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mercoledì 9 gennaio 2013

La condanna della U.E.


L’Unione Europea ha condannato l’Italia per il sovraffollamento nelle sue carceri. C’era da aspettarselo, anzi ci si stupisce come mai la condanna si limiti al sovraffollamento e non investa altri aspetti del sistema giudiziario italiano che ha fatto man bassa del diritto. La detenzione preventiva, per esempio, che fa scontare in anticipo una condanna che potrebbe non essere emessa, la tortura di certe detenzioni speciali che confliggono con il rispetto dei diritti fondamentali, la lunghezza dei processi, la confisca delle vite di uomini che, dopo avere pagato con il carcere, sono costretti a pagare un conto aggiuntivo, quello delle misure di prevenzione decise in maniera dogmatica.
Pannella, come al solito senza mezzi termini, ha definito l’Italia“tecnicamente criminale”. Non si può non essere d’accordo con lui, perché di questo Stato che fa vivere la carcerazione ai suoi cittadini come dei polli in batteria, che causa suicidi in carcere con cadenza quasi giornaliera, che infligge tempi giudiziari biblici, che ha barato procurando l’ergastolo a sette innocenti condannati per la strage di via D’Amelio, che depista, occulta, falsifica, omette, sperpera vite umane, non si può esser fieri e non lo si può ritenere meritevole di svolgere le funzioni istituzionali di rappresentanza e di garanzia. Che razza di Stato è quello nel quale il Parlamento boccia un disegno di legge del ministro di Grazia e Giustizia sulle misure alternative che, oltre a sfoltire le presenze in carcere, abbassano dal 70% al 19,8% la recidiva, o nel quale un imputato, come nel mio caso, è relegato per quindici anni fra i cittadini indegni a causa del ritardo nella emissione di una sentenza definitiva che ancora, dopo quindici anni, aspetta di essere pronunciata?
Uno che se ne intendeva, Cesare Beccaria, raccomandava che una sentenza, perché fosse giusta, dovesse avere il requisito della immediatezza, affinché appaia evidente il rapporto di causa ed effetto fra reato e pena, e affinché non appaia ingiusta una pena inflitta dopo tanti anni ad un uomo che, trascorso tutto quel tempo, non è più lo stesso uomo, non è più l’originario autore del reato. Recentemente Umberto Veronesi, intervenendo a favore dell’abolizione dell’ergastolo, ha ribadito con considerazioni scientifiche il concetto di Beccaria. Ha scritto Veronesi: “Fino a pochi anni fa pensavamo che con il tempo aumentassero le sinapsi, i collegamenti fra neuroni. Oggi abbiamo scoperto invece che il cervello è dotato di cellule staminali proprie, e dunque si rigenera. Quindi automaticamente il nostro cervello può rinnovarsi. In effetti ognuno di noi può sperimentare come il suo modo di pensare e sentire non sia lo stesso di 10 anni prima; ma il ragionamento ha ben più forti implicazioni a livello della giustizia, perché il detenuto non è la stessa persona condannata 20 anni prima…..”. Un processo che si prolunga per 15 anni, finisce per essere scippato del suo imputato, sulla scena del delitto rimane solo un fantasma e la sentenza, se di condanna, colpisce un innocente.
Uno Stato del genere non merita il rispetto dovuto alla Patria di tutti noi, e non condivido le dichiarazioni di compostezza professate da alcuni condannati nell’accettare le sentenze della magistratura. La compostezza si imporrebbe se le leggi fossero giuste, se la magistratura fosse messa nelle condizioni di offrire garanzie di imparzialità, di essere equidistante, indipendente, atarassica custode della legge e ai condannati fosse consentito di scontare la loro pena con dignità. Purtroppo non è così e il diritto non può identificarsi con lo Stato se lo Stato non è giusto, se esso è venuto meno al patto con i suoi cittadini nell’amministrare la giustizia come in tutte le altre funzioni con le quali dovrebbe far sentire tutelati i suoi figli. Privati di questa certezza, delle garanzie disattese da un impegno non mantenuto, non possiamo condividere la sindrome di Stoccolma di chi, massacrato dallo Stato, professa fiducia nelle istituzioni.

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