Il ministro Maroni dal Cairo, dove è andato per discutere di immigrazione, ci ha fatto conoscere il suo punto di vista sul ddl governativo che consente ai detenuti di scontare l’ultimo anno di carcere a casa. Egli ha dettato all’Ansa un comunicato che suona così: “Abbiamo una valutazione negativa sull’impatto del cosiddetto disegno di legge svuota carceri che è peggio di un indulto visto che gli effetti non sarebbero una tantum ma per sempre”. Il disegno di legge che allarma tanto il ministro dell’interno ha l’obiettivo di smaltire una parte dell’esubero dei detenuti che in numero di 67.000 sono ammassati in carceri che ne possono ospitare 44.000 ed è stato votato dal nostro all’unanimità con i suoi colleghi nel consiglio dei ministri del 13 gennaio.
Che cosa ha spinto il ministro a cambiare idea?
Egli sostiene che 10.000 nuovi detenuti ai domiciliari provocherebbero un collasso dei controlli dal momento che la polizia non ha un organico sufficiente per assicurarli, tranne che non si instauri il sistema dei braccialetti elettronici che però non darebbero sufficienti garanzie. Il ministro omette di riferire che, a parte le insufficienti garanzie, il braccialetto elettronico costa l’ira di Dio. Ed omette anche di avanzare una proposta alternativa a quella del ddl che non sia il sempre annunciato e mai realizzato piano carceri.
Per lui è importante che i detenuti stiano al sicuro in carcere e non turbino la quiete dei cittadini e pazienza se vivono pigiati come in una stia. Ma è poi vero che più carcere vuol dire maggiore sicurezza? E se è un problema di sicurezza, come la mettiamo con i detenuti che, dopo avere scontato l’intera pena in carcere, tornano in libertà? Li arrestiamo di nuovo perché non siamo in grado di controllarli? Se invece facessimo altre valutazioni rispetto a quelle fatte dal ministro, giungeremmo a conclusioni diverse. La verità è che non sempre il carcere vuol dire più sicurezza e che il problema va affrontato con un approccio diverso da quello unicamente repressivo. Non vogliamo fare proclami su progetti di redenzione del detenuto che, per come sono strutturate le nostre carceri, sappiamo senza speranza, ma limitarci a un minimo di comunissimo buon senso che ci aiuterebbe a risolvere un problema di dignità senza troppi costi e rischi, anzi con una ricaduta positiva.
Sul Corriere della Sera Luigi Ferrarella scrive: “Solo 4 detenuti su 1000, fra coloro che espiano almeno una parte della loro pena in una delle misure alternative al carcere sotto l’egida dei servizi sociali, commettono un reato in questa delicata fase. Non solo: una volta esaurita la pena, mentre i detenuti che l’hanno scontata tutta in carcere tornano a delinquere nel 67% dei casi, quanti invece hanno espiato parte della pena fuori dal carcere ricommettono un reato in misura tre volte più bassa, attorno al 19% dei casi.”
Meno carcere dunque, più pene alternative, maggiore sicurezza e, come conclude Ferrarella, “se la politica non se la sente di prendere atto dell’insostenibile situazione delle persone “dentro”, almeno potrebbe farlo nell’interesse della sicurezza di quelle “fuori”.
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