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venerdì 5 agosto 2011

La società civile

Ci lamentiamo della nostra classe politica e ad essa indirizziamo le nostre maledizioni tutte le volte che i nostri interessi non sono interpretati come vorremmo. Il fatto è che i nostri interessi non sempre coincidono con ciò che è giusto realizzare e tutto nasce da un equivoco su cosa siamo e cosa vogliamo. Siamo forse un popolo che ha la consapevolezza del patto sottoscritto e ha a cuore il bene comune, oppure siamo un popolo che ha come obiettivo la realizzazione dell’interesse particolare? Chiarito questo, sapremo se è il caso o no di farci illusioni. Possiamo cominciare col dire che la contrapposizione tra una società civile innocente e una classe politica che la rappresenta male, è fittizia. Non siamo per nulla innocenti e quando ci lamentiamo di essere traditi nelle nostre aspettative e con cadenze periodiche rovesciamo il tavolo, dobbiamo interrogarci se abbiamo stabilito regole del gioco oneste e se è chiaro il patto che abbiamo stretto con i nostri rappresentanti. Se ad uomini eletti alla cosa pubblica chiediamo risposte disoneste, dobbiamo anche aspettarci di essere traditi perché, mancando la remora del valore ideale che condiziona le coscienze, il disonesto non si fa scrupolo di venir meno ai patti sottoscritti se deve scegliere tra il proprio interesse e l’interesse altrui. Purtroppo le risposte che chiediamo ai nostri rappresentanti sono per la maggior parte disoneste perché siamo un popolo consortile che non ha radicato il concetto di interesse collettivo da opporre all’interesse particolare, che invoca il rigore fino a quando esso non tocca i nostri interessi, che pretende il rispetto dell’efficienza fino a quando essa non passa attraverso il nostro impegno, che lamenta i privilegi delle varie caste a patto che non siano messi in discussione i nostri privilegi, che piange sulle macerie di una vita indegna di chiamarsi tale ma non è stato capace di crearsene una migliore, che è incapace di indignarsi contro chi irride la decenza cui anzi ammicca con complice e ammirata compiacenza. Cialtroni e intolleranti, pretendiamo l’impunità per noi con la stessa enfasi con cui invochiamo il fanatismo giudiziario per gli altri, condiscendenti con i nostri peccati erigiamo forche alle quali impiccare chi è appena sfiorato da un’indagine, vuoti di idee che non siano le solite furbe scorciatoie e privi dell’orgoglio che impone di issare bandiere scomode ma degne, preferiamo lasciar correre piuttosto che impegnarci e marciamo spediti verso traguardi che ci fanno guadagnare puntualmente il discredito internazionale. Disinvolti e votati all’intrallazzo, siamo un popolo dal compromesso facile che impegna la coscienza in spericolati salti della quaglia. A un certo punto, consapevoli di avere affidato le carte truccate a furfanti più furbi di noi, rimettiamo in discussione la partita e ci affidiamo a nuovi furbi che ripeteranno il tradimento dei nostri interessi fino al prossimo ribaltone e così all’infinito in un susseguirsi di tentativi destinati a infrangersi sempre contro lo scoglio del demagogo di turno. Tutto siamo tranne un popolo innocente che può rivendicare un patrimonio di valori ideali che faccia da collante e “stringa a coorte” tutte le anime della nostra Patria quando occorre. A quanti sostengono che il nostro Paese è oggi migliore di chi lo dirige, a chi enfatizza la crescita del 13% delle nostre esportazioni a dimostrazione del valore delle nostre imprese nonostante questa classe politica, va obiettato che tanto valore ha il torto di spendersi in una sorta di satiriasi individualista restia ad inquadrarsi in una intelaiatura di regole e a costruire un tessuto che ci renda disciplinati e socialmente coesi, che questa classe politica, questa giustizia che non funziona, l’incertezza del diritto, i lacci e laccioli della burocrazia, la supponenza dei nostri cosiddetti maitres à penser capaci delle più sofisticate elaborazioni concettuali che non approdano a nulla, non ci piovono dall’alto ma sono ciò che ci meritiamo, perché non sappiamo esprimere altro. Quando invochiamo un governo tecnico in cui presunti competenti sostituiscano l’inettitudine della politica, ci dobbiamo interrogare dove sono stati i nostri competenti quando si consumava il disastro economico e finanziario su cui è stata costruita l’Italia del dopoguerra, nella convinzione che si potesse crescere incrementando la spesa e banchettando con il debito pubblico. Si può dire che siamo un popolo capace di esprimere genialità individuali con la stessa disinvoltura con cui esprime la mediocrità della sua base sociale e della sua rappresentanza. L’appello di Galli della Loggia che invita ad uno sforzo comune per trovare un’intesa all’insegna delle reciproche concessioni per carità di patria, per solidarietà nazionale e per salvare la Repubblica, è destinato a cadere nel vuoto.

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