Il giornalismo in Italia, fatte poche eccezioni, soffre di
nanismo nei confronti delle testate di respiro europeo. Provinciale e
bacchettone, si presta all’adulazione nei confronti del potente di turno o si
lascia guidare da incrostazioni ideologiche che assoggettano la verità a
teoremi precostituiti e guardano alle vicende del mondo e di casa nostra con
strabica incoerenza. Un simile giornalismo non si ispira all’unico ideale dal
quale dovrebbe essere spinto, e cioè a quello di vigilare affinché a chi legge
giunga una informazione onesta, di ringhiare ai polpacci dei potenti, di servire
il solo padrone che Montanelli riconosceva, il lettore, serve semmai le proprie
convenienze e, invece di constatare e narrare la realtà, la partorisce ad
libitum offrendola contraffatta in pasto allo sprovveduto lettore. La notizia
in questo modo diventa strumento di parte piuttosto che del lettore, suggestiva
e suggerita dall’interesse per lo scoop e per il messaggio che si vuole far
giungere, fedele ai luoghi comuni di maniera che fanno tendenza, è macelleria
protesa alla vendita di più copie e alla difesa di rendite di posizioni, cinica
fino a pregiudicare vite e reputazioni, fino a ingannare i lettori.
E’ così che veniamo bombardati da notizie drogate su che
cosa è giusto e cosa non lo è, su che cosa è vero e cosa non lo è, in materia
di diritti umani, di giustizia, di scelte politiche, di scelte etiche, di
tragedie sparse per il mondo. Si danno letture diverse delle sacche di
ingiustizia morale, economica, sociale, di discriminazioni razziali e religiose,
a seconda che rispondano o meno alle ideologie di parte o agli appetiti del
mercato mediatico.
Si enfatizza, come è giusto, il dramma del popolo
palestinese ma non se ne analizzano onestamente le cause e le origini,
ricorrendo ad una comoda demonizzazione di Israele.
Si levano voci indignate contro l’imperialismo degli Stati
Uniti, su una certa loro disinvoltura nel trattamento dei diritti umani a
Guantanamo e nelle varie arie geografiche, Vietnam, Afganistan, Iraq, in cui
sono stati e sono impegnati, ma si glissa sulla sorte dei dissidenti a Cuba o
in Cina o in Iran.
Ci si sbizzarrisce sugli epiteti da riservare ai nostri
governanti che, per carità, sono la causa prima del nostro malessere e meritano
tutto la nostra disapprovazione, ma non si è capaci di allargare l’orizzonte
denunciando la disinvoltura delle nostre banche che utilizzano gli euro
ottenuti a tassi di realizzo dalla BCE per speculare investendo in BOT e CCT
invece che per far credito alle imprese e alle famiglie o analizzando il
fenomeno di certa finanza internazionale che mette in crisi popoli interi. Ormai
l’impresa più redditizia non è quella industriale con i suoi rischi e le sue
finalità sociali, è la finanza spietata che gira solo attorno al proprio
ombelico. Si parla tanto di poteri forti ma nessuno che faccia nomi e cognomi e
ci dica cosa è veramente questa specie di Spectre. Nessuno che smascheri
l’ipocrisia dell’approccio moralistico di alcuni Paesi cosiddetti virtuosi, preoccupati
di difendere la propria integrità dal pericolo del contagio, che oggi
pretendono di imporre a popoli già stremati ricette di dimagrimento senza la
prescrizione delle vitamine per la crescita, laddove ieri incoraggiavano gli
stessi popoli allo sperpero per saziare gli appetiti delle loro economie.
Ci si strappa le vesti sui rischi del populismo tutto
italiano di destra e di sinistra che si affida a messaggi improbabili e dunque
facile da disinnescare, ma si tace sul vero rischio che nasce dal fiume carsico
di una potente burocrazia che trama dispotica invischiando la macchina dello
Stato e condizionandola fino al punto da impedire il regolare funzionamento di
essa e il varo delle riforme necessarie. Ci si sciacqua la bocca con la
sacralità della separazione dei poteri, ma nessun grido di protesta si leva
quando un potere travalica con invasioni di campo e mette a rischio la
democrazia e le garanzie dei singoli. Non ci si scandalizza per l’uso improprio
di carriere destinate a svolgere delicate funzioni dello Stato e impiegate
invece per approdare a più comode e fruttuose carriere politiche, grazie alla
visibilità conquistata sul campo.
Si da addosso ai poveri diavoli ma si risparmiano i
santuari. Alcuni giornalisti, con piena consapevolezza di quale sia la scelta
di campo più conveniente, non hanno dubbi sulle colpe degli imputati declinate
come certe nei sancta sanctorum delle procure e le propalano come definitive
senza tanti riguardi per la presunzione di innocenza, senza tanti complimenti e
soprattutto senza tanti sciocchi scrupoli nel compiacere la fonte della notizia
e verificarne la fondatezza.
E ci sono poi le cause più degne e quelle meno degne. Non
vengono considerate degne per esempio le cause che riguardano le condizioni di
vita dei detenuti e si da notizia nel sottoscala di un minuscolo trafiletto di
una pagina interna, del suicidio del disgraziato di turno in uno dei nostri
grand’hotels carcerari. Non ci si intesta la battaglia per una riforma onesta
della giustizia che sottragga l’imputato, anche se titolare della più infamante
delle accuse, all’arbitrio di un sistema giudiziario che ha fatto strame del
diritto. Al contrario è facile dimenticare la sorte dei cittadini titolari di
imputazioni di un certo tipo contro cui tutto è lecito, contro i quali vale la
vendetta piuttosto che la garanzia del diritto. Si lasciano soli ad abbaiare
alla luna personaggi folli e straordinari come Pannella.
Ci si intesta invece il giacobinismo di una opinione pubblica
avvilita e confusa, disposta a farsi ingannare, e lo si incoraggia con articoli
che lisciano il pelo del qualunquismo e alimentano la sete di giustizialismo. Basta
andare in rete per imbattersi in un campionario infinito di ovvietà frutto
della normalizzazione che l’informazione ha fatto del nostro cervello.
Personaggi anonimi e squallidi spacciano per originali convincimenti che sono
stati subdolamente inculcati dal bombardamento di verità addomesticate, e nelle
televisioni assistiamo a osceni giochi delle parti contrabbandati per dibattiti
in cui tutto è assicurato tranne la decenza.
Si strilla di uguaglianza ma i balconi dei protestatari
d’assalto confinano con quelli del potere e persino gli uomini deputati alla
carità si siedono sugli scranni della loro alta appartenenza lontana dai poveri
di spirito, senza che da quella stampa che dovrebbe attivare un controllo severo
nei confronti dei potenti, si levi un grido di denuncia.
Tiziano Terzani, a proposito di che cosa deve essere il
giornalismo ha scritto: “Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione
religiosa, se vuoi, non cedendo a trappole facili. La più facile, te ne volevo
parlare da tempo, è il Potere. Perché il potere corrompe, il potere ti
fagocita, il potere ti tira dentro di sé! Capisci? Se ti metti accanto a un
candidato alla presidenza in una campagna elettorale, se vai a cena con lui
diventi un suo scagnozzo, no?.......Il mio istinto è stato sempre di starne
lontano……Lo puoi chiamare anche una forma di moralità. Ho sempre avuto questo
senso di orgoglio che io al potere ci stavo di faccia, lo guardavo, e lo
mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma
quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non
andava, facevo le domande. Questo è giornalismo.” Luigi Einaudi a sua volta paragonava
il giornalismo al sacerdozio.
Quelli erano i tempi di Terzani e di Einaudi, i tempi di
oggi vedono i giornalisti massicciamente presenti nelle liste dei candidati
alle prossime elezioni politiche e registrano il tracollo dell’innocenza di quanti
credono alle favole.