Non c’è niente più della sofferenza che dia la misura dei limiti della condizione umana e dell’oscenità di una debolezza senza ritegno provocata dal dolore. E’ una condizione che ricorre nei frangenti drammatici della nostra vita e che ho riscontrato in ospedale dove sono stato ricoverato per un intervento di poco conto e dove sono venuto a contatto con la sofferenza stupita e rassegnata di uomini e donne che si misurano con sfide che non avevano previsto.
In quasi tutti ricorre la convinzione che le cose accadranno agli altri e, quando esse accadono a noi, lo sgomento è tanto più profondo quanto più è impreparato a fronteggiarle.
Ho diviso la mia stanza con un coetaneo, preda dei ricatti di un fisico che lo ha abbandonato da tempo, il quale piangeva ringhiando al proprio dolore con lo spirito indomito che in passato deve essere stato una dote del suo carattere e che si indovinava nelle tracce di una aggressività rabbiosa e senza speranza. Spossato, dopo tanto inveire, aveva perduto la forza della rabbia e gemeva con lamenti flebili appoggiando il capo sul grembo della moglie e accennando un sorriso mesto che si perdeva nello sguardo colmo d’amore della donna china su di lui.
I figli si alternavano nella stanza rassegnati alla cocciutaggine della madre, quella sposa minuta e apparentemente fragile, la quale non voleva saperne di staccarsi dal capezzale del marito che assisteva notte e giorno, ormai da quindici giorni, dormendo come poteva e nutrendosi del poco che le concedeva il suo cuore preso quasi esclusivamente da quella incombenza. Cinquant’anni di matrimonio ne avevano fatto una proiezione del marito e staccarsene anche solo per andare a prendere un caffè, era per lei un tradimento che non riusciva a concepire. Me ne parlava pacatamente come di una ovvietà, stupendosi dell’insistenza dei figli e abbandonandosi a vibrate proteste, lei in genere così mite. Si rivolgeva a me come a chiamarmi a testimone della stoltezza dei figli e si piegava sul marito accarezzandolo sulla fronte e prendendogli le mani.
E’stata un’esperienza, tra le tante di cui sono stato testimone in ospedale, che mi ha colpito particolarmente e che non riesco a dimenticare.
Quando leggiamo che l’uomo, anche il più cristiano tra essi, non è capace di coltivare pietà per i propri simili al punto da concepire i grandi cataclismi come una giustizia di Dio ( Roberto de Mattei ) scimmiottando la teodicea agostiniana in cui l’uomo non ha scampo al proprio male ed è consegnato ad una predestinazione incurante delle sue opere, ricordiamoci di questa piccola donna piegata sul capezzale del marito sotto il peso di una forza che non tollera diserzioni e da la misura della grandezza umana, la forza dell’amore.
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