Sono stato per un breve periodo compagno di cella di Peppe e ho imparato a capire quanto egli sia tignoso ai limiti dell’autolesionismo. Guascone, provocatorio, libertario, letterato, poeta e, come lui stesso si definisce, anarchico, non conosce limiti a sé stesso, figurarsi se tollera i confini della cella in cui è rinchiuso da anni. Infatti dalla sua cella è evaso da tempo volando, oltre le mura del carcere, a cavallo della sua anima ribelle libratasi verso gli sconfinati spazi della sua Utopia, volteggiante sulla sua amata Selinunte. Il suo corpo, ahimè, no, quello è rimasto in cella a fare i conti con la quotidianità angosciante della carcerazione, resa ancora più angosciante dalla stupidità e dall’arroganza.
So di che cosa parlo perché ho sperimentato la detenzione a Pagliarelli e ho imparato a mie spese che cosa significa confrontarsi tutti i giorni che Dio manda, vuoi con la burbanzosa alterigia dell’agente dalla luna storta che per un giorno si è portato appresso problemi domestici ed esistenziali da scaricare sul detenuto, vuoi con la demenzialità di regolamenti interpretati con sadica ottusità, vuoi con le angherie di un sistema inefficiente, vuoi con .la tua anima che quel giorno non ha voluto saperne di volare, vuoi con la paura che la tua vita dipenda dalla buona sorte che decide se la tua patologia è degna di attenzione. So di che cosa parlo perché a Pagliarelli della mia polimiosite ho rischiato di morire. So di che cosa parlo perché ho vissuto l’esperienza di traduzioni infinite, in ceppi, col carico di zaini ricolmi di povere cose e dei miei settant’anni.
So di che cosa parlo perché so cosa significa trascorrere venti delle ventiquattrore della giornata tra quattro mura a dividere il cibo, le abitudini, lo spazio, la televisione, le flatulenze con un altro essere umano carico della sua rabbia pronta ad esplodere.
So di che cosa parlo perché due scioperi della fame intrapresi col furore delle mie ragioni, si sono infranti contro l’indifferenza dei miei compagni e della direzione che considerava l’iniziativa un attentato alla propria autorità e una sfida da combattere fino alle estreme conseguenze da far patire solo alla mia testardaggine.
So che lo sciopero della fame e della sete iniziato da Peppe Fontana il due e interrotto il nove marzo, probabilmente perché una volta tanto la ragionevolezza ha avuto la meglio sulla cocciutaggine di Peppe, ha scongiurato un epilogo drammatico, ma so anche che l’interruzione dello sciopero non annulla il valore di una protesta con la quale Peppe denuncia un vulnus e lancia una richiesta di solidarietà su una vicenda drammatica nella sua specificità ma anche emblematica di un sistema di potere ottuso, che non merita di essere archiviata dalla solita coltre di indifferenza riservata al mondo delle carceri.
L’esito della battaglia di Peppe dipende anche da noi e da quello che il nostro cuore ci detterà di fare.
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