Carfagna
La querelle esplosa a proposito della ministra Carfagna è la cartina di tornasole di atteggiamenti che derivano dalla sedimentazione di comportamenti accumulati durante tanti anni di asservimento ai parametri della partigianeria politica. Ed è così che la Carfagna diventa tutto e il contrario di tutto. Di lei è stato detto che è l’emblema della “mignottocrazia” proiettata dai fasti del velinismo a quelli della politica, messa in croce, come un’intrusa della politica che vola alta, dagli schizzinosi bardi di sinistra o difesa, come l’esempio della capacità di guadagnare sul campo una sua credibilità politica, dai disinvolti pretoriani di destra , tutto a seconda della convenienza di parte. Scoppiato il caso, è scoppiata anche la decenza e si sono invertiti i ruoli. Chi fino ad ora l’ha attaccata adesso la innalza sugli scudi e la incensa quale vittima, l’ennesima , del solito, bieco berlusconismo, chi invece l’ha difesa, la demonizza come l’esempio di una inconsistenza che non ha alcun valore, campione di intelligenza col nemico con cui è sorpresa a fraternizzare. Si scade nell’insulto da sottoscala e la stessa ministra contribuisce all’ ”ammuina” parlando di lotta tra bande, come si trattasse di un regolamento di conti tra malfattori e apostrofando l’on. Mussolini con l’epiteto di “vajassa” . Tutto piegato all’interesse di bottega e senza riguardo per il senso della misura e per ciò che è effettivamente avvenuto e che si riduce ad un puro e semplice episodio di dialettica politica: la ministra Carfagna ha provato a portare avanti un suo progetto che si scontra con quello di altri militanti del PDL e, a quanto pare, ha perso la partita perché Berlusconi ha scelto di sostenere i suoi avversari. Punto e basta! In un partito normale tutto si sarebbe risolto senza strepiti nell’ambito di una dinamica in cui il successo e l’insuccesso sono messe parimenti nel conto, nel PDL invece è scoppiata una vera e propria faida di tutti contro tutti in cui la lotta politica scade in una personalizzazione feroce che fa dei personaggi in campo prede di un safari che stride persino con la spregiudicatezza della nostra scalcagnata politica. Quale è il senso di tanto livore in una contesa degna di miglior causa? La signora Carfagna, qualunque sia quello che qualcuno con poca eleganza chiama il suo peccato d’origine, cioè la sua provenienza dagli ambienti dello spettacolo, col tempo ha ben figurato e ha portato avanti battaglie meritorie delle quali persino i suoi avversari politici le hanno dato atto. Ad un personaggio dello spettacolo, come Barbareschi, non è stata rimproverata la sua provenienza e nessuno si scandalizza per la sua elezione in Parlamento e per gli incarichi che sta ricoprendo nel neonato FLI. E allora perché tante riserve e tante grevi insinuazioni nei confronti di una donna che oltretutto sta ben meritando e sta dimostrando di che stoffa è fatta affermando che, non sentendosi tutelata dal partito, ne uscirà rinunciando sia all’incarico di ministro che al suo status di parlamentare e precisando che non aderirà a FLI con cui è stata sospettata di intendersela sotto banco? Se farà fede a quanto sostiene, dimostrerà di avere più attributi di tanti maschietti! E allora, ripeto, perché tante riserve e soprattutto tanto malanimo? E’ possibile che essi derivino dal solito irriducibile maschilismo da caserma che non concede sconti ad una donna intelligente perché è bella, è possibile che le mire di quest’ultima suscitino più di una perplessità sacrosanta o meno, che però andrebbe espressa con maggiore garbo politico, ma è più verosimile che tutto nasca dal fatto che nel PDL ormai da tempo si è perduta la bussola e tutto è affidato agli umori di chi un bel mattino si alza con l’uzzolo di sproloquiare senza conoscere l’abc dell’ortodossia politica. In definitiva anche gli altri contendenti non sono stati certo trattati con eleganza dalla signora Carfagna. E’ stupefacente come un partito padronale che dovrebbe essere gestito con criteri che mirano al profitto ( anche inteso nel senso più nobile di interesse generale ) sia lasciato alla mercé di una classe dirigente che ne sta sperperando il patrimonio. E’ come se la gestione di una multinazionale venisse affidata ad un amministratore di condominio e, laddove sarebbero necessari lungimiranza, capacità di mediazione, attenzione ad evitare inutili contrasti personali e tentazioni centrifughe, saggezza necessaria a gestire la complessità di anime così diverse, a tenere a bada le ambizioni non sempre sacrosante di arrembanti personaggi che hanno dato l’assalto alla diligenza, a scoraggiare piaggerie interessate, insomma laddove ci sarebbe bisogno di un Berlusconi, Berlusconi è mancato.
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martedì 23 novembre 2010
martedì 16 novembre 2010
Della solitudine
Si parla della solitudine e delle sue diverse categorie, se ne parla a proposito degli anziani ma non soltanto, se ne parla per motivi che hanno a che fare con l’età, e sono i più frequenti, ma anche per motivi che riguardano la banalità dell’esistenza o la sua drammaticità. Ernesto Galli della Loggia, con acutezza impareggiabile, ha fotografato la solitudine di Berlusconi consegnato da una sorta di cupio dissolvi all’autoisolamento. E’ nel destino degli uomini di potere fare i conti con la solitudine e con quella spada di Damocle che Dioniso di Siracusa faceva pendere attaccata ad un crine e che l’accorto uomo di potere si sforza di tenere lontana dalla propria testa. Berlusconi invece sembra impegnato a recidere il crine.
Non c’è dubbio che egli oggi sia un uomo solo, è un uomo che, pur capace di eccellenti intuizioni, non ha saputo realizzarle, pur capace di accumulare un credito enorme, lo ha sperperarlo sull’altare di una vocazione al suicidio che ha a che fare più con Freud che con la politica, è un uomo che ha mal tollerato una condizione di tranquillo potere ritenuta inadeguata alla sua dimensione debordante, al punto da provocarla in una sfida che lo ha visto avvitarsi su se stesso con più o meno consapevole masochismo. In una realtà spietata come la nostra le solitudini ricorrono spesso. E’ l’agguato più insidioso per gli anziani, specie per quelli che hanno concluso la loro vita lavorativa e avvertono un senso di inutilità. La mancanza di un contributo alla società li deprime. Man mano hanno perduto i valori di una intera esistenza, gli antichi amici, gli affetti più consolidati, e vivono smarriti una vita che sentono vuota. Ma c’è una solitudine più drammatica che Alberoni definisce solitudine da abbandono ed è quella che sta conoscendo Berlusconi, una solitudine che, contrariamente a quanto sostiene Bondi, è più umana che politica perché attiene ad una personalizzazione della politica che ha indotto il Presidente del Consiglio a scelte di pancia più che di testa. Gli asini che adesso scalciano ne sono una prova. E’ la solitudine figlia del fallimento che ti fa il vuoto attorno, dove la perdita di riferimenti certi che l’avanzare del tempo infligge con pietosa e graduale selezione, deflagra improvvisa e totale. E’ la solitudine che ti fa sperimentare la crudele fragilità della tua condizione, l’abiura dei sodali di un tempo che si ritraggono guardinghi, la condanna delle tue scelte da parte di chi fino a ieri ti incensava, la necrosi di antichi rapporti da cui si leva un fetore insopportabile e che rischia di condannarti ad una vita di rimorsi e rimpianti, incapace di sognare e progettare, che si rannicchia su se stessa e attende la fine.
Tuttavia quest’uomo ci ha abituato ai suoi scatti d’orgoglio, avventato e generoso, tosto e amante delle sfide, non è escluso che anche stavolta ce la faccia a uscire dall’angolo.
Si parla della solitudine e delle sue diverse categorie, se ne parla a proposito degli anziani ma non soltanto, se ne parla per motivi che hanno a che fare con l’età, e sono i più frequenti, ma anche per motivi che riguardano la banalità dell’esistenza o la sua drammaticità. Ernesto Galli della Loggia, con acutezza impareggiabile, ha fotografato la solitudine di Berlusconi consegnato da una sorta di cupio dissolvi all’autoisolamento. E’ nel destino degli uomini di potere fare i conti con la solitudine e con quella spada di Damocle che Dioniso di Siracusa faceva pendere attaccata ad un crine e che l’accorto uomo di potere si sforza di tenere lontana dalla propria testa. Berlusconi invece sembra impegnato a recidere il crine.
Non c’è dubbio che egli oggi sia un uomo solo, è un uomo che, pur capace di eccellenti intuizioni, non ha saputo realizzarle, pur capace di accumulare un credito enorme, lo ha sperperarlo sull’altare di una vocazione al suicidio che ha a che fare più con Freud che con la politica, è un uomo che ha mal tollerato una condizione di tranquillo potere ritenuta inadeguata alla sua dimensione debordante, al punto da provocarla in una sfida che lo ha visto avvitarsi su se stesso con più o meno consapevole masochismo. In una realtà spietata come la nostra le solitudini ricorrono spesso. E’ l’agguato più insidioso per gli anziani, specie per quelli che hanno concluso la loro vita lavorativa e avvertono un senso di inutilità. La mancanza di un contributo alla società li deprime. Man mano hanno perduto i valori di una intera esistenza, gli antichi amici, gli affetti più consolidati, e vivono smarriti una vita che sentono vuota. Ma c’è una solitudine più drammatica che Alberoni definisce solitudine da abbandono ed è quella che sta conoscendo Berlusconi, una solitudine che, contrariamente a quanto sostiene Bondi, è più umana che politica perché attiene ad una personalizzazione della politica che ha indotto il Presidente del Consiglio a scelte di pancia più che di testa. Gli asini che adesso scalciano ne sono una prova. E’ la solitudine figlia del fallimento che ti fa il vuoto attorno, dove la perdita di riferimenti certi che l’avanzare del tempo infligge con pietosa e graduale selezione, deflagra improvvisa e totale. E’ la solitudine che ti fa sperimentare la crudele fragilità della tua condizione, l’abiura dei sodali di un tempo che si ritraggono guardinghi, la condanna delle tue scelte da parte di chi fino a ieri ti incensava, la necrosi di antichi rapporti da cui si leva un fetore insopportabile e che rischia di condannarti ad una vita di rimorsi e rimpianti, incapace di sognare e progettare, che si rannicchia su se stessa e attende la fine.
Tuttavia quest’uomo ci ha abituato ai suoi scatti d’orgoglio, avventato e generoso, tosto e amante delle sfide, non è escluso che anche stavolta ce la faccia a uscire dall’angolo.
martedì 9 novembre 2010
A proposito di indegni e affini
Troppa grazia e tanta voglia di far male nei commenti al mio ultimo post. E' il bello dell'agorà dove la democrazia si dispiega pienamente e talvolta tracima in demagogia, dove tutti, anche i più sprovveduti, hanno il diritto di dire tutto, specie quelli che, al riparo dell'anonimato, possono in tutta tranquillità abbandonarsi al coraggio della viltà dando fondo ai loro istinti più malandrini. I commenti di cui sono stato oggetto esprimono tutti lo stesso concetto: Nino Mandalà è un indegno, una merdaccia, una vergogna che non ha diritto a niente e tanto meno a scrivere in un blog, andrebbe sepolto a vita in carcere, e altro che sarebbe troppo lungo elencare. Non me ne lamento, chi, come me, ha deciso di aprire una finestra sul mondo, deve sapere accettare il rischio degli schizzi che gli piovono addosso.
Non posso rispondere a tutti.
Accontento solo Pier che mi sfida a pubblicare la sua invettiva emblematica del campionario di fango dal quale sono stato investito. Eccola: "Quelli come voi andrebbero internati nei gulag senza processi, proprio come avete fatto con le vostre vittime, come avete fatto con la Sicilia".
Non posso accontentare invece Francesco che mi rimprovera di non scrivere nulla contro la mafia. Non posso Francesco perché ho ben chiaro che una mia iniziativa in tal senso non risulterebbe credibile e rischierebbe di apparire strumentale. Sono già stato accusato in passato di ciò e mi è bastato.
Non resisto infine al mio impulso e protesto contro Artiglio, Dizzy e altri che mi accusano di essere un assassino. Questo no, non lo posso accettare, anche alla più stupida delle cattiverie c'è un limite.
Per il resto che dire. Quando ho letto questi commenti, mi sono chiesto se merito tanta severità o se essa non sia il frutto avvelenato dei messaggi consegnati alla pancia di una opinione pubblica sprovvista degli anticorpi necessari a neutralizzare le manipolazioni, da parte di cattivi maestri senza tanti scrupoli che , sbattendo il mostro in prima pagina senza tanti complimenti e senza effettuare le dovute verifiche ma anzi falsificandone i risultati, fanno nascere, come in una macabra matrioska, da un mostro altri mostri con le sembianze dei bravi cittadini trasformati in altrettanti Robespierre, privati della loro innocenza, incitati all'esercizio della giustizia sommaria, nutriti d'odio, inviati ad una crociata che ha come obiettivo quello di avvelenare il clima nel quale far fiorire rendite di posizione. I bravi cittadini diventano così strumenti per la costruzione di carriere altrimenti impensabili, fatta salva l'onesta battaglia dei tanti che corrono i loro rischi senza secondi fini.
Di veleno in veleno perdiamo di vista ciò su cui dovremmo dibattere e Beccaria,Voltaire, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, le battaglie di principio dei radicali, diventano roba da rottamare in omaggio ai Torquemada da strapazzo che fanno a gara di intolleranza agitando il meglio del loro armamentario moraleggiante. Con buona pace del buon senso e del buon gusto.
Non posso rispondere a tutti.
Accontento solo Pier che mi sfida a pubblicare la sua invettiva emblematica del campionario di fango dal quale sono stato investito. Eccola: "Quelli come voi andrebbero internati nei gulag senza processi, proprio come avete fatto con le vostre vittime, come avete fatto con la Sicilia".
Non posso accontentare invece Francesco che mi rimprovera di non scrivere nulla contro la mafia. Non posso Francesco perché ho ben chiaro che una mia iniziativa in tal senso non risulterebbe credibile e rischierebbe di apparire strumentale. Sono già stato accusato in passato di ciò e mi è bastato.
Non resisto infine al mio impulso e protesto contro Artiglio, Dizzy e altri che mi accusano di essere un assassino. Questo no, non lo posso accettare, anche alla più stupida delle cattiverie c'è un limite.
Per il resto che dire. Quando ho letto questi commenti, mi sono chiesto se merito tanta severità o se essa non sia il frutto avvelenato dei messaggi consegnati alla pancia di una opinione pubblica sprovvista degli anticorpi necessari a neutralizzare le manipolazioni, da parte di cattivi maestri senza tanti scrupoli che , sbattendo il mostro in prima pagina senza tanti complimenti e senza effettuare le dovute verifiche ma anzi falsificandone i risultati, fanno nascere, come in una macabra matrioska, da un mostro altri mostri con le sembianze dei bravi cittadini trasformati in altrettanti Robespierre, privati della loro innocenza, incitati all'esercizio della giustizia sommaria, nutriti d'odio, inviati ad una crociata che ha come obiettivo quello di avvelenare il clima nel quale far fiorire rendite di posizione. I bravi cittadini diventano così strumenti per la costruzione di carriere altrimenti impensabili, fatta salva l'onesta battaglia dei tanti che corrono i loro rischi senza secondi fini.
Di veleno in veleno perdiamo di vista ciò su cui dovremmo dibattere e Beccaria,Voltaire, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, le battaglie di principio dei radicali, diventano roba da rottamare in omaggio ai Torquemada da strapazzo che fanno a gara di intolleranza agitando il meglio del loro armamentario moraleggiante. Con buona pace del buon senso e del buon gusto.
lunedì 1 novembre 2010
Carcere duro, voglia di equivocare
Il 41 bis è una pena detentiva che non ha come scopo "particolari modalità afflittive".
E' quanto sostiene il prof. Vittorio Grevi in un articolo apparso sul Corriere della Sera di ieri in cui contesta l'uso della formula "carcere duro" a proposito del 41 bis che egli pudicamente definisce "regime carcerario differenziato".
Si esprime esattamente così: "La formula carcere duro è fuorviante in quanto evoca modalità particolari afflittive di esecuzione della pena detentiva ( se non,addirittura,della carcerazione preventiva ), quasi che lo scopo fosse di aggiungere un "di più" di sofferenza a carico di soggetti già sottoposti a restrizione della libertà personale in carcere ( un pò come accadeva nei confronti dei detenuti in catene o vincolati dalla palla al piede....)" e conclude riconoscendo che, pur producendo in concreto "un grave irrigidimento delle modalità della vita detentiva, lo scopo non è quello di infliggere una maggiore afflizione fine a se stessa...bensì esclusivamente quello di evitare che si possano mantenere dal carcere illeciti collegamenti con l'associazione criminale d'appartenenza....appena una tale esigenza di sicurezza verso l'esterno dovesse venire meno, anche il relativo regime carcerario di rigore dovrebbe essere revocato".
Ci mancherebbe che il legislatore, nel varare una legge,lo facesse con lo scopo di affliggere i destinatari di essa, ma questo significa forse che il 41 bis non è un regime di carcere duro?
Vediamo di cosa parliamo.
Il 41 bis prevede una serie di restrizioni particolari rispetto alla detenzione solita. Il detenuto non ha alcuna possibilità di contatto fisico con i familiari, è sottoposto a censura sia per ciò che riguarda i colloqui che per la corrispondenza, è sclerotizzato nei rapporti con i suoi compagni,può usufruire in maniera limitata dell'area libera ( il cosiddetto passeggio nel cortile recintato ), ha diritto ad un'ora di colloquio al mese che spesso non è neanche fruito perché i familiari non hanno tutti i mesi la possibilità economica di coprire la lunga distanza che li separa dal luogo di detenzione. Si può ben dire che questi uomini sono murati vivi, tanto da avere suscitato un richiamo all'Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell'uomo e fatto dichiarare al suo presidente: "Ancora per l'Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l'associazione mafiosa, con grandi rischi per la salute psichica del carcerato". Detto questo, c'è da interrogarsi sulla congruenza di una misura che, dal punto di vista logico,mostra i suoi limiti. Contro la convinzione del prof. Grevi secondo cui, appena le esigenze di sicurezza verso l'esterno verranno meno, il 41 bis sarà revocato, parlano i dati relativi al persistere di esso per decenni nei confronti di detenuti che, si presume, in tutti questi anni non hanno potuto coltivare, grazie al 41 bis, rapporti con l'esterno.
Ho una discreta competenza in proposito e posso dire che uomini che hanno vissuto in quelle condizioni sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata. Che senso ha reiterare il 41 bis nei confronti di questi uomuni? E se invece si ritiene che,nonostante il 41 bis, questi uomini hanno continuato a mantenere illeciti rapporti con l'esterno durante tanti lunghi anni,significa che il 41 bis ha fallito, e allora che senso ha tenerlo in vita tranne quello di attribuirgli uno scopo afflittivo?
Io dico che il 41 bis, per le considerazioni che ho espresso e con riguardo alla necessità di contemperare esigenze di sicurezza con esigenze di equità, è una misura che può benissimo essere sostituita da un efficace regime ordinario esercitato con gli strumenti a disposizione del DAP.
Per quanto concerne poi il fatto che esso debba essere considerato o no regime duro, sarà pur vero che il suo scopo non è afflittivo ma è vero altresì che la sua natura ha finito per essere crudele con buona pace dei virtuosismi eristici del prof. Grevi.
Non manco mai di proporre , quando se ne presenta l'occasione, la lettura di un brano della lettera di un detenuto in regime di 41 bis e continuerò a riproporla ancora in futuro nella speranza che essa giunga al cuore del Ministro di Grazia e Giustizia: "Dopo i primi quindici minuti consentiti il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me, incontrò il vetro divisorio e batté le mani contro di esso credendo in un gioco,sorrise ancora e ancora batté le mani, poi il sorriso si tramutò in un singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere sempre più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi acchioni spalancati e sgomenti".
Non vogliamo dire che il 41 bis è un regime di carcere duro? Diciamo allora che è un regime odioso!
E' quanto sostiene il prof. Vittorio Grevi in un articolo apparso sul Corriere della Sera di ieri in cui contesta l'uso della formula "carcere duro" a proposito del 41 bis che egli pudicamente definisce "regime carcerario differenziato".
Si esprime esattamente così: "La formula carcere duro è fuorviante in quanto evoca modalità particolari afflittive di esecuzione della pena detentiva ( se non,addirittura,della carcerazione preventiva ), quasi che lo scopo fosse di aggiungere un "di più" di sofferenza a carico di soggetti già sottoposti a restrizione della libertà personale in carcere ( un pò come accadeva nei confronti dei detenuti in catene o vincolati dalla palla al piede....)" e conclude riconoscendo che, pur producendo in concreto "un grave irrigidimento delle modalità della vita detentiva, lo scopo non è quello di infliggere una maggiore afflizione fine a se stessa...bensì esclusivamente quello di evitare che si possano mantenere dal carcere illeciti collegamenti con l'associazione criminale d'appartenenza....appena una tale esigenza di sicurezza verso l'esterno dovesse venire meno, anche il relativo regime carcerario di rigore dovrebbe essere revocato".
Ci mancherebbe che il legislatore, nel varare una legge,lo facesse con lo scopo di affliggere i destinatari di essa, ma questo significa forse che il 41 bis non è un regime di carcere duro?
Vediamo di cosa parliamo.
Il 41 bis prevede una serie di restrizioni particolari rispetto alla detenzione solita. Il detenuto non ha alcuna possibilità di contatto fisico con i familiari, è sottoposto a censura sia per ciò che riguarda i colloqui che per la corrispondenza, è sclerotizzato nei rapporti con i suoi compagni,può usufruire in maniera limitata dell'area libera ( il cosiddetto passeggio nel cortile recintato ), ha diritto ad un'ora di colloquio al mese che spesso non è neanche fruito perché i familiari non hanno tutti i mesi la possibilità economica di coprire la lunga distanza che li separa dal luogo di detenzione. Si può ben dire che questi uomini sono murati vivi, tanto da avere suscitato un richiamo all'Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell'uomo e fatto dichiarare al suo presidente: "Ancora per l'Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l'associazione mafiosa, con grandi rischi per la salute psichica del carcerato". Detto questo, c'è da interrogarsi sulla congruenza di una misura che, dal punto di vista logico,mostra i suoi limiti. Contro la convinzione del prof. Grevi secondo cui, appena le esigenze di sicurezza verso l'esterno verranno meno, il 41 bis sarà revocato, parlano i dati relativi al persistere di esso per decenni nei confronti di detenuti che, si presume, in tutti questi anni non hanno potuto coltivare, grazie al 41 bis, rapporti con l'esterno.
Ho una discreta competenza in proposito e posso dire che uomini che hanno vissuto in quelle condizioni sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata. Che senso ha reiterare il 41 bis nei confronti di questi uomuni? E se invece si ritiene che,nonostante il 41 bis, questi uomini hanno continuato a mantenere illeciti rapporti con l'esterno durante tanti lunghi anni,significa che il 41 bis ha fallito, e allora che senso ha tenerlo in vita tranne quello di attribuirgli uno scopo afflittivo?
Io dico che il 41 bis, per le considerazioni che ho espresso e con riguardo alla necessità di contemperare esigenze di sicurezza con esigenze di equità, è una misura che può benissimo essere sostituita da un efficace regime ordinario esercitato con gli strumenti a disposizione del DAP.
Per quanto concerne poi il fatto che esso debba essere considerato o no regime duro, sarà pur vero che il suo scopo non è afflittivo ma è vero altresì che la sua natura ha finito per essere crudele con buona pace dei virtuosismi eristici del prof. Grevi.
Non manco mai di proporre , quando se ne presenta l'occasione, la lettura di un brano della lettera di un detenuto in regime di 41 bis e continuerò a riproporla ancora in futuro nella speranza che essa giunga al cuore del Ministro di Grazia e Giustizia: "Dopo i primi quindici minuti consentiti il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me, incontrò il vetro divisorio e batté le mani contro di esso credendo in un gioco,sorrise ancora e ancora batté le mani, poi il sorriso si tramutò in un singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere sempre più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi acchioni spalancati e sgomenti".
Non vogliamo dire che il 41 bis è un regime di carcere duro? Diciamo allora che è un regime odioso!
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