Natale e non sentirlo, perché quella nascita di 2000 anni fa
è stata tradita e Dio è morto nel cuore degli uomini. Privi dei dubbi e paghi
delle nostre conquiste ci sentiamo Dei noi stessi, rinunciamo al fascino di
quell’avventura che Platone chiamava eros, la scalata dell’uomo verso il
trascendente, e ci areniamo nelle secche di una immanenza dozzinale dal respiro
corto. Sentiamo solo le verità che ci vengono propinate dal politicamente
corretto nell’enorme agorà digitale, la rete che ha trasformato l’interlocuzione
in un dialogo tra sordi, un vaneggiamento intriso d’intolleranza, un deserto
desolante dove le relazioni si fondano su
fonti senza controllo piuttosto che sulla nostra conoscenza diretta, su
opinioni e pregiudizi di altri che decidono per noi senza che ne abbiamo
consapevolezza, sul rancore e le frustrazioni che si autoalimentano entro i
confini di un mondo autistico chiuso ad ogni verifica e proteso verso crudeltà
gratuite. Vi navighiamo in mezzo zigzagando indolenti e ci giriamo dall’altra
parte sordi alla sofferenza che ci circonda, incapaci di leggere dentro il
nostro cuore mentre precipitiamo nel baratro alla mercé dei maitres à penser
che colonizzano le nostre menti e generano schiere di zombi in marcia verso il nulla. Patiamo il nostro
malessere e non lo percepiamo mentre scava nel vuoto della nostra coscienza.
Che resterà di noi quando le élite che ci governano saranno fagocitate
dall’intelligenza artificiale, il mostro che hanno creato? A Natale celebriamo il
funerale della nostra umanità e il sacrificio degli scarti della società che la
nostra cattiva coscienza ha confinato nelle ridotte degli appestati. Quest’anno
l’emblema della nostra perduta umanità è il sindaco di Como impegnato nella
crociata contro i clochard in difesa del decoro cittadino. Buon Natale a lui e
pazienza se nelle nostre pingui città i reietti all’addiaccio tirano le cuoia,
come è accaduto in questi giorni a Palermo, buon Natale ai bravi cittadini
impegnati a festeggiare l’annuale appuntamento
col rito pagano della crapula, e pazienza se un numero sempre maggiore
di paria conosce la nuova condizione di povertà che li ha artigliati
infischiandosi del clima festivo, se i figli di un Dio minore vivono il loro calvario
sparsi nei luoghi della sofferenza, lambiti dall’eco lontana dell’empio
frastuono natalizio.
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domenica 24 dicembre 2017
mercoledì 13 dicembre 2017
Credere nella giustizia
Con il suo solito senso d’umanità Totò Cuffaro ha preso
posizione sulla vicenda Dell’Utri stigmatizzando il trattamento riservato dallo
Stato all’ex senatore ma non mancando di dichiarare che continua ad avere
fiducia nella giustizia. Il dottore Cuffaro non me ne voglia, ma ho
l’impressione che egli si sia avvitato in una sorta di cortocircuito ossimorico.
Come può infatti egli dichiarare di avere fiducia nella stessa giustizia che
dichiara di contestare? E’ una contraddizione in termini. Continuare a credere
nella giustizia così come è amministrata da questo Stato, dottore Cuffaro, nonostante
la vicenda Dell’Utri e la tragedia di tanti disgraziati finiti nell’inferno del
41 bis, continuare a credere in questa giustizia avendo come costante compagno
il ricordo del mio dirimpettaio di cella privo di tutte e due le gambe amputate
a causa di un diabete maligno che gli aveva eroso le ossa, e tuttavia costretto
ad arrancare in carcere nella sedia a rotelle, continuare a credere nella
giustizia di questo Stato e pensare ad Enrico affetto da AIDS che trascinava
quello che era rimasto del suo povero corpo in attesa di morire, o a Vincenzo
che con la sua bocca sdentata e il suo sguardo mite mi rivolgeva una muta
domanda per capire il motivo della sua detenzione a ottant’anni, lontano
dall’ultimo affetto che gli restava, una figlia allo sbando, continuare a
credere nella giustizia e sentire echeggiare nella mia mente le urla disumane di
un uomo che ha gridato invano il suo dolore per cinque interminabili notti fino
a che non è stato condotto in ospedale
giusto in tempo perché il suo cuore scoppiasse, continuare a credere nella
giustizia nonostante sia rimasto immobilizzato e senza cure nella branda della
cella per 10 giorni con una polimiosite devastante che ha messo a rischio la
mia vita fino a quando, invece di ricoverarmi d’urgenza, non mi hanno
trasferito in quelle condizioni da Pagliarelli a Voghera e lì mi hanno salvato
grazie alla esterrefatta pietà del medico di quel carcere, credere nella
giustizia nonostante il ricordo degli spazi angusti in cui ero costretto in
compagnia di una umanità che mescolava le proprie miserabili esigenze senza il
pudore di una pur minima dignità umana, nonostante i mille casi Dell’Utri che
non vengono allo scoperto perché i loro titolari non hanno la notorietà del
senatore? E’ questa giustizia? No dottore Cuffaro, riesce difficile avere
fiducia in una giustizia che pratica la tortura e rende attuale, a distanza di
millenni, il pessimismo di Trasimaco al
quale Platone fa dire che la giustizia è l’interesse del più forte, un universo
spietato dove persino alla sofferenza è riservato un trattamento diseguale a
seconda del censo. Se ne è avuta la prova proprio con la vicenda Dell’Utri che
ha visto insorgere i soliti sepolcri imbiancati dalla doppia morale che, mentre
piangono per la sorte di quello che sentono come uno di loro, ignorano la
sofferenza dei tanti infelici senza santi in paradiso, per i quali anzi
invocano pene più severe. Anche questa, dottore Cuffaro, è ingiustizia. Avrei voluto dirle tutto ciò in occasione
della presentazione del suo libro lunedì al Don Bosco ma ho desistito perché mi
sono reso conto che il contesto non si prestava e perché, lo debbo confessare, non
me la sono sentita di affrontare le narici fumanti della straripante folla dei
suoi amici in platea.
lunedì 11 dicembre 2017
La sindrome dell'emergenza
Lo Stato ha vinto la lotta contro la mafia, il giocattolo si
è rotto. Quanti hanno condotto la giusta battaglia avendo anche come obiettivo
collaterale una visibilità che li proiettasse verso carriere altrimenti
impensabili, si debbono rassegnare, con la vittoria hanno realizzato anche una
sconfitta, quella delle loro ambizioni. Ed è inutile praticare la respirazione
bocca a bocca a un cadavere agitando lo spettro di una emergenza che non c’è e ricorrendo
per questo scopo a mistificazioni. E’ un pessimo servizio alla verità far
passar per mafiosi malecarni che sono solo le grottesche controfigure degli
autentici mafiosi, esemplari della bassa manovalanza criminale improbabili
nelle vesti di mammasantissima che però, grazie a questa operazione di
maquillage, tornano utili per tenere viva la sindrome dell’emergenza mafiosa. Nessuno
mi può convincere che quei quattro scappatidicasa incappati nelle ultime
retate, in palese crisi di una identità che cercano di recuperare annacandosi, siano
gli eredi di quella che fu Cosa nostra. Un altro pessimo servizio alla verità è
il modo in cui è stata declinata la vicenda delle esternazioni di Riina
intercettate in carcere. Appare evidente
a chiunque che lo sproloquio di Riina era lo sfogo rabbioso di un uomo in
gabbia e ormai fuori gioco che ruggiva senza avere i denti per addentare. A chi
poteva far pervenire la sua voglia di uccidere il dottore Di Matteo il capo dei
capi? Ristretto in regime di 41 bis, come faceva a superare le maglie di una
delle censure più severe al mondo e far giungere un suo messaggio all’esterno? Appare chiaro che, se fosse rimasto confinato
entro le mura del carcere, quello sfogo non avrebbe costituito alcun pericolo,
un pericolo lo è diventato nel momento in cui è stato propalato e ha rischiato
di diventare un messaggio per gli accoliti di Riina. Il dottore Di Matteo deve
quindi ringraziare gli zelanti cultori dell’emergenza per il servizio che gli
hanno reso, agitando per puro calcolo lo spettro di un pericolo che in partenza
non esisteva e mettendo, loro si, a rischio la sua vita pur di cavalcare un
redditizio clima d’allarme. L’accusa di Sgarbi secondo cui la vicenda è stata
montata ad arte per promuovere l’immagine del dottore Di Matteo, appartiene
alla sua convinzione e ne risponde solo lui, ma non c’è dubbio che il clima
preoccupa. Dal governo dei filosofi di Platone passando per la volontà generale
di Rousseau, siamo arrivati alla repubblica dei magistrati. I magistrati,
guardiani della democrazia, si propongono quali protagonisti di essa in un
conflitto di interessi che fa coincidere il controllore col controllato. Ci
sono tutte le avvisaglie di questa deriva e chi ha a cuore la sorte del nostro
futuro democratico, ha il dovere di combattere il pericolo di una dittatura del Grande Fratello
che fa dell’etica il suo fine e tutto scruta con sospetto (il sospetto, si sa,
è l’anticamera della verità), su tutto vigila, presumendo la colpevolezza di
ciascuno fino a prova contraria e candidando tutti a vestire prima o poi i
panni di imputati.
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