La legge nr. 109 del 1996 introduce le nuove disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati e confiscati ad appartenenti ad associazioni mafiose. La legge prosegue l'indirizzo della legge Rognoni/La Torre e del decreto legge 1989 che davano corpo all'intuizione di La Torre prima e di DAlla Chiesa dopo secondo cui la criminalità organizzata ha il suo tallone d' Achille nel patrimonio il cui prosciugamento equivale all'esaurimento della fonte alla quale attinge la vita di un organismo. La nuova legge, contrariamente alle precedenti che non prevedevano procedure di gestione e riutilizzo e il divieto di vendita, prevede sia l'uso sociale che il divieto di vendita del bene confiscato. I risultati raggiunti sono confortanti e dicono di realtà le quali si stanno cimentando in un impegno che dà speranza a giovani e a forze produttive realizzando lo scopo sociale della legge. Cooperative, Associazioni, Comunità ed Enti si misurano con successo in un impegno che trae da patrimoni illeciti leciti guadagni. Sembrerebbe tutto ben indirizzato non solo verso una rivincita della legalità ma anche verso un riscatto sociale, eppure non mancano le note dolenti. Come sempre quando si tratta di lotta alla mafia si cade nel giacobinismo caro a quanti con la furia del loro impegno travolgono il buon senso e buttano assieme all'acqua sporca dell'illecito, il bambino degli elementari diritti. Sopravviene una sorta di sacro furore che, combattendo l'illecito, non si cura delle regole, non guarda tanto per il sottile pur di fare pulizia e, per dirla con Ostellino, non si limita "alla ricerca di quella (parziale) verità che è la Giustizia ma pretende di cambiare il mondo".
Dico questo a ragion veduta e per esperienza diretta.
Mi sono stati sequestrati due immobili ed un libretto a risparmio con la motivazione che essi avevano un provenienza illecita. La loro valutazione è stata calcolata in diversi milioni di euro con ampio risalto sulla stampa che ha parlato di un duro colpo inferto ad un ingente patrimonio mafioso. Ebbene il Tribunale per le misure di prevenzione mi ha restituito gli immobili sequestrati con la motivazione che essi provengono da una donazione lecitissima risalente al 1969 fattami da mia madre che a sua volta aveva ereditato dal padre con testamento del 1953. Il valore accertato degli immobili è di euro 300.000,00 (trecentomila) e il "tesoro illecito" contenuto nel libretto a risparmio ammonta a ben...... euro 120,00 (centoventi). Ci voleva molto a fare un accertamento più rigoroso prima dell'emissione del provvedimento di sequestro?
Debbo presumere che il mio non sia un episodio isolato e che l'incubo vissuto da me e dalla mia famiglia durante il lungo anno trascorso prima che si giungesse a soluzione sia una costante ricorrente in un sistema che fa a meno delle verifiche ante e, pur di menar vanto, enfatizza i risultati raggiunti. Una maggiore oculatezza nelle indagini e una minore approssimazione nella valutazione dei patrimoni contribuirebbe ad una maggiore credibilità della legge, farebbe risparmiare soldi all'erario ed eviterebbe inutili sofferenze. Ma la sofferenza non è la sola protagonista nell'applicazione della 109. Purtroppo la funzione sociale data ad essa suona come una vera e propria beffa alla luce dei risultati disastrosi generati dalla gestione delle aziende sequestrate e successivamente confiscate. Un'azienda, anche se ha una matrice illecita, durante il suo cammino assume una valenza che nasce dall'abilità di chi la gestisce e una funzione sociale che le deriva dalla sua capacità occupazionale. Il sequestro e la confisca di una azienda pongono un problema che non può prescindere dal valore sociale di essa e chi si assume l'onere della gestione assume anche un obbligo morale nei confronti dei dipendenti dell'azienda. Persino l'imprenditore mafioso, mano a mano che l'azienda cresce, si innamora di essa e, per quanto possa sembrare incredibile, contrae, per un fatto morale o di orgoglio, un patto con i lavoratori assieme ai quali gioisce dei risultati positivi e soffre dei fallimenti, lavora gomito a gomito condividendo le sorti dell'azienda con la consapevolezza che esse sono anche le sorti dei dipendenti. Mancando questa figura, la vita e il futuro di uno come di decine di lavoratori sono destinati ad essere sacrificati sull'altare della fiscalità formale, dell'incompetenza e della incapacità gestionale di un amministratore giudiziario dalla fedina immacolata ma privo dello spirito di sacrificio e dell'amore per l'azienda che connotano chi visceralmente la vive. La storia dei patrimoni sequestrati e confiscati è anche la storia di aziende che, nella maggior parte dei casi, non fanno in tempo a passare dalla fase del sequestro a quella della confisca e che già nella prima fase vanno in malora assieme al futuro di tanti lavoratori e con buona pace della funzione sociale assegnata alla legge.
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domenica 28 marzo 2010
Il Rovistatore
Lo vidi, nell'incerta luce del crepuscolo, guardingo e con il volto seminascosto, mentre, piegato sul cassettone dell'immondizia, rovistava. Mi colpì l'insolito contrasto tra l'abbigliamento dignitoso di quest'uomo canuto, dall'aria decorosa e mite, e i lerci avanzi di altrui opulenze. In bilico sul bordo del cassettone, sceglieva rapidamente quello che gli serviva e lo riponeva in una busta di plastica, sollevava a tratti la testa a guardare attorno con aria circospetta, poi riprendeva a rovistare. Sentì il mio sguardo su di lui, si girò di scatto, mi fisso con aria implorante avvampando di vergogna e fuggì portando con sè un pezzo del mio cuore e l'altro pezzo lasciandolo alle prese con i suoi rimorsi.
Il Sacerdote
Il Sacerdote imperversa imperterrito sulla scena della desolante società civile. Egli si esprime con "fecimo" ed "ebbimo" fiero della sua rozzezza che brandisce con l'orgogliosa noncuranza di chi ha ben altro da fare che curarsi della forma. Ha una missione da compiere, quella di salvare il mondo, di redimerlo dalle zozzure, di pulirlo dalle sue incrostazioni corrotte con un passione la cui purezza non tollera di essere intralciata da leziosità lessicali. Non importa se dietro la sua approssimazione formale si annida una altrettanta approssimazione sostanziale, è importante che la sua purezza ideologica possa dilagare senza ostacoli. Novello Eutifrone, egli si erge a paladino della giustizia purchè sia punitiva e senza appello, stabilisce ciò che giusto e ingiusto, ciò che è santo e ciò che è empio e, assiso sulle sue farisaiche certezze, decide di accusare il padre per non contaminarsi, ritenendo santo ciò che è empio e confondendo i piani della morale. In verià è gretto, intollerante, fanatico e procede nella sua crociata perchè spinto dalla sua meschinità d'animo alla quale la sua ambizione e malvagità assegnano destini gloriosi. Egli avvelena l'acqua del pozzo cui un popolo dabbene e sprovveduto si abbevera preparando il processo a Socrate e tuona, a cavallo del suo delirio, evocando lo spettro del tiranno, incitando all'odio e pregustando il luogo della vergogna, un Piazzale Loreto prossimo venturo.
giovedì 11 marzo 2010
Peppe Fontana
Sono stato per un breve periodo compagno di cella di Peppe e ho imparato a capire quanto egli sia tignoso ai limiti dell’autolesionismo. Guascone, provocatorio, libertario, letterato, poeta e, come lui stesso si definisce, anarchico, non conosce limiti a sé stesso, figurarsi se tollera i confini della cella in cui è rinchiuso da anni. Infatti dalla sua cella è evaso da tempo volando, oltre le mura del carcere, a cavallo della sua anima ribelle libratasi verso gli sconfinati spazi della sua Utopia, volteggiante sulla sua amata Selinunte. Il suo corpo, ahimè, no, quello è rimasto in cella a fare i conti con la quotidianità angosciante della carcerazione, resa ancora più angosciante dalla stupidità e dall’arroganza.
So di che cosa parlo perché ho sperimentato la detenzione a Pagliarelli e ho imparato a mie spese che cosa significa confrontarsi tutti i giorni che Dio manda, vuoi con la burbanzosa alterigia dell’agente dalla luna storta che per un giorno si è portato appresso problemi domestici ed esistenziali da scaricare sul detenuto, vuoi con la demenzialità di regolamenti interpretati con sadica ottusità, vuoi con le angherie di un sistema inefficiente, vuoi con .la tua anima che quel giorno non ha voluto saperne di volare, vuoi con la paura che la tua vita dipenda dalla buona sorte che decide se la tua patologia è degna di attenzione. So di che cosa parlo perché a Pagliarelli della mia polimiosite ho rischiato di morire. So di che cosa parlo perché ho vissuto l’esperienza di traduzioni infinite, in ceppi, col carico di zaini ricolmi di povere cose e dei miei settant’anni.
So di che cosa parlo perché so cosa significa trascorrere venti delle ventiquattrore della giornata tra quattro mura a dividere il cibo, le abitudini, lo spazio, la televisione, le flatulenze con un altro essere umano carico della sua rabbia pronta ad esplodere.
So di che cosa parlo perché due scioperi della fame intrapresi col furore delle mie ragioni, si sono infranti contro l’indifferenza dei miei compagni e della direzione che considerava l’iniziativa un attentato alla propria autorità e una sfida da combattere fino alle estreme conseguenze da far patire solo alla mia testardaggine.
So che lo sciopero della fame e della sete iniziato da Peppe Fontana il due e interrotto il nove marzo, probabilmente perché una volta tanto la ragionevolezza ha avuto la meglio sulla cocciutaggine di Peppe, ha scongiurato un epilogo drammatico, ma so anche che l’interruzione dello sciopero non annulla il valore di una protesta con la quale Peppe denuncia un vulnus e lancia una richiesta di solidarietà su una vicenda drammatica nella sua specificità ma anche emblematica di un sistema di potere ottuso, che non merita di essere archiviata dalla solita coltre di indifferenza riservata al mondo delle carceri.
L’esito della battaglia di Peppe dipende anche da noi e da quello che il nostro cuore ci detterà di fare.
So di che cosa parlo perché ho sperimentato la detenzione a Pagliarelli e ho imparato a mie spese che cosa significa confrontarsi tutti i giorni che Dio manda, vuoi con la burbanzosa alterigia dell’agente dalla luna storta che per un giorno si è portato appresso problemi domestici ed esistenziali da scaricare sul detenuto, vuoi con la demenzialità di regolamenti interpretati con sadica ottusità, vuoi con le angherie di un sistema inefficiente, vuoi con .la tua anima che quel giorno non ha voluto saperne di volare, vuoi con la paura che la tua vita dipenda dalla buona sorte che decide se la tua patologia è degna di attenzione. So di che cosa parlo perché a Pagliarelli della mia polimiosite ho rischiato di morire. So di che cosa parlo perché ho vissuto l’esperienza di traduzioni infinite, in ceppi, col carico di zaini ricolmi di povere cose e dei miei settant’anni.
So di che cosa parlo perché so cosa significa trascorrere venti delle ventiquattrore della giornata tra quattro mura a dividere il cibo, le abitudini, lo spazio, la televisione, le flatulenze con un altro essere umano carico della sua rabbia pronta ad esplodere.
So di che cosa parlo perché due scioperi della fame intrapresi col furore delle mie ragioni, si sono infranti contro l’indifferenza dei miei compagni e della direzione che considerava l’iniziativa un attentato alla propria autorità e una sfida da combattere fino alle estreme conseguenze da far patire solo alla mia testardaggine.
So che lo sciopero della fame e della sete iniziato da Peppe Fontana il due e interrotto il nove marzo, probabilmente perché una volta tanto la ragionevolezza ha avuto la meglio sulla cocciutaggine di Peppe, ha scongiurato un epilogo drammatico, ma so anche che l’interruzione dello sciopero non annulla il valore di una protesta con la quale Peppe denuncia un vulnus e lancia una richiesta di solidarietà su una vicenda drammatica nella sua specificità ma anche emblematica di un sistema di potere ottuso, che non merita di essere archiviata dalla solita coltre di indifferenza riservata al mondo delle carceri.
L’esito della battaglia di Peppe dipende anche da noi e da quello che il nostro cuore ci detterà di fare.
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