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sabato 5 marzo 2011

Il martirio di Shahbaz Bhatti


Sono cristiano e vivo la mia fede come posso, tra mille dubbi, tra i richiami della mia ragione che mi induce allo scetticismo e il bisogno di abbandonarmi alla fede.
Durante la mia vita mi sono posto molte domande e, tra esse, la più pressante ha riguardato l’affermazione di Pascal: “ Il dolore, il cristiano lo accetta, il santo lo cerca “.
Mi chiedevo che senso avesse? Va bene accettare la sofferenza con forza d’animo ma addirittura cercarla, questo non riuscivo a capirlo. Anzi il mio sano, empirico liberalismo mi induceva a ritenere che tutto va ricondotto all’uomo, che alle proprie virtù e ai propri vizi sono affidate le sorti di ciascuno di noi il quale ha il diritto di inseguire e, se ne è capace, di realizzare il destino che ritiene migliore, altro che sofferenza.
Tuttavia, pur mantenendo dritta la barra della mia etica liberale, a un certo punto ho dovuto fare i conti con le esperienze drammatiche che la vita mi ha apparecchiato e con le quali mi son dovuto misurare avvertendo gli scricchiolii delle mie certezze. La crudeltà e la sofferenza hanno valicato il confine dell’umano e mi hanno chiesto ben altro che la mia fierezza d’animo.
Convivere con uomini senza via d’uscita, percepire l’ineluttabilità di vite perdute, sentire il puzzo di bruciato delle fiamme che ardevano nell’animo di giovani tormentati dall’ossessione di farla finita, ha suscitato in me una pietà mai avvertita. Il pudore che blindava il mio cuore e non mi concedeva cedimenti, arretrava di fronte al dramma di vite senza speranza, perdute nel loro infinito nulla e si arrendeva all’abbandono di una scelta temeraria. Fu il momento in cui capii che cosa intende Pascal e cosa intende Agostino quando afferma: “ Costruisci te stesso e costruirai un rudere “.
Cominciai ad avvertire un senso di colpa e a comprendere che la mia fede laica era una forma di egoismo senza approdo ma soprattutto compresi che mi era mancata la capacità di condividere la sofferenza altrui, di trasformare l’inferno in amore, di avere Cristo nel cuore e di essere coinvolto nella Sua follia.
Ho rivissuto le sensazioni che hanno accompagnato il mio percorso di fede e
le condizioni nelle quali esso è maturato quando, leggendo la notizia dell’uccisione di Shahbaz Bhatti, ho riconosciuto nella sofferenza del suo martirio, la sofferenza crudele e feconda del cristiano. Bhatti era cattolico in un Paese, il Pakistan musulmano al 97%, in cui l’intimidazione spinge le confessioni non islamiche all’emarginazione e le battaglie per l’emancipazione religiosa sono estremamente pericolose. Era uno che conduceva la sua lotta impegnandosi, con la consapevolezza dei rischi cui andava incontro ma senza timore delle conseguenze, contro la condizione di minorità dei cristiani. In particolare si batteva per l’abolizione dell’articolo 295 del codice penale che prevede la pena di morte per chi offende Maometto, un articolo che fa correre rischi mortali a chi professa una fede diversa dall’islamismo e può essere accusato ingiustamente di blasfemia. Sono facilmente immaginabili le condizioni in cui si muove chi conduce simili battaglie e di esse si ha una testimonianza nel testamento spirituale scritto da Bhatti : “ Fu l’amore di Gesù che mi indusse a offrire i miei servizi alla Chiesa. Le condizioni spaventose in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico. Mi è stato chiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita………Mi considererei privilegiato qualora- in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan- Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita “. Bhatti sapeva che cosa l’aspettava e, come un martire antico, è andato incontro alla sua sorte con serenità, sapendo di “ guadagnarsi un posto ai piedi di Gesù e di poterlo guardare senza provare vergogna “.

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