Il sisma nipponico ci consegna l’immagine di un popolo dignitoso che ha fatto della sobrietà nell’affrontare una tragedia immane, la sua bandiera. Sono state cancellate vite e intere regioni, assistiamo a scene che lacerano il cuore, stiamo col fiato sospeso per le conseguenze che ancora possono derivare dalle bizze dell’impianto nucleare di Fukushima. A tutto questo si oppongono gli sforzi di eroici volontari che resistono sul ciglio del baratro nucleare combattendo una battaglia eroica e dall’esito incerto, la fermezza del primo ministro, gli occhi sbarrati dei superstiti che pure non si abbandonano a scene di disperazione scomposta. Soprattutto colpisce la capacità di un popolo di fare quadrato e offrirsi agli occhi del mondo con l’orgoglio intatto di una nazione che si riconosce nella figura ieratica del suo imperatore. Ecco quello che più colpisce è questo senso di appartenenza che fa marciare cortei di uomini in ordine compatto, nonostante condizioni estreme, ciascuno nel rispetto dell’altro, senza abbandonarsi all’assalto alla diligenza o ad episodi di furbizia. Di fronte a stravolgimenti apocalittici come quello che ha colpito il Giappone, tutto il resto appare banale e credo che in molti di noi sia affiorato un senso di colpa per la stoltezza con cui diamo importanza a vicende di cui dovremmo sapere ridimensionare la portata, grati alla sorte per essere stata benevola con noi. In particolare noi italiani, allo stesso modo in cui proviamo un senso di ammirazione per un popolo così eroico, non possiamo fare a meno di provare un senso di sconforto se ci rifacciamo alla nostra realtà priva di collante unitario, rissosa e incapace di ritrovare il senso della misura e dell’appartenenza persino nelle ricorrenze più importanti e nelle vicende più drammatiche. La mente va al terremoto dell’Aquila che ha visto dispiegarsi una gara di solidarietà nella quale gli italiani sono impareggiabili, ma ha visto anche venire allo scoperto cialtroni intenti a fregarsi le mani in vista di speculazioni che avrebbero realizzato grazie al terremoto, consorterie che si organizzavano per gestire gli affari del dopo terremoto, uomini politici i quali, alla stregua di corvi che volano sulle macerie, hanno approfittato della tragedia per tentare di lucrare consensi rinfacciandosi reciproche responsabilità.
Incapaci di imparare dalle tragedie altrui, le strumentalizziamo accapigliandoci sul nucleare si, nucleare no, ciascuno cercando di portare acqua al mulino della propria politica in vista del referendum di giugno ma non discutendo seriamente su una scelta che, pur con i suoi rischi, va valutata sapendo che nulla è privo di rischi.
L’esempio nipponico ci rimanda alla nostra inadeguatezza persino nella gestione delle celebrazioni per la ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia che ci vede incapaci di viverla con la solennità, seppur scevra di retorica, che essa impone, con l’orgoglio del nostro passato e la consapevolezza della comune appartenenza ad una cultura tra le più importanti, se non la più importante, mai esistita al mondo. Siamo fermi all’Italia dei Comuni con cui si consumò “l’aborto dell’Italia come Stato nazionale” ( Montanelli ) e in cui la nostra natura di guelfi e ghibellini fa ancora premio sulla nostra capacità di riconoscerci in un’unica Nazione, in cui quello che potrebbe essere un contributo di valori muniti di una loro preziosa peculiarità, all’insieme del Paese, si ferma ad un campanilismo sterile.
Quanto è sentita e come è sentita l’Unità d’Italia ce lo dice la performance di giovanotti nei quali ho avuto la sventura di imbattermi mentre irridevano l’inno di Mameli tra risate sguaiate oppure l’ incapacità di gestire le celebrazioni per la ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia nel segno della pacificazione, facendo a meno del rancore e della mistificazione con cui si è proceduto alla rimozione dalle celebrazioni della monarchia dei Savoia alla quale si vuol far pagare il torto di avere realizzato l’unità d’Italia attraverso la costituzione di uno Stato liberale e costituzionale che ci ha affrancato dal potere assoluto ma ha fatto a pezzi l’utopia di un risorgimento rivoluzionario vagheggiato da pochi sognatori. Quanti hanno fatto della Resistenza un secondo risorgimento in cui si è inseguito il mito di una rivoluzione ancora tentata ma ancora fallita, non perdonano alla monarchia, oltre a tutto il resto, anche quello per cui bisognerebbe onorarla, la realizzazione dell’unità.
Gli eredi del rancore, incuranti dell’importanza di stringersi attorno alla nostra bandiera, non hanno avvertito la miseria morale del loro gesto quando hanno fischiato il Presidente del Consiglio in un giorno di festa nazionale, persino nei luoghi cari alla nostra Patria. E i leghisti a loro volta non percepiscono che sono fuori dalla storia quando bruciano l’effigie di Garibaldi e “celebrano i riti improbabili di una patria inesistente” ( Sergio Romano ). Siamo un popolo irredimibile indegno del nostro passato ed anche del nostro futuro.
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