontare la loro pena con dignità. Purtroppo non è così e il diritto non può
identificarsi con lo Stato se lo Stato non è giusto, se esso è venuto meno al patto
con i suoi cittadini nell’amministrare la giustizia come in tutte le altre
funzioni con le quali dovrebbe far sentire tutelati i suoi figli. Privati di
questa certezza, delle garanzie disattese da un impegno non mantenuto, non
possiamo condividere la sindrome di Stoccolma di chi, massacrato dallo Stato,
professa fiducia nelle istituzioni.
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